Raccogliamo la palla lanciata ieri da Cristiano Gatti su Tuttobiciweb a proposito delle parole pronunciate da Alessandro Fabretti al Processo alla Tappa, sulla noia delle prime cinque ore della tappa di San Salvo, e la rilanciamo con altri argomenti.
Il Processo alla Tappa
Che cosa ha detto Fabretti, responsabile in Rai per il ciclismo, della cui bravura siamo certi e che ha giustamente lanciato il sasso nello stagno? Ieri durante il Processo eravamo assieme a Jonathan Milan, per cui non siamo riusciti a seguirlo. Ci siamo però messi in pari stamattina, dopo aver letto l’articolo di Gatti.
«Una tappa che ci ha ripagato della noia – ha detto Fabretti commentando la giornata – io la definisco così, delle prime cinque ore. Praticamente fino a quattro chilometri dalla conclusione, è successo poco o niente (…), fino a quella caduta che ha acceso la miccia. Insomma, una tappa veramente noiosa, classico cliché degli ultimi anni».
«Una corsa – ha continuato – una tappa vista mille volte (…), ma noi dobbiamo avere rispetto anche degli spettatori. Caro Stefano Garzelli, mi dispiace ma lo spettatore per cinque ore ha guardato esattamente la stessa situazione. Certo, ci sono le meraviglie dell’Italia, ma per esempio (si potrebbero) limitare le tappe a un chilometraggio. Voglio dire, la prima tappa del Giro d’Italia era di 397 chilometri. I tempi sono cambiati. Il volley ha immaginato tempi televisivi e ha previsto il tie break all’ultimo set arrivando a 15. Il tennis ha messo il super tie break addirittura. Insomma, qui secondo me bisogna ridurre il chilometraggio, perché sennò veramente cacciamo i telespettatori dal ciclismo».
La nota stonata
Lo scambio di battute è andato avanti, coinvolgendo la postazione da cui Francesco Pancani ha stigmatizzato le fughe lasciate andare dal gruppo perché fanno comodo a tutti, senza un minimo di bagarre. E mentre il dibattito andava avanti e venivano alla mente le dichiarazioni del Giro 2022 in cui si spiegava l’incredibile difficoltà del prendere la fuga (fenomeno che si riproporrà certamente a breve), abbiamo avuto la sensazione di una nota stonata nelle parole di Fabretti.
Il bello di RaiPlay è che puoi mandare indietro e riascoltare, finché alla fine siamo arrivati al dunque: «Il volley ha immaginato tempi televisivi e ha previsto il tiebreak all’ultimo set arrivando a 15. Insomma, qui secondo me bisogna ridurre il chilometraggio, perché sennò veramente cacciamo i telespettatori dal ciclismo».
I tempi televisivi. Lo sport in mano al marketing. Il rispetto del telespettatore e sempre meno per l’atleta, che dovendo stare ai tempi televisivi e alle esigenze di spettacolo, viene additato se non fa ogni giorno fuoco e fiamme.
La diretta integrale
E’ giusto che il ciclismo cambi pelle per assecondare le esigenze televisive, nel cui nome ad esempio ha già spostato gli arrivi all’ora di cena, impedendo il miglior recupero degli atleti? E così, mentre eravamo qui a ragionare sul tema, col pensiero siamo finiti proprio sul tennis.
Quando iniziano i tornei più importanti, ad esempio quelli del Grande Slam, c’è tutta una prima fase che in televisione non viene mostrata: quella delle qualificazioni, in cui atleti in cerca di luce (come quelli andati in fuga ieri, in apertura tirati da Mattia Bais) lottano fra loro per approdare alle fasi finali e scontrarsi con i big. Durante quella fase, i campioni palleggiano, si allenano, passano il tempo. Nessuna diretta sui piccoli, semmai i risultati a fine giornata e i due scambi più belli in differita. Il vero torneo inizia dopo.
Torniamo al ciclismo. La diretta integrale di tappe del Giro, bellissima introduzione all’inizio degli anni 90, riguardava le frazioni più importanti (quelle con tante salite, spesso decisive per la classifica), anche per costi di produzione ben superiori rispetto a quelli attuali. Qual è invece il senso di proporre la diretta integrale di una tappa di 220 chilometri, piatta come il mare che costeggia?
Serve per contenere il maggior numero di spot pubblicitari? Serve per occupare la rete per tutto il pomeriggio e non dover ricorrere ad altri contenuti? Oppure serve per il pubblico del ciclismo?
Se è per loro, i veri tifosi sono perfettamente consapevoli del fatto che una tappa piatta di 220 chilometri potrebbe essere noiosa, per cui si organizzano e fanno altro in attesa della volata: difficilmente il vero tifoso parlerà di tappa noiosa. D’altra parte vogliamo supporre che in Italia esistano milioni di persone che passano ogni santo pomeriggio di maggio sul divano a guardare il Giro, senza null’altro da fare?
Se la tappa va per le lunghe, gli studenti studieranno togliendo il volume. Chi deve lavorare proseguirà nel lavoro, sapendo che certe corse si accendono solo alla fine. In ogni caso, Milan ha tagliato il traguardo alle 17,28, in linea con la tabella di marcia più lenta, quindi nei limiti previsti.
Un altro sport
Che cosa accade invece se la tappa di 220 chilometri viene ridotta a 120? Succede che nelle gambe degli atleti va meno fatica. Che la volata di ieri magari non la vince Milan. E che alla lunga il recupero smette di essere la vera discriminante di un grande Giro. Si cambia pelle al ciclismo, finendo nello stesso binario di chi vorrebbe un Tour di tre settimane, Giro e Vuelta di due.
Noi non siamo d’accordo. Se invece la pretesa è che i corridori vadano sempre a tutta, allora il paradosso successivo è spingere ancora di più sul gas, con conseguenze che non vogliamo neppure immaginare. Il ciclismo non è la pallavolo, non è il tennis e soprattutto non è il wrestling.
Ecco la palla che rilanciamo a Gatti e a Fabretti: facciamo la diretta in base alle stelle di difficoltà che caratterizzano le singole tappe. Si tenga la rete pronta a intervenire in caso di attacco imprevisto e fuori dall’ordinario. E magari si dia spazio ad altre discipline che nel periodo del Giro subiscono il ciclismo, come il ciclismo per tutto l’anno subisce il calcio.
I valori tecnici dello sport ne risulterebbero rispettati e tutelati. Gli atleti sarebbero con mezzo piede fuori dal tritacarne. E le minori ore di diretta sarebbero più intense e piene di contenuti. Facciamo che a cambiare sia il palinsesto, insomma, non lo sport.