La vicenda di Umberto Orsini, costretto a ritirarsi a soli 26 anni non avendo trovato una squadra che credesse ancora in lui, lo ha toccato nel profondo e non poteva essere altrimenti: Andrea Tafi è suo zio e sa bene che le sue imprese hanno instillato in quel ragazzo la forte voglia di emularlo, di investire ogni stilla di energia sulla bici. Nel corso della chiacchierata, zio Andrea non vuole però parlare di ritiro: «Ho detto a Umberto che deve sempre crederci, che non deve smettere di allenarsi, perché finché c’è vita c’è speranza. Gli ho detto che ai miei tempi c’erano più possibilità – prosegue Tafi – più squadre, ma questo non significa che non possa trovare una porta aperta, deve però crederci sempre».
Sicuramente i problemi fisici al ginocchio, in una stagione così complicata e sui generis come il 2020, non lo hanno aiutato…
E’ un periodo difficile, le squadre sono poche e non hanno potuto fare piena attività, soprattutto in tutto il calendario extra WorldTour. I team vivono con fatica questa pandemia, i soldi scarseggiano e se a questo si aggiungono i problemi fisici che Umberto ha avuto sin dal Giro 2019, ecco che viene fuori la situazione attuale. Io dico che il 2020 non fa testo, è stata una stagione troppo diversa dalle altre, nessuno ha potuto esprimersi al meglio.
Umberto ha sofferto più di altri il passaggio di categoria?
Probabilmente sì, è un mondo completamente diverso, quello dei professionisti. Aveva dimostrato tanto prima di passare di categoria, ma tra i professionisti bisogna stringere i denti, tutti hanno avuto momenti difficili. Io stesso nel ’91 ero quasi rimasto a piedi, sapevo che dovevo fare qualcosa e con lavoro, costanza e determinazione mi rimisi in piedi, lavorai per mettermi in evidenza e vinsi il Giro del Lazio, da cui ripartii per la parte più importante della mia carriera. Probabilmente in Umberto ha influito molto anche il suo carattere, un po’ chiuso. E’ abituato a tenere tutto dentro di sé, ma vedevo la sua amarezza e la sua delusione.
Nel suo racconto, Orsini ci ha detto che quel che manca nel mondo professionistico è la tutela nei confronti dei ragazzi, che si sentono un po’ soli…
Su questo non sono d’accordo. Non stiamo parlando di ragazzini, sono maggiorenni, devono essere capaci di camminare da soli, farsi domande, mettersi in discussione e cercare cose concrete. Le squadre sono molto attente ai corridori perché sono loro che muovono il movimento, è chiaro che tutto dipende dai risultati, se non arrivano si perde smalto, ma è un mondo che non regala nulla e bisogna sempre trovare dentro di sé le forze per andare avanti.
Secondo Tafi, la Federazione dovrebbe essere maggiormente attiva al fianco dei ragazzi che sono costretti a chiudere la propria carriera anzitempo?
Non credo, alla Fci si chiede già tanto e non penso che questo debba rientrare nei suoi compiti. Quando una carriera finisce è sempre un trauma, si entra in un altro mondo, bisogna rimettersi in discussione, ma questo vale per tutti. Bisogna tener duro e cercare opportunità, nel mondo del ciclismo ma anche fuori. La Federazione sta lavorando per rilanciare il ciclismo italiano e sono convinto che entro poco tempo torneremo ai nostri migliori livelli.
La parabola di Umberto è definitivamente chiusa?
Io spero di no, il mio consiglio è di continuare a crederci, non fermarsi e continuare ad allenarsi e a bussare alle porte. Magari nel corso dell’anno qualcuno aprirà, io sono fortemente convinto che questo succederà. Umberto ha ancora tanto da dare in sella alla sua bici…