Alexander Konychev è a casa con le scatole girate. Doveva essere al ritiro della squadra, invece s’è preso il Covid e sta aspettando semaforo verde per rientrare in pista. Ancora 22 anni, la sua prima stagione alla Mitchelton era un bel punto interrogativo. C’era chi voleva che restasse ancora nella continental del gruppo Qhubeka, ma l’offerta di un contratto WorldTour ha potuto più di mille ragionamenti. E tutto sommato, visto l’andazzo generale e i suoi immensi margini di miglioramento, alla fine ha fatto bene lui.
«Sono giovane – dice – e ho iniziato a correre solo da juniores. Ho ancora tanti aspetti da migliorare, su alimentazione, recupero dopo le corse, allenamento. Sicuramente in poco tempo, le cose sono cambiate molto. I più giovani hanno una pressione che io due anni fa non avevo. Sembra che si debba ottenere tutto subito. Alcuni arrivano al professionismo che sono già al top. Che margini hanno? Il fisico un po’ può crescere, ma la testa?».
Come descriveresti i tuoi anni da under 23?
I primi due anni, alla Viris e poi alla Hopplà, sono stati i più belli. Una parte del ciclismo che sta svanendo. Negli juniores andare in bici era anche andare a farsi un giro con gli amici, poi da under 23 l’impegno è iniziato a crescere. Quando poi sono passato alla continental della Dimension Data, sono migliorato molto. Ho avuto il primo preparatore, il ritiro a Lucca. E per la prima volta la differenza è stata avere un calendario definito dall’inizio dell’anno, con obiettivi su cui programmare il lavoro.
Primo passo verso il professionismo…
Esatto. In più l’esperienza continental con i ragazzi africani è stata molto bella anche sul piano umano. Ed è stato un anno speciale. Abbiamo vinto l’europeo e il mondiale e io per primo ho vinto la prova di Coppa delle Nazioni, l’Etoile d’Or, preparata con il Tour de Bretagne di sette tappe. Quando lavori così, i risultati arrivano.
Tuo papà ti ha aiutato in questo avvicinamento graduale?
Lui non mi ha mai messo pressione, anzi era molto scettico. Cominciare da junior non è facile e il mio primo anno è stato molto duro. Ho picchiato l’asfalto parecchie volte, ma ormai avevo preso la decisione, perché il ciclismo era quello che mi appassionava. Mai un ripensamento, sapevo dove volevo arrivare. Per cui a metà campionato lasciai la squadra di calcio in cui giocavo da centrocampista e sono salito in bici.
Come è andato il primo anno?
Come per tutti, è stato particolare. Avevo fatto una bella preparazione, altura compresa. Ho fatto le prime due corse in Belgio e poi ci hanno fermato. Riprendere è stato una bella cosa. Ho fatto Strade Bianche, Sandremo, Gand, Fiandre. Tutto il mio programma tranne la Roubaix. Con la squadra va benissimo, sto facendo tanta esperienza, individuando gli aspetti su cui lavorare e i miei obiettivi, che sono le grandi classiche. La Sanremo in testa, il mio sogno.
Quali sono gli aspetti su cui lavorare?
Ormai si gioca tutto sui dettagli. Mi piace molto la crono, in ritiro avrei dovuto fare dei test in pista, che spero di recuperare più avanti. E poi l’alimentazione. In squadra stiamo testando una piattaforma che useremo alle corse, in cui ognuno ha i suoi dati e inserendo il peso, il programma ti dice la quota di carboidrati da ricaricare. Io però preferisco gestirmi in autonomia. Se la mattina voglio qualcosa a colazione, la mangio lo stesso. La fortuna di avere una mamma che mi prepara le cose fatte in casa è proprio questa.
Quindi non pensi di andare a vivere da solo?
Per ora no (ride, ndr), magari se trovo una compagna che sappia cucinare. Però mi sa che non sia una cosa da dirle. «Ah, come cucina la mia mamma…».
Sei dimagrito tanto rispetto all’ultimo anno da U23?
Sono stato bravo durante il lockdown. Sono sceso da 80 a 72, a proposito dei margini che potrei avere.
La bici nuova?
Ero un po’ scettico, invece la Bianchi ha delle geometrie ottime. Forse è un po’ più pesante della Scott, ma mi importa poco. Non devo fare il record del Galibier e per le corse che voglio fare, va benissimo una bici rigida e veloce…