Cà del Poggio, Muro di Grammont, Mur de Bretagne: è il nuovo gemellaggio del ciclismo. Un gemellaggio di passione, fatica, pendenze a doppia cifra. Tre muri che uniscono tre simboli, tre templi che raccontano tre epoche del ciclismo. La strada che sale all’improvviso, la folla, la fatica…
Le delegazioni del Muro di Ca’ del Poggio, del Muro di Grammont e del Mur de Bretagne si sono incontrate in occasione della settima tappa del Tour de France.



L’idea di San Pietro di Feletto
La rappresentanza trevigiana era guidata da Cristiano Botteon e da Celeste Granziera, che è anche il coordinatore del gruppo di lavoro formato dai rappresentanti dei Comuni in cui si trovano i tre Muri: San Pietro di Feletto per Ca’ del Poggio, Geraardsbergen per Grammont e Guerlédan per il Mur de Bretagne.
«Si tratta di un progetto di cooperazione tra i Muri – ha detto Botteon – un’iniziativa in cui credo molto e che andrà al di là dello sport, per abbracciare tre territori molto diversi tra loro, ma accomunati dalla medesima vocazione per il ciclismo».
Tra rapporti da consolidare e nuove iniziative da pianificare, si è parlato anche di un grande sogno, tutto trevigiano, per la stagione ciclistica 2026: un arrivo di tappa del Giro d’Italia nel cuore delle colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, con il Muro di Ca’ del Poggio ancora una volta protagonista.


Ballan, nostra guida d’eccezione
E questi tre Muri li raccontiamo con l’aiuto di Alessandro Ballan. L’ex iridato li ha affrontati tutti e tre, tutti e tre in corsa, e uno soprattutto rievoca i ricordi di una vittoria indelebile: chiaramente parliamo del Grammont e del suo Giro delle Fiandre.
Partiamo da Ca’ del Poggio: si tratta di uno strappo di poco più di un chilometro, sulle colline del Prosecco.
«Ca’ del Poggio – dice Ballan – è un muro che ricordo soprattutto per il campionato italiano che vinse Giovanni Visconti. Io quel giorno arrivai terzo, anche se il percorso non era troppo adatto a me, visto che si affrontava per ben 12 volte questo muro. Sì, sono un corridore da classiche, da muri, ma non da corse con 4.000 metri di dislivello. Pensavo di attaccare negli ultimi 2-3 giri, ma trovai un Visconti fortissimo. Nonostante ciò ho un bellissimo ricordo di Ca’ del Poggio. Il mio ricordo è legato soprattutto al tifo: la strada è così stretta e pendente che si va pianissimo, e il tifo della gente ti entra nelle orecchie, lo senti a lungo. E’ qualcosa che non dimentichi facilmente».
Ballan dà anche un occhio tecnico: affrontarlo non è difficile solo per le pendenze, ma anche per come ci si arriva.
«Il muro arriva da una pianura molto veloce. C’è una svolta secca a destra e poi subito una rampa sopra il 20 per cento. Una rampa che fa molto male e che resta ripida fino a quasi sotto il ristorante, il cui proprietario è, diciamo, il vero inventore di questa stradina tra le colline del Valdobbiadene. Tra l’altro, se capitate da quelle parti in bici, fermatevi in quel ristorante: si mangia bene tutto, ma in particolare i piatti a base di pesce. Io apprezzo molto i loro risotti».


Da Ca’ del Poggio al Grammont
Passiamo a un altro muro: il Grammont. Questo sì che è un vero tempio del ciclismo, un’icona assoluta. E lo era soprattutto con il vecchio percorso del Giro delle Fiandre, ma ancora oggi è una meta per gli appassionati.
«Il ricordo più forte che mi lega al muro di Grammont – dice Ballan – è legato al boato. Un boato fortissimo che c’era in cima quando si usciva dal tratto duro e ci si avvicinava alla chiesetta di Geraardsbergen. Un boato che apprezzai moltissimo, nonostante fossi un rivale di Tom Boonen e nonostante in volata, in quel Fiandre, battei Hoste che era un belga. Però ero un corridore di fatica. Ho fatto anche molti piazzamenti. E credo che sia grazie a tutto questo che mi sono guadagnato il loro rispetto e il loro affetto».
Il Muro di Grammont è veramente impegnativo. La salita inizia già prima del muro vero e proprio, in paese, tra due ali di folla. Poi la strada si restringe e la pendenza aumenta. Il fondo è in pavé.
«All’inizio – riprende Ballan – il pavé è quello tipico delle Fiandre: pietre molto smosse e distanti tra loro. Questo complica ancora di più la salita. Non si tratta solo di pendenza. Quando invece si esce dalla stradina ripida e ci si avvicina alla chiesa, resta sempre pavé, ma le pietre sono più levigate, compatte e vicine. La fatica non cambia, soprattutto perché al Fiandre lo si affrontava dopo 250 chilometri e le sensazioni cambiavano anche in pochi chilometri. Per esempio, l’anno in cui vinsi non stavo affatto bene. Tentai quasi lo “scatto del morto” come si dice in gergo. Poi mi voltai ed ero da solo. A quel punto le energie tornarono all’improvviso e riuscii a scappare».
Il muro di Grammont misura poco più di un chilometro, la pendenza massima è del 18 per cento e si raggiunge nel tratto centrale, molto stretto (poco più di tre metri). Tutto questo complica la scalata, ma ne fa un simbolo assoluto del ciclismo.


Finale sul Mur de Bretagne
Chiudiamo con il più giovane: il Mur de Bretagne. Il Tour de France l’ha affrontato per la sesta volta un paio di settimane fa, con la vittoria di Tadej Pogacar. Ballan lo affrontò nel Tour del 2008.
«Ricordo – spiega – che arrivava anche in quell’occasione in una delle primissime tappe, e ricordo che mi sfilai quasi subito. Non avevo affatto belle sensazioni. Tanto è vero che pensai: “Ma chi me lo ha fatto fare? Come ci arrivo a Parigi?”. Invece, tutto sommato, quel Tour andò anche bene».
Tecnicamente è una salita diversa rispetto alle altre due: forse è meno muro e più salita. Le pendenze sono più dolci e la strada in asfalto è molto più larga. L’inizio è abbastanza veloce.
«C’è un tratto centrale di circa 700 metri che fa veramente male. Se ben ricordo, non si scende mai sotto l’11 per cento, mentre il finale è più da rapporto: la pendenza scema un po’. Senza dubbio quello che ricordo del Mur de Bretagne è l’ambiente. Un tifo pazzesco, tantissima gente, anche più rispetto agli altri due muri. E’ il richiamo del Tour, dove il tifo è diverso, da grande evento. Un tifo per tutti, con ali di folla che ti accompagnano dal primo all’ultimo metro. Un tifo per tutti, ma in particolar modo per i francesi: era l’epoca di Voeckler, Chavanel, Pinot. Per loro era veramente un altro mondo».