Il Rwanda di Sambinello: «Un’esperienza di vita che rifarei»

04.03.2025
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Il Tour du Rwanda si è concluso ed ha attirato tante attenzioni. Più che sulla corsa, gli occhi dei curiosi erano concentrati sul fatto che il Paese africano ospiterà i prossimi mondiali di ciclismo. Tante voci si sono susseguite a proposito della corsa iridata, dal fatto che non si sarebbe corsa per motivi di sicurezza alle smentite di questi giorni. La nostra curiosità, invece, era legata a questa gara a tappe e all’ambiente che lo circonda. Uno dei due italiani presenti sulle strade del Rwanda era Enea Sambinello, atleta del devo team del UAE Team Emirates-XRG. Per lui questo è stato il settimo appuntamento stagionale dopo le sei corse fatte tra Spagna e Portogallo (in apertura foto Tour du Rwanda). 

Per Sambinello questa è stata la prima gara disputata con il devo team (foto Tour du Rwanda)
Per Sambinello questa è stata la prima gara disputata con il devo team (foto Tour du Rwanda)

Malanni a parte

Un viaggio durato cinque delle sette tappe previste attraverso gli scenari che ospiteranno il campionato del mondo 2025. Per arrivare a Kigali, capitale del Rwanda, Sambinello ha impiegato otto ore e mezza di aereo con partenza da Parigi. Il ritorno, avvenuto la notte scorsa, lo ha riportato nella capitale francese. Da lì poi Sambinello volerà a Nizza e poi si sposterà al Trofeo Laigueglia.

«Sono stati giorni un po’ così – racconta quando ancora è in hotel a Kigali – a causa di un virus che mi ha debilitato. Non ho preso parte alle ultime due frazioni, quelle che si svolgevano sul percorso dei prossimi mondiali. Ancora non abbiamo capito quale sia stata la causa del virus, ma l’importante è che sia passato. Tra venerdì e sabato non ho chiuso occhio, la mattina era sfinito. Il medico della squadra, che per la trasferta ci ha seguito, mi ha dato un antibiotico e mi sono ripreso abbastanza velocemente».

Per il resto in Rwanda com’è andata?

Ho sofferto il caldo e l’altura. Specialmente le alte temperature che sono sempre state molto alte, c’erano tra i 30 e i 35 gradi centigradi. Non ho performato come avrei voluto, ognuno reagisce a modo suo.

A che quota eravate?

Dipende un po’ dalle zone del Paese. A Kigali abbiamo dormito intorno ai 2.000 metri. In certe tappe siamo arrivati oltre i 2.600 metri di quota e tante volte abbiamo scollinato salite con quota superiore ai 2.000 metri. Non ho mai fatto grandi sforzi in altura, ed è una cosa che mi manca. L’anno scorso per preparare il mondiale di Zurigo sono stato a Livigno ma abbiamo sempre lavorato a intensità relativa.  

Al Tour du Rwanda i ritmi erano alti?

E’ stata una corsa molto diversa da quelle a cui sono stato abituato fino ad ora. Qui le grandi squadre avevano tutte un velocista di riferimento e quindi tendevano ad abbassare i ritmi. Solamente noi e i ragazzi del devo team della Picnic PostNL abbiamo provato a movimentare la situazione. I numeri sul computerino erano bassi, ovviamente è una cosa legata all’altura. Le uniche due tappe in cui siamo andati davvero forte sono state la quarta e la quinta. 

Una corsa impegnativa a livello altimetrico?

Sicuramente quella con più dislivello che ho fatto in tutta la mia vita. A parità di dislivello ce ne siamo accorti un po’ meno rispetto a quando corriamo in Europa. Questo perché non c’è tanta pianura, quindi o si sale o si scende. In media facevamo tra i 2.000 e i 2.500 metri di dislivello. La tappa regina ne aveva 3.700. Il tutto con chilometraggi abbastanza ridotti, sempre compresi tra i 120 e i 150 chilometri.

Le salite come sono?

Bisogna partire dal presupposto che le strade sono tutte statali con la carreggiata larga e l’asfalto perfetto. Anche questo particolare riduce la percezione della fatica. Quando ti trovi a pedalare su tratti all’8 per cento di pendenza ma con l’asfalto favorevole è diverso. Da noi, al contrario, ti ritrovi su una strada stretta e mal ridotta e questo fa tanta differenza

Le strade sono sempre in perfette perfette condizioni (foto Tour du Rwanda)
Le strade sono sempre in perfette perfette condizioni (foto Tour du Rwanda)
Di pubblico ce n’era tanto?

Tantissimo. Diverso rispetto a quello a cui siamo abituati di solito perché non sono appassionati di ciclismo ma curiosi. E’ un paesaggio particolare, nel quale si attraversa una foresta e ogni due o tre chilometri ti trovi un villaggio pieno di gente sulle strade. In particolare bambini. Vi racconto un aneddoto. 

Dicci.

Non riguarda direttamente me ma un massaggiatore del team. La sera dopo la tappa è andato a correre e lo stavano seguendo tanti bambini. Ad un certo punto si è accorto che uno di loro aveva delle scarpe ai piedi, era l’unico. Però erano slacciate, nel fargli il nodo il bambino lo guardava ammirato e appena fatto non ha smesso di ringraziarlo. Da un lato è un gesto che magari può anche far sorridere però ti lascia qualcosa dentro. 

Entri in contatto con un mondo totalmente diverso…

E anche i valori cambiano. In questi giorni ho visto spesso delle persone, dei bambini, che per una borraccia vuota ti fanno un sorriso enorme. Per loro ha un valore altissimo, ma non perché siano tifosi, ma per il significato che questa gara rappresenta per loro. E’ una novità, un qualcosa che li incuriosisce. Dopo un’esperienza del genere cambia un po’ la percezione di cosa sono le cose importanti. 

Com’è il Rwanda al di fuori della capitale, Kigali?

Verde, anzi verdissimo. Poi ci sono dei posti immersi nella natura incontaminata. Durante la quinta tappa siamo passati in un parco naturale e c’erano dei posti che tra una fatica e l’altra ho alzato lo sguardo e sono rimasto a bocca aperta. Nelle città c’era tanta diversità rispetto agli hotel in cui eravamo noi che comunque erano di buonissimo livello. Nelle città intorno comunque c’è molta povertà, cosa che si trova meno a Kigali. Comunque è un’esperienza di vita che vale la pena vivere, sono contento di essere venuto.

Restrepo: il 2023 per rilanciarsi, la Polti per confermarsi

03.03.2024
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Jhonatan Restrepo ha iniziato forte questo 2024, 16 giorni di corsa, due vittorie e ben 8 piazzamenti nei primi dieci. Prima in Colombia, a casa sua, poi in Rwanda, il corridore della Polti-Kometa ha raccolto tanto e il suo tono di voce fa trasparire tanta felicità. Ora Restrepo si trova in Italia, vicino a Torino, si allena e guarda avanti: la stagione non finisce a febbraio. Sa che c’è da lavorare e preparare i prossimi impegni, non guarda troppo in là, le cose si fanno un passo alla volta

«Rispetto al Tour du Rwanda fa freddo – scherza Restrepo – là ero abituato a 40 gradi, qui in Italia ce ne sono 10. Ho iniziato bene la stagione, prima in Colombia, dove ho vinto anche una tappa, l’ultima. Nelle frazioni precedenti ho provato anche a lanciarmi in qualche sprint, ma ne sono uscito battuto. Non è facile, sono veloce, ma non posso fare una volata di gruppo. Prendevo bene le ruote dei velocisti, ma poi quando provavo ad uscire rimanevo fermo».

Restrepo ha vinto l’ultima tappa della Tour Colombia battendo un gruppetto allo sprint
Restrepo ha vinto l’ultima tappa della Tour Colombia battendo un gruppetto allo sprint
Poi però quando la strada saliva sei riuscito a vincere, non si può fare tutto…

Nei giorni con tanta salita stavo bene, l’ho dimostrato. Il Tour Colombia è stata la prima corsa di più giorni e sono felice di come è andata. In salita ero pronto, stavo davanti, lottavo con i primi. In Rwanda, invece, è andata ancora meglio. Anche lì ho vinto una tappa, in più sono sempre stato in gioco per la classifica (Restrepo ha terminato terzo nella generale, ndr).

Come sono andati i primi mesi con la Polti-Kometa?

Qui si lavora molto bene. Grazie a loro ho cambiato molto nell’allenamento, nell’alimentazione, ho imparato a mangiare meglio. Metto attenzione su cose che prima non riuscivo a fare. La Polti è una squadra molto professionale, quando si lavora così è tutto più semplice. Ci sono le persone giuste, che lavorano sulle cose giuste, c’è fiducia reciproca perché ti confronti con gente che sa cosa deve fare. 

Il corridore della Polti ha provato anche a fare le volate di gruppo, ma i velocisti erano imbattibili
Il corridore della Polti ha provato anche a fare le volate di gruppo, ma i velocisti erano imbattibili
Un cambiamento che arriva in un punto importante della carriera.

Non sono vecchio, ma non sono nemmeno giovane. E’ il momento di prendermi delle responsabilità, per me e per la squadra. So che se continuo a lavorare e allenarmi così i risultati arriveranno. 

Uscivi da un 2023 non facile, è così?

No, l’anno scorso per me è stato un anno bello. Ero tranquillo, non penso sia stato un anno duro. Ho imparato tanto anche in quella situazione, grazie ai giovani. Ho scoperto la voglia di insegnare e trasmettere la mia esperienza, di dare tanti consigli. Nella GW Shimano ero un po’ il capo, di solito in Europa questa cosa non te la fanno fare. Per me il 2023 è stato importante, perché grazie a quella esperienza ho trovato una voglia nuova, che non sapevo di avere. 

Hai corso tanto in Colombia e in generale in Sud America, che livello hai trovato?

Alto, altissimo. Specialmente in Colombia, lì gli scalatori ci sono e vanno davvero forte. Un po’ mi sono dispiaciuto, perché appena arrivato dall’Italia, dove avevo vinto a Reggio Calabria, stavo bene. Poi però alla Vuelta a Colombia, la corsa a tappe lunga di giugno, sono caduto e mi sono rotto le costole e una scapola. Ho praticamente finito la stagione in anticipo. 

Restrepo (a sinistra) in Rwanda ha conquistato la terza posizione in classifica generale (foto Tour du Rwanda)
Restrepo (a sinistra) in Rwanda ha conquistato la terza posizione in classifica generale (foto Tour du Rwanda)
Il 2023 quindi ti ha fatto ritrovare un nuovo Restrepo?

Sì, correre in Colombia è sempre bello, soprattutto per me che arrivo da lì. E’ un modo di gareggiare più rilassato rispetto all’Europa, e questo mi ha aiutato a ricaricarmi. Da voi bisogna allenarsi sempre al massimo e non è facile restare concentrati tutto il tempo. 

L’arrivo alla Polti-Kometa com’è nato?

Il primo interesse è nato dopo la vittoria a Reggio Calabria, ma mi tenevano sotto controllo da giugno. Per questo salto devo ringraziare Ellena, a lui devo tanto, se non tutto. Mi ha dato una grande mano nel trovare squadra. La Polti-Kometa ha creduto tanto in me e questo mi dà tanta consapevolezza. Avere la fiducia di Basso e Contador vuol dire molto.

L’inizio di stagione ha visto un altro successo per il colombiano, questa volta in Rwanda (foto Tour du Rwanda)
L’inizio di stagione ha visto un altro successo per il colombiano, questa volta in Rwanda (foto Tour du Rwanda)
Ora arrivano delle corse importanti, fondamentali anche in ottica Giro d’Italia. 

Ora punto a fare bene alla Tirreno-Adriatico, alla Milano-Torino e Milano-Sanremo, il 17 marzo spero di aver raccolto cose buone. Al Giro manca ancora tanto, prima ci sono questi 20 giorni di corsa, se non si fa bene qui, non si viene presi in considerazione per la corsa rosa. 

Alla Polti-Kometa ci sono due giovani interessanti, riuscirai a passare loro la tua esperienza?

In questo mese correrò molto con “Piga” e mi piacerebbe insegnare qualcosa. Restare tranquillo, prendere le salite in testa senza fare fatica, alimentarsi in gara. Mi piace Piganzoli perché è uno che ascolta, si interessa, insomma è un corridore sveglio. Dare una mano a ragazzi come lui è un piacere. 

Il Rwanda incorona “Natalino” e aspetta i mondiali

16.03.2022
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Del movimento ciclistico africano avevamo già parlato con Daniele Nieri dopo le Olimpiadi di Tokyo. Ora, dopo l’ufficialità che i mondiali del 2025 si correranno in Africa, più precisamente in Rwanda, vogliamo immergerci nell’atmosfera che attenderà i corridori. Ce la facciamo raccontare da Leonardo Canciani, diesse della Drone Hopper-Androni, reduce dal Tour du Rwanda, vinto dal team italiano con Natnael “Natalino” Tesfatsion (foto di apertura).

Doppio leader

«Lui ha vinto questa corsa due volte – inizia Leonardo – la prima nel 2020, con la nazionale dell’Eritrea e quest’anno con noi. Solitamente al Tour du Rwanda andiamo con una squadra di scalatori visto che si svolge tutta in altura e la pianura è solo un ricordo da quelle parti. Anche quest’anno, infatti, uno degli uomini di classifica era Restrepo, con l’incognita sul livello di condizione di Tesfatsion. Mentre Jhonatan aveva la maglia di leader, ha avuto un disturbo intestinale che gli ha fatto perdere dei minuti. Natnael ne ha “approfittato” portando a casa la vittoria finale, sfruttando anche la sua ottima condizione».

In Rwanda le tappe si corrono principalmente sulle strade statali che non hanno nulla da invidiare a quelle europee
Si corre principalmente su strade statali che non hanno nulla da invidiare a quelle europee

Tanta altura, poca pianura

Il discorso si sposta subito sulle piccole e grandi curiosità. Approfittiamo della disponibilità di Leonardo che ci racconta le sensazioni e le emozioni del correre in questo continente affascinante.

«Kigali, la capitale, è una città molto popolosa e moderna – continua – le sue strade sono belle. Si trova a 1.500 metri d’altitudine ed è il punto più basso di tutto il Paese. Tutte le strade che dalla città portano fuori sono in costante salita, il Rwanda è composto da tante vallate e per raggiungerle sei sempre costretto a fare due o tre salite. Kigali stessa è stata costruita su una zona collinare che rende impossibile trovare un metro di pianura».

Il Rwanda è un Paese con molte salite, è difficile trovare dei tratti di pianura
Il Rwanda è un Paese con molte salite, è difficile trovare dei tratti di pianura

Un percorso difficile

Già dalle prime parole di Leonardo si capisce come il percorso del primo storico mondiale africano sarà di non facile interpretazione. 

«Rischia di essere un mondiale davvero duro dal punto di vista altimetrico – conferma – se poi a tutto ciò si aggiunge l’altitudine diventa una gara ad eliminazione. Dal punto di vista tecnico le strade in Rwanda sono molto curate, sia quelle della Capitale che le statali sulle quali si è corso il Tour.

«Se devo immaginare un percorso per il mondiale fatico a disegnarlo (rincalza Leonardo con voce viva, ndr). Ne parlavo anche con gli organizzatori del Tour du Rwanda. Ci dicevamo che effettivamente sarà difficile pensarlo, si corre il rischio che diventi troppo duro. Anche dentro Kigali ci sono due o tre strappi sul pavè che arrivano al 20 per cento di pendenza, da un certo punto di vista sono simili ai muri delle Fiandre. Se devo immaginare un percorso, lo penso adatto a due categorie di corridori: scalatori se si fanno salite dure come il Mont Kigali oppure a corridori con grande fondo ed esplosività».

Il movimento ciclistico africano è in grande crescita, sono sempre di più i team WorldTour che prendono corridori da questo continente
Il movimento africano è in crescita: i team WorldTour prendono corridori da questo Continente

Movimento che cresce

Il ciclismo africano abbiamo imparato ad apprezzarlo grazie ai suoi atleti, uno su tutti è proprio Natnael. Ma sono molti i ragazzi di questo grande continente che hanno grandi margini di miglioramento. Ora molti corridori sono immaturi dal punto di vista tattico e tecnico ma entro il 2025 tutti noi ci aspettiamo un grande passo in avanti di questo movimento.

«I corridori africani a numeri sono da top mondiale – dice Canciani – non scherzo, Natnael fa dei valori nei test davvero impressionanti. Poi pecca di malizia tattica e questo lo penalizza, un esempio è l’arrivo di Bellante alla Tirreno. Era nel gruppo di testa con i migliori ed ha attaccato, venendo ripreso e finendo ventiduesimo. Se avesse atteso sarebbe finito nei primi dieci.

«Parlavo di questo con un giornalista sudafricano che mi ha chiesto cosa potessero fare i corridori africani per migliorare in ottica mondiale… Io gli ho detto che se alcune nazionali, come Eritrea e Rwanda ma anche Etiopia, riuscissero a correre in Europa per un paio di mesi ogni anno, imparerebbero molto aumentando la loro competitività. Immaginare un campione del mondo africano ora è difficile, ma nel 2025 chissà. Non montiamo loro la testa, ma dal punto di vista atletico ci battono a mani basse».

La gente a bordo strada era numerosa durante tutte le tappe
La gente a bordo strada era numerosa durante tutte le tappe

Bambini sulle strade

«L’interesse intorno a noi – dice ancora Canciani – era veramente molto alto. Non dico migliaia di persone a bordo strada, ma centinaia sì. Di ciclismo non sanno nulla, ma sono molto curiosi. Li vedi che si aggirano per le strade o intorno alle partenze e agli arrivi, con gli occhi pronti a catturare ogni dettaglio. I più belli da vedere erano i bambini a bordo strada, ogni volta che attraversavamo un villaggio erano tantissimi. Un fatto che mi ha fatto sorridere, ma anche riflettere, è che ogni volta che passavamo su una salita ci correvano dietro. Avevano ai piedi delle infradito o addirittura scalzi e li vedevi venire su accanto all’ammiraglia per centinaia di metri a 15-16 all’ora… La prima cosa che abbiamo pensato è stata “se gli diamo una bici chissà cosa sarebbero in grado di fare”».

Bisolti “inviato speciale” al Tour du Rwanda racconta…

13.05.2021
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C’era un solo italiano al via del Tour du Rwanda, Alessandro Bisolti. Una dozzina di giorni, viaggio di andata e ritorno incluso, nel piccolo Paese nell’Africa centrale. Una corsa diversa, in una Nazione “ciclisticamente nuova”. Una trasferta esotica e ricca di significati.

Il ciclismo si apre a nuove realtà e va in uno Stato e da un popolo che escono da una delle più atroci guerre civili degli ultimi anni. Un genocidio tremendo, quello del 1994, del quale è impossibile definire il numero dei morti (forse un milione). Dovette intervenire l’Onu per ristabilire la situazione. Certe cicatrici restano e quando si riparte, anche con lo sport è sempre un momento importante. E per questo Bisolti era il nostro “inviato”.

All’avventura

«Prima di partire mi sono anche documentato – racconta il corridore dell’Androni Giocattoli Sidermec – Ammetto di essere stato un po’ titubante. Correre in Africa può sembrare un’avventura, soprattutto durante una pandemia. Invece già dall’atterraggio all’hotel si è rivelato tutto subito al top. Ci hanno fornito il numero del governo ruandese, ci hanno fatto il tampone…».

Bisolti è da poco rientrato a casa sua, tra le Valli Giudicarie, sulle sponde del Lago d’Idro e il tono del racconto è squillante e vivo. Sono stati giorni importanti, costruttivi e anche ricchi di sorprese.

«Se riesco a mantenere la sveglia del Rwanda uscirò sempre presto! Alle 5,30 si era già tutti svegli perché le tappe partivano alle 9 e in un paio di occasioni ci sono stati da fare dei trasferimenti visto che siamo rimasti sempre nello stesso hotel».

Tornanti questi sconosciuti

Ma non va dimenticato anche l’aspetto agonistico del viaggio. Bisolti parla di tappe non lunghe ma molto dure e praticamente in altura, visto che la capitale, Kigali, sorge a circa 1.500 metri di quota ed era uno dei punti più bassi.

«Una cosa che mi ha colpito dei percorsi – dice Bisolti – è che non hanno “inventato” i tornanti. Mamma mia che muri. Si andava su dritti con strappi anche al 20%. Salivi di 200-300 metri in un chilometro e mezzo. 

«E poi la gente a bordo strada: che bello! Impazziva letteralmente per la corsa. Purtroppo a causa del Covid non siamo riusciti a godercela in pieno perché le restrizioni erano severe. Avevamo sempre la polizia vicino con i manganelli alla cintura. Però il calore si avvertiva lo stesso. Pensate che una volta dovevo fare pipì e in 140 chilometri ho fatto fatica a trovare un punto dove non ci fosse nessuno per fermarmi. Certe scene di pubblico a bordo strada le ho viste solo quando il Giro partì dall’Olanda. Un entusiasmo che da noi si fa fatica trovare. I bambini ti rincorrevano in salita. E anche in allenamento ogni volta ci salutavano.

«Un giorno, dopo l’arrivo ho regalato un paio di borracce e sembrava chissà cosa gli avessi dato. Mi è dispiaciuto non avergliele potute lanciare con la nuova regola Uci. Un peccato per quei bambini e per me».

Alessandro Bisolti tra i bambini: è “la sua foto” di questa trasferta
Alessandro Bisolti tra i bambini: è “la sua foto” di questa trasferta

La “foto” del Rwanda 

«La mia foto di questa trasferta? I bambini. Un giorno volevo farmi un selfie con loro. Per fare un bello scatto li ho chiamati, sotto l’occhio di una poliziotta. Ne sono arrivati, due, quattro, cinque… in un attimo saranno stati 30. A quel punto mi sono sbrigato perché altrimenti davano la colpa a me di eventuali contagi. E’ la scena che più mi è rimasta in mente».

Bisolti avrebbe voluto avere un po’ più di tempo per godersi il Rwanda, conoscere la gente e i luoghi. Ma le norme sulla pandemia erano severe anche per i corridori e quel poco che ha visto lo ha fatto dalla sella.

Bici tuttofare

«Ho imparato – continua il corridore di Savio – che puoi trasportare ogni cosa con la testa. Vedevi queste donne che mettevano sul capo, banane, ceste, fusti di latte e camminavano con un equilibrio pazzesco. Entravi nei paesi ed era pieno di gente. Tutti che si muovevano a piedi o in bici, sulle quali caricavano di tutto. Nei trasferimenti alle 6 del mattino, vedevamo che erano già tutti super attivi.

«Le strade erano pulite. Davvero un popolo ordinato, dignitoso. Poi sì, c’erano anche delle baracche come succede in queste Nazioni. Il ricco è ricco per davvero e il povero è super povero. E così si passava dai grattacieli moderni, dai quartieri più lussuosi appunto, alle baraccopoli. Mi auguro che tra qualche anno tutti possano stare meglio. 

«Io avevo già corso in Gabon qualche anno fa e la situazione era diversa. Sporcizia per strada, alloggi meno confortevoli, problemi per mangiare, in Rwanda niente di tutto ciò. E poi foreste, cascate… Se dovessi tornare vorrei portare anche la mia compagna, Sara, per farle vedere tutto ciò. Il clima? Sara mi ha detto: non ti sei abbronzato molto! E ci credo, era abbastanza fresco. Un po’ perché si era in alto e un po’ perché uno scroscione lo abbiamo preso o schivato tutti i giorni. Tante volte ci è capitato di passare sulla strada fumante con il sole che faceva evaporare l’acqua appena caduta».

Avamposto francese

Il Rwanda era territorio belga ai tempi del colonialismo, adesso invece c’è una forte influenza francese. Fu proprio la Francia a farsi promotrice dell’intervento Onu del 1994 ed è stata Aso che ha organizzato il Tour du Rwanda. Anche il presidente Uci, David Lappartient si è fatto vedere.

«E’ venuto anche lui. Vogliono organizzare un mondiale in Africa, in Marocco (si parla del 2025 e in ballo c’è il Rwanda stesso, ndr). Di giovani che vanno in bici attrezzati ne avrò visti giusto un paio, però magari anche grazie a queste corse può nascere un movimento che fra qualche decennio può decollare».

Il livello della corsa era buono e infatti in gara c’erano una WorldTour, la Israel Start-Up Nation, e diverse professional, tra cui le francesi Total Direct Energie e la B&B, oltre all’Androni chiaramente.

«Si andava forte – commenta Bisolti – c’erano dei corridori buoni. Noi siamo arrivati al ridosso del via. Alcune squadre invece erano lì già da un po’ e ne hanno approfittato per fare altura. Si erano adattati meglio. Altura più gara: un Rolland della situazione si prepara per il Tour de France.

«Tappe brevi magari ma con 2.500 metri di dislivello. Nella sesta tappa sono andato in fuga ma nel finale sono andato in crisi di fame. Ero un po’ vuoto per qualche problemino intestinale, altrimenti sarei arrivato con Rolland e Vuillermoz, non male!».

Tattiche naif

Bisolti racconta con lo stesso entusiasmo con cui è stato accolto dalla gente ruandese. E tra i suoi ricordi si parla anche della tattica.

«C’erano i giovani di alcune nazionali come Algeria, Eritrea, Kenya… e il modo di correre era un po’ diverso, più confusionario. Per dire: li ho visti scattare mentre si andava a 60 all’ora in un falsopiano in discesa. O partire da soli quando la fuga aveva ormai 10′.

«Ma il meglio è stato all’ultima tappa. Rompo la bici praticamente al chilometro zero. Me ne danno una che non era la mia e sulla quale proprio non riuscivo a pedalare. Così mi dico: vabbè faccio gruppetto. Mi metto dietro tranquillo, quando vedo alcuni corridori che su uno di quegli strappi dritti prendono e scattano. Ma come – mi dico – partono nel gruppetto? Quindi restavo in fondo da solo. In cima erano stremati e li riprendevo. Si mettevano a ruota. Arrivava un altro strappo e giù che riscattavano. All’inizio mi ero anche innervosito, perché comunque non si fa così, poi l’ho presa a ridere. Alla fine ne avevo 20-30 a ruota».