Fughe del Tour, è sparita la fantasia: la lezione di De Marchi

12.07.2025
7 min
Salva

«Quest’anno è capitato che abbiamo fatto andar via un corridore per 80 chilometri da solo – dice De Marchi – e che nessuno lo abbia seguito. Insomma, il gruppo è fatto da 180 corridori e la maggior parte non ha grandi occasioni. Ci sarebbero molte più possibilità di quelle che vengono veramente sfruttate, invece ci si limita alle tappe più scontate. E questo comporta che in quei 5-6 giorni tutto il mondo voglia andare in fuga e ti ritrovi con gruppi di 30 corridori pieni di seconde linee che potrebbero tranquillamente essere leader e sono lì a giocarsi la tappa».

Le fughe del Tour sono state l’ispirazione per un interessante confronto con il friulano della Jayco-AlUla, che sulle grandi cavalcate ha costruito i momenti più belli della carriera. La sua ultima partecipazione alla Grande Boucle risale al 2020 ed è del 2014 il numero rosso ricevuto sul podio di Parigi. Giovedì Ben Healy ha conquistato la prima tappa che sia sfuggita al gruppo (foto di apertura). Sono serviti quasi 100 chilometri per portare via il gruppo decisivo, poi è stato tutto un fatto di scelta di tempo e gambe. Una fuga andata via di forza, come ormai accade sempre più spesso. Quella di ieri verso il Mur de Bretagne è stata invece neutralizzata dal gruppo dei migliori, che ancora una volta hanno scelto di fare la corsa.

Sul podio dei Campi Elisi al Tour del 2014, quello di Nibali, De Marchi conquista il premio della combattività
Sul podio dei Campi Elisi al Tour del 2014, quello di Nibali, De Marchi conquista il premio della combattività
E’ così difficile andare in fuga al Tour?

E’ sempre stato difficile, ma forse adesso le occasioni sono ancora meno: l’offerta è diminuita e la richiesta è aumentata. A parte quei pochi che curano la classifica e che a volte puntano anche sulle briciole, adesso si gioca il tutto per tutto solo in alcune giornate. E’ un’altra storia.

Perché?

Perché prima i corridori di classifica pensavano alla classifica. Capitava quello che si buttava, ricordo Contador che ogni tanto faceva qualche attacco. Ma erano episodi sporadici, che non stravolgevano la corsa. Così ad andare in fuga eravamo solo noi seconde linee, tra virgolette, mentre adesso ti rendi conto che nelle fughe c’è dentro veramente di tutto. Guardate il gruppo da cui ha vinto Healy e dentro c’erano fior di campioni (con Healy c’erano, fra gli altri, Simmons, il vincitore del Giro Yates, Van der Poel, Storer, ndr). Giornate come quella diventano delle gare di un giorno all’interno di una gara tappe. Giovedì ci hanno messo 100 e passa chilometri a far partire la fuga. E’ come l’approccio a uno sprint, perché la minestra è la stessa ed è uguale anche il modo di affrontare il percorso.

Al Giro d’Italia è più facile?

In realtà si sta uniformando tutto. Ovviamente al Tour c’è qualcosa in più, ma era lo stesso 15 anni fa. Al Tour è sempre andato chiunque avesse l’un per 100 in più di condizione, motivazione e voglia. E questo, moltiplicato per 200, crea l’effetto Tour de France. Però la sostanza non cambia, anche al Giro quest’anno le fughe andavano così. Un’altra cosa che è cambiata parecchio è che le fughe sono molto più numerose, è difficile trovarne una di 5-6 corridori

La fuga di giovedì verso Vire Normandie è andata via di forza dopo quasi 100 km. Qui Simmons e Healy
La fuga di giovedì verso Vire Normandie è andata via di forza dopo quasi 100 km. Qui Simmons e Healy
Che cosa cambia?

E’ una gestione completamente diversa. Replichi nella fuga la gara che di solito faresti in gruppo. Diventa una questione non solo di gambe, ma di strategia, necessità di leggere la corsa e i movimenti degli altri. Per me è sempre stato meglio andare in fughe meno numerose. Magari essere in tanti ti permette di arrivare più avanti, ma se il gruppo è grosso, c’è anche meno accordo. Giovedì, Healy ha scelto il momento giusto e poi le cose hanno avuto il solito svolgimento.

Quale?

Si crea il gap. Chi è davanti va alla stessa velocità di chi è dietro, che non ha più le forze per chiudere. Si congelano i distacchi, a meno che uno non salti per aria, cosa sempre più rara da vedere. Quindi alla fine diventa fondamentale fare la prima mossa e prendere subito vantaggio. Poi non ti prendono più.

Quanta concentrazione serve per prendere la fuga?

Tantissima, al punto che nei momenti topici nemmeno senti il baccano del pubblico. Devi tenere tutto sotto controllo. E’ super impegnativo, niente di diverso da un finale di gara, dalla preparazione di una volata. Con la tattica fai la differenza, perché un conto è fare due ore e mezza a tutta, altra cosa è mettersi nelle prime posizioni senza mai affondare, stare coperti e ritrovarsi ugualmente in fuga avendo speso un quarto rispetto agli altri. Quella è una cosa che cambia tanto e che una volta si faceva di più. Invece vedo gente che vuole andare in fuga solo di gambe. Si sa che al dato chilometro c’è lo strappo o la strada stretta, si aspetta solo quello e vanno via di forza, raramente d’astuzia o esperienza.

Sono così mediamente giovani che l’esperienza non possono averla.

Forse è vero, ma secondo me dipende dal fatto che le gambe sono diventate lo spartiacque. Quando hai un certo tipo di livello e di gambe, puoi fare il doppio delle cose di chi quelle gambe non le ha. Nove volte su dieci, ci riesci. E’ cambiata molto anche la voglia di rischiare e sorprendere il gruppo in giornate che sulla carta non sono adatte alle fughe. Se si prevede che finirà in volata, nessuno ci prova. Mi dispiace che sia così, vuol dire che non c’è poi tanta fantasia, non c’è tutta questa libertà.

Si fa solo quello che può riuscire?

Ricordo delle tappe da volata, con la fuga che riusciva quasi a farcela o addirittura ce la faceva e metteva in scacco tutti quanti. Al Delfinato del 2019, nella quinta tappa ero in fuga anch’io. Tutti aspettavano la volata, però siamo arrivati all’ultimo chilometro che ancora non ci avevano preso. Ce la siamo giocata fino in fondo, ma sono cose che succedono sempre meno. Vi anticipo: non darei la colpa alla radio, anche se in qualche misura incide. La verità è che secondo me nell’animo dei corridori di quest’epoca manca un po’ di spirito di iniziativa. Se il corridore vuole, ha la libertà di muoversi come vuole.

Quanto è importante saper leggere le dinamiche del gruppo?

Devi sapere come sono andate le giornate precedenti, se ad esempio c’è già stata una fuga, se qualcuno l’ha provata e non l’ha presa. Devi tenerlo in considerazione, devi conoscere gli eventuali rumors. Al Delfinato di quest’anno, si sapeva che la EF Education volesse andare in fuga, ma non ci erano ancora riusciti. Finché a un certo punto, mi pare nella quinta tappa, alla partenza si sono schierati tutti davanti e alla fine hanno messo Baudin nella fuga. Ci sono movimenti da leggere nei primi chilometri. Vedi la squadra che all’inizio chiude perché attende un tratto in salita più adatto al suo scalatore. Però sono finezze cui pochi fanno attenzione. Molti sono concentrati sullo sforzo, sul fatto di avere nelle gambe la botta al posto giusto e nel momento giusto. Invece ci sono anche altri aspetti da valutare.

La fuga di ieri verso Mur de Bretagne non è stata fatta allontanare: i più forti volevano la tappa
La fuga di ieri verso Mur de Bretagne non è stata fatta allontanare: i più forti volevano la tappa
Ad esempio?

Ad esempio il punto in cui attaccare oppure come farlo in base al vento. Alla Boucle de la Mayenne, la corsa che ho fatto prima del Delfinato, un giorno c’era terreno tutto su e giù, che alla fine vai velocissimo. C’era gente che scattava in cima agli strappi, anzi in discesa. Seguirli e mettersi a ruota era la cosa più semplice. Oppure capita che ci sia vento contro e la gente attacchi dalle prime file, con altri che gli prendono la ruota e si vede che non vai da nessuna parte. Sarebbe meglio arrivare da dietro lanciati e magari far partire un compagno e poi attaccare in prima persona. Sono cose che si vedono raramente.

Cosa pensi quando passi davanti al tuo numero rosso?

Mi ricorda che c’è stato un periodo in cui avevo anch’io la cartucciera piena e non avevo paura di sparare e tentare. Il momento della giovinezza, ma anche di quando hai un sacco di fiducia e voglia di provarci.

Il tempo è volato. Alessandro è appena rientrato dall’Alto Adige con la famiglia ed è in partenza verso l’Austria per fare altura con la squadra. L’ultimo anno della sua carriera entra nella seconda parte e i programmi sono ancora da farsi. Durante lo scorso inverno, con ottima scelta di tempo, il Rosso di Buja ha fatto e superato il corso per diventare direttore sportivo e si sta guardando intorno per capire cosa fare da grande. Sarebbe davvero utile avere in ammiraglia qualcuno capace di insegnare certi concetti e certi movimenti.