A 42 anni suonati, José Rujano non ha ancora intenzione di appendere la bici al chiodo. Corre ormai solamente in Sud America, anzi per meglio dire nel suo Venezuela, ha trovato un ingaggio alla Jimm Santos Triple Gordo correndo l’ultima Vuelta al Tachira al fianco del figlio Jeison e ogni tanto qualche colpo di pedale del vecchio campione l’ha ancora assestato, ad esempio nella settima tappa chiusa al Cerro del Cristo Rey all’11° posto.


Il primo incontro con Savio
La particolarità però non è tanto questa (anche se vedere padre e figlio nello stesso team ciclistico non capita proprio spesso…), quanto il fatto che quei giorni fatidici tra allenamenti e gare sono arrivati poco dopo aver appreso della scomparsa di Gianni Savio. Non una persona qualsiasi, ma qualcuno che ha avuto un peso decisivo nella sua vita. Un rapporto che tra alti e bassi è andato avanti per tutto il nuovo secolo, sin da un giorno del 2002. Durante proprio la Vuelta al Tachira…
«Ero davvero giovanissimo allora – ricorda il corridore venezuelano, ancora profondamente legato all’Italia – ed ero in lotta per la vittoria finale. Un giorno si avvicina a me questo signore particolarmente elegante, con i suoi baffi sembra un uomo d’altri tempi e mi comincia a chiedere chi sono, come sono arrivato a quel livello, se mi sarebbe piaciuto provare a correre in Italia. Figurarsi, era un sogno che si avverava».


Il sogno del Giro d’Italia
Non era una proposta da poco, perché Savio gli propose un contratto quadriennale, il che significava mettersi a posto, economicamente parlando, per un po’ di tempo e poter mettere qualcosa da parte: «Ma io non badavo a questo. Gianni mi dava l’opportunità di correre il Giro d’Italia e io ne avevo tanto sentito parlare. A quel tempo Savio era già molto conosciuto in Sud America, aveva portato ai vertici internazionali Leonardo Sierra. Sapere che credeva in me era un grande onore».
Savio ha sempre avuto un grandissimo fiuto ciclistico. Sapeva che quel ragazzo venezuelano, taglia piccola ma esplosiva soprattutto in salita, aveva della stoffa e Rujano non tradì le attese, conquistando una tappa, il terzo posto in classifica e la maglia verde al Giro del 2005 e aggiudicandosi anche la classifica combinata. Ma in quegli anni di vittorie il venezuelano ne portò a casa una buona quantità, tanto da solleticare gli appetiti di altre squadre.


Il litigio e la riappacificazione
Con Savio il rapporto non era sempre idilliaco, anzi. Oggi Josè lo riconosce non senza un pizzico di rammarico: «Avevamo due caratteri forti, al quarto anno entrammo in rotta di collisione e infatti andai via dal team cercando nuove strade. Potevamo anche litigare, ma c’era fra noi un profondo rispetto reciproco, continuavamo a restare in contatto, a incrociarci per le strade del mondo e alla fine nel 2011 tornai a correre con lui all’Androni».
Quel rapporto è andato via via cementandosi, andando anche al di là del ciclismo: «Conosceva tutta la mia famiglia, ci sentivamo almeno 3 volte l’anno e spesso capitava anche che ci si incontrava nei suoi viaggi da questa parte del mondo. Ci siamo sentiti anche lo scorso anno, sentivo che stava male e che faceva fatica a parlare».


L’ultima, dolorosa telefonata
L’ultima volta che ha provato a chiamarlo è stato un paio di mesi fa: «Quella telefonata, ci penso spesso e mi fa ancora male perché sentivo dentro di me che non lo avrei più sentito. Cercava di nascondere il male, di mostrarmi speranza. Gli dissi che avrei tanto voluto fare l’ultima Vuelta al Tachira con lui, ancora una volta. Non è stato possibile e mi dispiace tanto».
Da dove nasceva questo suo profondo amore per il ciclismo sudamericano? «Io penso che sentisse dentro di sé di essere un po’ sudamericano anche lui. Aveva un grande occhio, ha portato tanti corridori a gareggiare in Europa, in tanti gli dobbiamo molto. Non era famoso solo in Venezuela, anche in Colombia, in Messico, sono tanti i Paesi dove Gianni ha trovato amici, si è fatto conoscere, ha favorito l’affermazione dei ciclisti locali».


Un personaggio fuori dal tempo
Come detto, il loro rapporto non era sempre semplice. «Gli dicevo sempre che era un po’ tirato nel pagare gli stipendi – dice con un sorriso – ma è sempre stato una persona corretta. Era un personaggio, al quale piaceva che il ciclismo fosse sinonimo di spettacolo e voleva che i suoi corridori fossero capaci di darlo. Per questo ci chiedeva sempre di attaccare, andare in fuga. Ma aveva anche un’umanità fuori del comune, quando qualcuno si faceva male gli restava sempre vicino, ogni caduta era per lui un trauma».
Nel suo racconto, José ha anche un altro rammarico: «Con Gianni anche mio figlio avrebbe avuto più possibilità di affermarsi e correre in Europa. Io so che Jeison può fare bene, ha qualità. Anche all’ultima Vuelta Venezuela poteva benissimo andare nei primi 5 se non avesse preso l’influenza. E’ stato sfortunato tante volte, ma è diverso da me, ha la mentalità del professionista soprattutto quando si allena, facendo quel che il preparatore gli dice. Io sono più figlio del mio tempo, più naif. Ma non mollo, voglio correre anche l’anno prossimo e provare a vincere la Vuelta al Tachira per la quinta volta. A 22 anni dalla prima…».