Morini è ripartito dal Cile senza poter vedere il mondiale di Viviani. Col veronese è rimasto Marco Bertini, mentre Fred è ripartito con il gruppo dei più giovani. La vittoria l’hanno vista insieme durante lo scalo di Parigi, ma ovviamente non è stato come seguirla dal centro della pista. Bertini è legato a Viviani da più anni, nessun problema per Fred nell’accontentare il collega.
Quando ci parlammo alla fine dei mondiali di Kigali (in apertura con la mascotte dell’evento), Morini ci confidò che quelli su pista sarebbero stati gli ultimi. Perciò, ora che la trasferta cilena è finita, abbiamo pensato di verificare se rimarrà saldo nel proposito. Quelli di Santiago del Cile sono stati davvero gli ultimi mondiali per l’umbro che fu professionista per due stagioni e dovette ritirarsi per un grave incidente alla schiena conseguenza di una caduta in allenamento?
«Potrebbe essere – dice, sorride e già un po’ tentenna – anche se in queste ore abbiamo iniziato a parlarne. La mia attività si è ampliata e un po’ di presenza in più a casa è necessaria, anche per i figli. Le giornate diventano sempre tante. Ti aggiungono un ritiro oppure una gara. Nell’ultimo periodo ho fatto il mondiale in Africa e poi sono andato in Cile. Mi avevano chiesto di fare due ritiri in più prima del Cile, ma ho detto che non ce la facevo».


Che cosa ti ha dato finora tutto questo azzurro?
Sono molto sincero, mi ha ridato tanto di quello che mi è mancato negli anni da atleta. Ho dovuto smettere presto e vivere certe emozioni mi ha fatto pareggiare qualche conto. Non perché io avrei vinto i mondiali o le classiche, però mi sarebbe piaciuto essere in una squadra che le vinceva. Non è stato possibile, ma in questo senso la nazionale sicuramente mi ha restituito tanto. Mi ha dato anche un po’ di visibilità, devo essere grato al ciclismo anche per questo. In più mi ha dato anche quelli che potrei definire i buoni valori che proviamo a trasmettere ai più giovani.
Di cosa stai parlando?
Le nuove generazioni arrivano, hanno più pretese e meno attenzioni, ricevono meno gesti educativi. Una volta nelle squadre c’era più severità. Nella nazionale di Fusi, finivi di pranzare e dovevi rimettere la sedia sotto il tavolo. Non potevi prendere la forchetta fino a che non fossero tutti a tavola. Non avresti mai mangiato con il berretto in testa, invece oggi arrivano con le cuffie, parlano, ascoltano musica e pranzano con il compagno accanto.
Si riesce a far passare messaggi di questo tipo?
Sì, con le dovute maniere. Dico la verità, alla fine i ragazzi che vengono hanno tutti una forma di rispetto, chi più chi meno, verso la maglia azzurra e l’ambiente della nazionale. Se glielo dici non rimangono male e non rispondono in forma maleducata, assolutamente. La nazionale riesce ancora a preservare tutto questo.


Quali delle tante trasferte di hanno lasciato di più?
Mi sono piaciute tutte, almeno come valore assoluto. Sicuramente le Olimpiadi di Tokyo con l’oro del quartetto mi hanno dato le emozioni più grandi, il piacere, la goduria massima, passatemi la parola.
Che cosa si prova a essere lì nel mezzo mentre loro fanno l’impresa?
La vivi da tifoso privilegiato. E poi vedere l’atleta che dopo la vittoria viene e ti dà una pacca sulla spalla ti fa capire che il tuo lavoro viene riconosciuto. Ti ripaga. Sapete qual è una cosa molto bella? Il fatto che anche poco prima di partire, mi è successo con la Guazzini prima che vincessero il quartetto, vengono e ti chiedono se hai dieci minuti per fare un controllo. Sono loro ti cercano e questo ti fa star bene, perché senti che sei utile. Magari quello che fai non cambia nulla nel loro fisico, perché sono già pronti e allenati per vincere, però è bello il fatto che ti cerchino. E’ successo alle Olimpiadi con Ganna, Milan e Consonni. E’ successo all’ultimo mondiale, prima della finale della madison. Probabilmente è un supporto mentale in più e in quel frangente diventi un vero compagno di squadra.
Di cosa si parla quando sono sul lettino?
Di numeri. I giovani sono poco appassionati del ciclismo, a meno che non si parli di Pogacar. Della storia e dei grandi nomi gli interessa fino a un certo punto, mentre io mi informavo sui corridori degli anni 70 e 80. Quello che accomuna tutti quanti sono i numeri. «Ho fatto la Tre Giorni di La Panne, vedevo 450 watt e stavo lì. Stavo bene, però sapevo che dovevo stare in quel range». E se gli dici che avrebbero potuto provare ad andare via, ti rispondono di no, che altrimenti non avrebbero forze per il finale. Si basano sui numeri, questo è il ciclismo attuale.


Con Ganna, Milan e gli altri è lo stesso?
No, con Ganna si parla anche di altro. Con Pippo, Milan e Consonni si parla anche di vita personale. Si parla sì di ciclismo, ma anche di altre cose. Sono ancora giovani, ma non più giovanissimi nell’ambiente del ciclismo. Chiedono come va il lavoro. Chiedono se mi manchi la vita del corridore. Vedono che quando sono con loro, sto bene. Parliamo di tutto, mi hanno chiesto se ho già aperto il nuovo centro. Invece ci sono ragazzi più giovani che potrebbero mettersi sul lettino con la cuffia e farsi massaggiare senza dire una parola.
E’ giusto dire che la nazionale, almeno per i più grandi, sia come una famiglia?
Sì! Abbiamo un bellissimo gruppo Whatsapp in cui noi come staff rispondiamo di tanto in tanto, ma siamo tutti coinvolti. E’ nato prima di Tokyo ed è iperattivo.
Quindi capisci che Viviani abbia voluto chiudere in pista e non si sia fermato al Giro del Veneto?
Lui voleva fare l’ultimo mondiale e poi è capitata questa data. Se fosse stato a settembre, l’avrebbe comunque fatto e poi avrebbe concluso. Voleva lasciare un segno al mondiale su pista e ce l’ha fatto capire dal primo giorno che eravamo in Cile. Appena siamo arrivati, ha detto che avrebbe voluto lasciare il segno, che stava bene e aveva fatto l’impossibile per arrivarci al meglio. Non era laggiù per i saluti, ha fatto di tutto per vincere.


Ad esempio?
Ha chiesto di essere trattato nei momenti in cui doveva essere trattato. «Domani mattina no, perché devo uscire e fare quel tipo di lavoro. Meglio di pomeriggio». Gli chiedevamo se venisse al velodromo per vedere i ragazzi e più di una volta ha risposto che li avrebbe seguiti dalla camera, perché voleva fare un po’ di lavoro sul suo corpo. E’ andato per vincere. Può essere facile dirlo ora, però era come se fosse già sicuro che ci sarebbe riuscito.
Lo sai che non smetterai nemmeno questa volta, vero?
Mi mancherebbe se dovessi chiudere del tutto, per questo dico che smetterò con l’impegno che ho dato fino ad ora. Magari qualche giornata potrò farla, però già dico di no agli europei del prossimo anno, il mondiale vedremo, una Coppa del mondo per farla, però tutto l’impegno che ho avuto finora non ci sarà più. A casa ho tanto da fare, ho fatto un ampliamento importante del lavoro e devo seguirlo.
E poi comunque con Jovanotti ti sei trovato un altro atleta importante da seguire…
E’ un campione anche lui. E’ un campione nella maniera più vera, perché è attento a tutto. Adesso che ho cominciato a seguirlo un po’ di più, lo sento con una continuità incredibile, quasi tutti i giorni. I lavori, gli esercizi da fare. Ci vediamo, pianifichiamo, proviamo. E’ un grande professionista e la bici ha anche un’influenza incredibilmente positiva su di lui. La vive come passione, ma sa anche che i suoi concerti sono delle vere prestazioni atletiche e la bici è il modo migliore per prepararli. Prima lavorava con Fabrizio Borra e un giorno mi ha detto: «Guarda, c’erano anche altri, ma io sento anche sulle tue mani quello che sentivo con il coach». Perché lui lo chiamava così. E credo che detto da lui, sia davvero un bel complimento.