In questi giorni in Rwanda molti atleti hanno manifestato difficoltà respiratorie. Una sorta di affanno latente che si accentua in fase di sforzo. Kigali si trova ad una quota di montagna medio-alta, superiore ai 1.550 metri.
Di questo affanno si sono fatte più ipotesi, tra cui la ionizzazione dell’atmosfera, che ai poli e all’Equatore, dove si trova quasi perfettamente Kigali, è accentuata. O anche la qualità dell’aria. Aria che invece risulta essere piuttosto buona per una città africana, simile a quella di una media città europea. Non è però elevata come a Lubiana o Lisbona, per fare un paragone.
Per fare chiarezza in merito a questa situazione, abbiamo chiamato in causa il dottor Andrea Giorgi, medico impegnato in attività di ricerca e in forza alla VF Group-Bardiani.


Dottore, i corridori avvertono difficoltà respiratorie. La latitudine, oltre all’altitudine, può incidere? Ci sono altri fattori ambientali?
Il discorso è che siamo sopra i 1.000 metri, ma in un’area tropicale. Quindi umidità e quota. A parità di quota rispetto all’Europa, il clima è diverso e due fattori incidono sulla condizione fisica e sulla prestazione. L’altitudine non è poi così bassa: a Kigali si sta tra i 1.500 e i 1.600 metri. Da quella quota in su, ogni 1.000 metri, il VO2 max si riduce di circa il 5-10 per cento.
Quindi il clima ha un ruolo determinante?
Esatto. Non è il clima secco tipico delle zone europee di altitudine, ma un clima tropicale, con umidità molto più elevata. Questo fattore influisce sensibilmente sulla prestazione. L’atleta, muovendosi, produce calore e cerca di disperderlo con la sudorazione. In un clima umido, però, la dispersione del calore tramite sudore è ridotta perché l’aria è già satura di vapore acqueo. Di conseguenza, la temperatura corporea resta più alta e l’atleta si affatica più rapidamente. Questo porta anche a una disidratazione precoce, soprattutto nei primi giorni. Ecco perché un acclimatamento adeguato è fondamentale.


Ma quanto è reale questa fatica? C’è anche un aspetto psicologico?
E’ reale ed è un fattore fisiologico, anche se difficilmente quantificabile. Dipende dal percorso di acclimatamento dell’atleta. Se uno arriva e sente di non riuscire a spingere, entra in un circolo vizioso: la prestazione cala, non riesce a reintegrare i liquidi persi, subentra disidratazione e la sensazione peggiora. Poi può esserci anche una componente psicologica, che può amplificare il problema, ma la base è fisiologica.
Idratazione e acclimatamento sono le chiavi per affrontare la situazione?
Assolutamente sì. L’acclimatamento è fondamentale: senza, non riesci a gestire bene lo sforzo. Ad esempio, Remco Evenepoel è arrivato in Rwanda con un certo anticipo, mentre Tadej Pogacar è passato dai 19-20 gradi del Canada, al livello del mare, a un clima tropicale in quota. Un cambio così netto può rappresentare un piccolo shock ambientale. Non a caso, lui stesso e il suo staff hanno detto che domenica andrà meglio, proprio pensando all’acclimatamento.


Quindi alla fine la quota influisce in modo concreto? Non si sarà ai 1.800 metri di Livigno, ma neanche così bassi…
Influisce eccome. Sopra i 1.000 metri il VO2 max cala e questo condiziona la prestazione. Nello sprint secco, invece, l’aria rarefatta aiuta. Pensiamo al famoso 19″72 di Mennea a Città del Messico, a quasi 2.000 metri di quota. Ma se parliamo di sprint ripetuti, o di sforzi prolungati, già dai 1.500 metri si sente la differenza e la fatica aumenta.
Anche i massaggiatori hanno segnalato corridori più affaticati. A livello muscolare: può esserci un legame?
Sì, perché se l’atleta si affatica di più e non si idrata a sufficienza, l’affaticamento generale si ripercuote anche sull’apparato muscoloscheletrico. I muscoli possono risentirne e accumulare più stanchezza del normale.