Tre gare a tappe in tre diversi continenti, ma il responso finale è stato sempre lo stesso: vittoria. Se poi a questi si aggiunge il successo alla Liegi-Bastogne-Liegi U23 è chiaro perché Joseph Blackmore è uno dei nomi più chiacchierati nell’ambiente ciclistico in questo periodo, con una marea di occhi di osservatori e diesse puntati su di lui. D’altro canto non sono solamente i risultati a far parlare di lui, ma anche come riesce a ottenerli.
Federico Savino, che l’aveva affrontato al Circuit des Ardennes era stato esplicito nel cantare le lodi del corridore del devo team dell’Israel Premier Tech, dopo la sua autoritaria condotta di gara nella tappa finale per ribaltare le sorti della corsa, riuscendoci. Dopo il successo a Liegi i giornalisti si sono avventati su di lui, passato qualche giorno abbiamo però trovato tempo e modo per ascoltarlo e farci raccontare qualcosa di questo talento del futuro già diventato presente.
«Ho sempre navigato nel ciclismo partendo da un piccolo club delle mie parti quand’ero bambino. Io sono di Sidcup, nella zona a sud-est di Londra. Inizialmente mi dedicavo un po’ a tutto, dalla strada alla mountain bike e al ciclocross d’inverno. Ultimamente però mi sono concentrato più sulla strada. Inizialmente era tutto divertimento, poi con il passare degli anni l’impegno è diventato sempre maggiore».
Lo scorso anno avevi ottenuto buoni risultati soprattutto nelle corse a tappe, con il 12° posto al Tour de l’Avenir, ma quest’anno hai avuto una vera esplosione. Qual è la differenzia del Blackmore di oggi rispetto a quello del 2023?
Probabilmente un inverno senza ciclocross. Mi sono allenato, sì, anche sui prati, ho fatto i raduni con la squadra, ma aver evitato quasi del tutto la stagione agonistica (una sola gara nazionale chiusa al 4° posto, ndr) mi ha giovato. Ho curato di più la preparazione su strada e sono arrivato pronto all’inizio di stagione. Poi ci sta anche che ho un anno di esperienza in più. Non nascondo che non fare offroad un po’ mi pesa, ma ci vuole solo un po’ per abituarsi.
E’ rarissimo vedere un corridore che vince tre gare a tappe di seguito: qual è stata la più difficile e quale quella che ti ha dato più soddisfazione?
Penso che sia stato probabilmente il successo in Ruanda, forse il più difficile, nella corsa più lunga e nelle condizioni più diverse da quelle alle quali siamo abituati. Anche se abbiamo avuto anche alcune tappe brevi, erano tappe super dure. Le condizioni, il caldo, l’altitudine erano tutte variabili difficili, ma anche la corsa di Taiwan non è stata una passeggiata, con l’umidità, il caldo alcuni giorni e freddo in altri… La terza aveva connotati a noi più abituali, pur considerando le strade strette. Uno stile di corsa diverso, mettere insieme tutte e tre penso indichi la mia completezza. Poi al Ruanda sono legato perché ho vinto la tappa di Kigali nel giorno del mio compleanno…
Al Circuit des Ardennes Federico Savino ci ha detto di essere rimasto impressionato da come hai condotto l’ultima tappa, per prendere i 7” che ti separavano dalla vetta. Ti eri fatto un piano per vincere la corsa?
Sapevo che era molto vicino e quindi c’erano tutte le possibilità per ribaltare la situazione in extremis. Dovevo solo vincere questa tappa finale, ma prima di tutto volevamo isolare la maglia gialla in quel momento e farla soffrire. Ma alla fine era ancora nel gruppo di testa, quindi aveva una forte carica. Dovevo giocarmela fino alla fine, evitando che prendesse secondi di bonus e puntando tutto sulla volata. Ho vinto la classifica generale perché non stavo correndo solo per vincere la tappa, ma con uno sguardo d’insieme.
Che tipo di corridore sei, più adatto alle corse d’un giorno o a quelle a tappe?
Probabilmente – e potrà sembrare strano – forse più adatto alle classiche in linea, diciamo che per ora sono quelle che mi si attagliano di più in questo percorso di crescita. Poi è un giudizio legato al momento, ne sapremo di più col passare dei mesi o forse nei prossimi due anni. E’ vero anche che ho vinto tre corse a tappe di diversa durata, dai 4 giorni delle Ardenne ai 5 di Taiwan e addirittura 8 in Ruanda.
La Liegi-Bastogne-Liegi era un altro dei tuoi obiettivi, come hai costruito quella vittoria?
Sì, era un appuntamento centrale della stagione. Molto ha influito la fiducia che mi sono costruito nelle settimane precedenti. Poi abbiamo costruito un piano alla vigilia, per attaccare sull’ultima salita ed ero in una buona situazione per portarlo a termine con un gruppo ridotto. Mi sentivo comunque abbastanza bene. E’ stato importante perché è stata la prima corsa nella quale mi sentivo guardato a vista, il riferimento del gruppo, l’uomo più pronosticato e vincere in queste condizioni non è mai facile.
C’è un corridore al quale ti ispiri?
Non potrei che dire Chris Froome, mio compagno di camera in Ruanda. Un vero riferimento con tutto quello che ha vinto e che ha fatto, stare con lui mi insegna tanto. Poi, al di fuori del nostro team, sicuramente Van der Poel, per tutto quello che fa, per la bellezza delle sue imprese che sono uno stimolo a imitarlo.
Il prossimo anno entrerai in prima squadra e molti già vedono in te il nuovo Froome, l’uomo per i grandi giri. Hai paura che questo ti dia troppa pressione?
Cerco semplicemente di non pensarci, di non ritenermi uomo per grandi giri. E’ troppo presto per dirlo. Amo le grandi salite, è vero, vado abbastanza bene sul passo, ma serve tempo per costruire un motore adatto per una corsa di tre settimane. Devi avere un livello altissimo per l’alta montagna e probabilmente è molto diverso dal modo in cui corro in questo momento.
Che obiettivi hai da qui alla fine della stagione?
Non lo so sinceramente, mi vengono in mente i mondiali su strada come quelli di mtb, ma io non sono abituato a pormi obiettivi lontani, vado avanti di giorno in giorno meglio che posso.