«Oggi è il compleanno di mio figlio – ha detto Vingegaard dopo la tappa della Vuelta annullata a Bilbao – ha un anno e volevo davvero alzare le braccia al traguardo per lui. Abbiamo lavorato tutto il giorno per questo e non avere la possibilità di vincere è stato piuttosto deludente. Avevo davvero questa ambizione di vincere la tappa ed ero in una buona posizione per provarci. Sono comunque riuscito a tagliare per primo il nuovo traguardo, a 3 chilometri da quello vero. E’ un peccato non portare a casa un orsacchiotto per mio figlio oggi, ma spero di averne due domani».


Il senso della protesta
Nessun vincitore. L’undicesima tappa della Vuelta è stata fermata a 3 chilometri dall’arrivo di Bilbao. L’attacco di Pidcock sulla salita di Pike aveva permesso al britannico di fare il vuoto, con il solo Vingegaard nella sua scia. Gli altri invece avevano pagato con 12 secondi di ritardo. Poco dopo le cinque del pomeriggio invece, gli organizzatori hanno deciso di ridurla per evitare i rischi connessi alle proteste pro Palestina inscenate al traguardo da un folto gruppo di manifestanti. Nei Paesi Baschi hanno la rabbia dentro, gente di sangue forte. E se nella cronosquadre di Figueres le proteste avevano portato al rallentamento della Israel-Premier Tech, ieri si è preferito non correre rischi (in apertura immagine ANP/EPA).
Lo scrivemmo dopo il Giro d’Italia. Il ciclismo si corre sulle strade in mezzo alla gente e può diventare la cassa di risonanza per manifestazioni di ogni tipo, a patto che non si mettano a rischio i corridori. Ricordiamo quando gli operai della Piaggio fermarono la Sanremo o quando i sindaci dei paesi alluvionati del Piemonte rallentarono la partenza di tappa del Giro dal Santuario di Vicoforte. Ma adesso in ballo ci sono una guerra. Oltre 40 mila morti. Un primo ministro che teorizza invasioni e attua massacri senza che al mondo nessuno gliene chieda ragione. Che cosa volete che possa fare la gente se non protestare? E a cosa serve una protesta se nessuno se ne accorge?


La posizione del CPA
Avvisaglie purtroppo c’erano già state. Nella cronosquadre di Figueres, quando la Israel-Premier Tech è stata rallentata e la giuria ha poi bilanciato il distacco. E poi nella tappa di martedì con arrivo a El Ferial Larra Belagua, quando i manifestanti hanno tentato di attraversare la strada al passaggio del gruppo, provocando la caduta di Petilli, che corre con la Intermarché-Wanty. Dall’inizio della Vuelta, come già fatto al Tour de France, attorno alla Israel-Premier Tech sono state rinforzate le misure di sicurezza. L’imprenditore israeliano-canadese Sylvan Adams è ritenuto uno stretto collaboratore del primo ministro Netanyahu e un sostenitore delle sue politiche. Per questo il pullman e i mezzi della squadra viaggiano senza la dicitura Israel.
Va bene protestare, tuttavia, ma non danneggiare o colpire i corridori. Mercoledì pomeriggio, il CPA ha rilasciato una dichiarazione. Vi si esprime «la sua profonda preoccupazione e la ferma condanna per le azioni che hanno messo in pericolo i corridori della Vuelta a Espana. E’ inaccettabile che le associazioni, qualunque sia la loro natura o le loro motivazioni, si permettano di compromettere la sicurezza e l’integrità fisica degli atleti sulla strada. Chiediamo inoltre ai servizi di sicurezza spagnoli di fare tutto il possibile per garantire il regolare svolgimento dell’evento e proteggere i corridori. Tutti hanno il diritto di protestare, ma non può essere a spese degli atleti che stanno facendo il loro lavoro».


Chi deve decidere
La tappa di Bilbao sarebbe stata forse la più spettacolare della Vuelta e si è trasformata in una ferita. L’organizzazione si è vista costretta alla neutralizzazione delle classifiche, a capo di una giornata a dir poco impegnativa. Dopo gli esiti della giornata, il direttore della Vuelta Kiko Garcia ha spiegato la scelta di ieri e risposto a fatica alle domande sulla possibilità di ritiro della squadra israeliana.
«E’ stata una giornata difficile per tutti – ha spiegato – come potete immaginare. Sapevamo che ci sarebbero potute essere delle proteste, ma la verità è che la portata del movimento ci ha colti di sorpresa al primo passaggio del traguardo. Abbiamo visto che la situazione era tesa e che dovevamo prendere una decisione in fretta. C’erano due opzioni: annullare tutto o almeno provare a offrire uno spettacolo al grande pubblico ciclistico dei Paesi Baschi. E’ quello che abbiamo fatto. Ho parlato un po’ con le squadre e tutti hanno capito che era la decisione migliore.
«Sapevamo che se non avessimo reagito, le proteste sarebbero continuate. Dobbiamo seguire le regole. La partecipazione della Israel-Premier Tech è obbligatoria, non possiamo decidere diversamente. Fermarla compete semmai a un organismo internazionale. Il nostro compito è cercare di proteggere i corridori, le squadre e la corsa, ovviamente. Ed è qui che siamo. Abbiamo parlato con la squadra per ore ieri sera, esponendogli la situazione, vedendo se anche loro sentivano la pressione aumentare. Non c’è molto altro che io possa fare».


La posizione dell’UCI
Perché il CIO dispose lo stop delle società e degli atleti russi dopo l’invasione dell’Ucraina e non dice nulla contro Israele? Tirata per la manica, l’UCI ha pubblicato un comunicato di facciata.
“Condanniamo fermamente queste azioni. Sottolineiamo l’importanza fondamentale della neutralità politica delle organizzazioni sportive unite nel Movimento Olimpico, nonché il ruolo unificante e pacificatore dello sport. I grandi eventi sportivi internazionali incarnano uno spirito di unità e dialogo, al di là delle differenze e delle divisioni. Lo sport, il ciclismo in particolare, ha lo scopo di unire le persone e superare le barriere tra loro e non deve in nessun caso essere utilizzato come strumento di punizione. L’UCI esprime la sua piena solidarietà e il suo sostegno alle squadre e al loro staff, nonché ai corridori, che devono poter esercitare la loro professione e la loro passione in condizioni ottimali di sicurezza e tranquillità“.


La Israel rimane
Chiedere il ritiro spontaneo della Israel-Premier Tech sarebbe pretendere che siano loro a togliere le castagne dal fuoco all’UCI. Ieri in serata una dichiarazione della squadra spiega la sua posizione e il perché rimarrà in corsa.
“Israel-Premier Tech – si legge – è una squadra ciclistica professionistica. In quanto tale, la squadra rimane impegnata a partecipare alla Vuelta a Espana. Qualsiasi altra linea d’azione costituisce un pericoloso precedente nel ciclismo, non solo per Israel-Premier Tech, ma per tutte le squadre.
“Israel-Premier Tech ha ripetutamente espresso il suo rispetto per il diritto di tutti a protestare, purché tali proteste rimangano pacifiche e non compromettano la sicurezza del gruppo. L’organizzazione della Vuelta a Espana e la polizia stanno facendo tutto il possibile per creare un ambiente sicuro e, per questo, la squadra è particolarmente grata. Tuttavia, il comportamento dei manifestanti oggi a Bilbao non è stato solo pericoloso, ma anche controproducente per la loro causa. E ha privato i tifosi baschi, tra i migliori al mondo, del traguardo di tappa che meritavano.
“Ringraziamo gli organizzatori della gara e l’UCI per il loro continuo supporto e la loro collaborazione. Così come le squadre e i corridori che hanno espresso il loro sostegno sia pubblicamente che privatamente e, naturalmente, i nostri tifosi”.


C’è da capire se gli esiti di ieri fomenteranno altre proteste o se l’aumento delle misure di sicurezza basterà a mettere in sicurezza la Vuelta e i suoi attori. Nel prendere posizione di ciascuna parte in campo, rileviamo con malinconia che non una sola parola è stata pronunciata dallo sport su quanto sta accadendo a Gaza. Dispiace anche a noi che Vingegaard non abbia potuto donare quell’orsacchiotto a suo figlio. Dispiace ancora di più che dall’inizio della guerra siano stati uccisi 13 mila bambini. Da quelle parti avere o non avere un orsacchiotto è l’ultimo dei problemi. Laggiù muoiono a colpi di fucile, sotto le bombe oppure di fame. Dirlo e manifestare empatia potrebbe forse rasserenare in qualche modo gli animi.