Questa volta basta davvero, la malinconia è stemperata dalla rassegnazione. Già lo scorso anno Andrea Guardini era stato a un soffio dal dire basta e se non fosse stato per le due vittorie al Giro di Romania a fine 2020, lo avrebbe probabilmente fatto. Quelle due fiammate invece gli fecero cambiare idea, come ci aveva già raccontato all’inizio di questa stagione. Ma adesso, con il Covid che ha tolto di mezzo l’attività orientale di cui era il re incontrastato, trovare un motivo per andare avanti è diventato più duro delle salite di cui sono zeppe le corse europee. Per il veronese, che per costituzione fisica e natura delle fibre è uno degli ultimi velocisti puri in circolazione, questo ciclismo è diventato impraticabile.
«Ho cercato squadra fra le professional – dice – speravo che quello fra le continental fosse stato solo un passaggio, ma dopo il Covid hanno tutte mantenuto gli organici che avevano. Dopo quelle due vittorie non potevo smettere e devo dire grazie a Stefano Giuliani per avermi aperto ancora una volta le porte. Abbiamo fatto i salti mortali per avere un buon calendario, abbiamo chiuso al Giro di Sicilia. Voi non avete idea quanto pesi sulle squadre più piccole il costo dei continui tamponi…».
Scinto, amore e odio
La favola di Guardini era iniziata in pista: velocista come Bianchi e come quegli specialisti estinti che si sta cercando di ricostruire in vista delle Olimpiadi. Solo che al tempo la cultura della pista era ai minimi termini e negli anni in cui Guardini era under 23 sotto la guida di Gaetano Zanetti (2008-2010), il velodromo di Montichiari era stato appena terminato. Il richiamo della strada fu più forte, la pista non garantiva assegni a fine mese e così Andrea passò professionista con Scinto. Era velocissimo, ma sulle salite faceva troppa fatica. Un modo per passarle però Scinto lo trovava sempre, in gruppo se ne rideva, e alla fine ci scappò anche una tappa al Giro d’Italia davanti a Mark Cavendish, che non la prese proprio bene.
«Lui si arrabbiò – dice – più con se stesso. Per tenere la maglia rossa della classifica a punti, aveva voluto fare un traguardo volante che non era proprio piatto. Riuscì a vincerlo, ma spese troppo e in finale vinsi io. Un ragazzino. Quel giorno non mi ero staccato e non ero dovuto rientrare. Ma se quel Giro lo avessi finito, la maglia nera non me l’avrebbe tolta nessuno. Dio solo sa quanti chilometri feci da solo nelle retrovie. Con Scinto avevo un rapporto di amore e odio. Tante volte lo odiavo, perché mi diceva le cose in faccia. Con Luca ho formato il mio carattere…».
L’Astana e Zanini
Convinti di poterci lavorare, lo presero all’Astana, affidandolo alle cure di Zanini e inaugurando un periodo molto positivo in termini di vittorie. Furono 18 in quattro stagioni: parecchie al Tour de Langkawi, ma anche all’Eneco Tour e al Giro di Danimarca. Finché gli organizzatori disegnavano le tappe di volata pensando alla velocità, Guardini trovata pane per i suoi denti. Quando si iniziò a pensare che 2.500 metri di dislivello fosse il minimo sindacale, per lui e quelli con le sue caratteristiche, l’unico approdo felice rimasero le corse dell’Asia, fra la Malesia e la Cina. Dalla Astana passò per un anno alla UAE Team Emirates senza vincere, di lì alla Bardiani per due anni e 5 successi.
«Ormai il ciclismo è come la Formula Uno – dice – ci sono squadroni con budget enormi, per cui è praticamente impossibile combattere ad armi pari per le professional, figurarsi per le continental. L’altro giorno commentando un vostro articolo su Facebook, ho proposto il budget-cap, il tetto al budget, che hanno imposto proprio in Formula Uno, che forse sarebbe opportuno anche qua. Altrimenti la forbice è destinata ad ampliarsi ulteriormente. Se corri in una continental, non hai uno stipendio che ti permetta di pagarti i ritiri. E se devi fare le cose al 70 per cento, non ne vale più la pena. Non vinci, impossibile. E io adesso mi sento pronto per dire basta».
L’anima dilaniata
Questa volta c’è lucidità, l’anno scorso c’era la paura. Ma tutto sommato, con una bimba di due anni e mezzo che ormai capisce tutto, una casa pagata in Valpolicella e con i risparmi giusti per guardarsi intorno senza paura del futuro, in un giorno di fine stagione Andrea si è guardato allo specchio e ha preso la decisione.
«Prima o poi si deve scendere di sella – dice – e imparare un mestiere. Ho smesso con tanta voglia di stare in bici e continuare a farne il mio lavoro. Voglio prendere la tessera da guida cicloturistica. Un pizzico di rammarico c’è, ma non mi sono dilaniato l’anima come l’anno scorso, quando non riuscivo a concepire di non trovare una sistemazione adatta al caso mio. Ora smetto con serenità. Mi hanno chiuso l’Asia, circa il 60 per cento del mio calendario con almeno 30 volate l’anno adatte a me. Qui rimane Cavendish, ma anche lui si era perso e c’è voluta la Deceuninck-Quick Step per ridargli smalto. Stando così le cose, ho perso il mio potere contrattuale, non cercano più il velocista puro, ma uno che sia resistente. Uno come Grosu, che merita di andare avanti perché è più completo di me, anche se probabilmente meno veloce. Non è una decisione presa a cuor leggero…».
Nel 2018 a Kuala Lumpur centra la quinta vittoria: un record imbattuto Al suo arrivo in Malesia, Guardin veniva ormai salutato come “Mister Langkawi”
Mister Langkawi
L’Oriente gli mancherà, ne parla come di una seconda patria e solo chi è stato a correre laggiù o c’è andato per raccontarne le gare può capire la passione della gente su quelle strade umide e caldissime.
«Ho vinto cinque volte la tappa di Kuala Lumpur al Malesia – dice – come cinque volte Parigi al Tour, facendo le ovvie proporzioni. Smetto con un piccolo record di 24 tappe vite al Tour de Langkawi. La cosa bella di laggiù è che quando passi, vedi intere scolaresche a bordo strada, ti rendi conto della passione di un’intera Nazione. Mi dispiace non esserci più tornato dal 2019, se avessi potuto scegliere una corsa in cui dire addio, avrei scelto quella. Mi sono divertito tantissimo. Quando arrivavo al foglio firma, mi chiamavano “Mister Langkawi”».
La Roubaix e la galera
Nel raccontare aneddoti, salta fuori quella volta con la Uae in cui si ritirò durante la Roubaix, ma siccome non c’era posto sull’ammiraglia dei massaggiatori, gli fu detto di andare al traguardo in bici. Sfinito com’era e volendosi risparmiare i tratti in pavé, impostò la destinazione sul Garmin e si mise a pedalare. Le auto gli suonavano all’impazzata. Finché arrivò un furgone della Gendarmerie, che lo fermò.
«Va bene eroe dell’Inferno del Nord – gli disse il gendarme – ma lei sta pedalando in autostrada».
Lo caricarono a bordo. Lo portarono al commissariato. Ma Andrea non aveva documenti e neppure il cellulare: era tutto sul pullman a Roubaix. Perché lo rilasciassero, serviva qualcuno che venisse a garantire per lui. Per fortuna ricordò a memoria il numero di sua moglie e riuscì a chiamarla. E lei, contattando su Facebook le mogli di altri corridori della squadra, alla fine trovò il riferimento di un massaggiatore e quello andò a liberare il malcapitato corridore arrestato in autostrada. Cui l’indomani Het Nieuwsblad dedicò un’intera pagina.
Sono schegge che il tempo metterà in ordine, perché possa raccontarle a sua figlia e agli amici. Cala il sipario, restano nella memoria i primi articoli a casa sua. La cameretta con le coppe dei primi successi. Sua madre. I suoi occhi buoni che in volata diventavano quelli del peggior felino. E i tanti chilometri in cerca di fortuna, fino a diventare come Marco Polo, l’uomo dell’Oriente. In qualche modo anche “Guardia” ha fatto un pizzico di storia di questo sport. Se un giorno passeremo dalle sue parti in Valpolicella, davanti a un bicchiere di vino, siamo certi che altri aneddoti da raccontare salteranno ugualmente fuori. Per ora, buona fortuna Andrea. E buona strada.