La nuova Giant TCR e una guida d’eccezione: Tom Dumoulin

12.03.2024
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TAICHUNG (Taiwan)- «Ho gareggiato per tanti anni con la TCR – ci racconta un sorridente Tom Dumoulin – ma è la prima volta che vengo nel quartier generale in Taiwan».

E’ vero, l’olandese ha ormai definitivamente interrotto la carriera di atleta professionista, ma il suo stile, la sua eleganza in bicicletta e anche il suo motore non si dimenticano. Oggi è testimonial di Giant, lo abbiamo incontrato nella sede asiatica del gruppo e ci siamo fatti raccontare la nuova TCR Sl appena svelata.

Dumoulin al fianco di Bonnie Tu, presidente del gruppo Giant (foto Sterling Lorence/Giant)
Dumoulin al fianco di Bonnie Tu, presidente del gruppo Giant (foto Sterling Lorence/Giant)
Sei stato coinvolto nello sviluppo della nuova TCR?

Questa volta no. Sono testimonial di Giant da qualche mese e prima di smettere in modo definitivo ho utilizzato una altro marchio di bici. Diciamo che utilizzo la nuova TCR da un mese circa, perché dopo un periodo di riposo la voglia di stare in bici mi è tornata. Con altri ritmi, con una prospettiva diversa, ma in sella sto bene. Dove vivo io ha fatto un inverno piuttosto piovoso, ma qualche bella uscita lunga non me la sono fatta mancare.

Quindi non sei andato in Spagna in ritiro?

Ho mandato i corridori veri a fare training camp (risponde con una risata ndr). Brutto tempo, però mi sono goduto casa mia.

Tornando alla TCR, hai detto questa volta no! Le generazioni precedenti?

Nelle cinque generazioni precedenti ho sempre fornito e mi è sempre stato chiesto di offrire il mio contributo per lo sviluppo dalla bicicletta. A partire dalla TCR che avevamo in dotazione al Team Rabobank, fino ad arrivare alla generazione precedente, sviluppata tempo prima, ma di fatto utilizzata a partire dal 2021. E’ una piattaforma che conosco molto bene.

Ti senti ancora in grado di sviluppare un prodotto di questa categoria?

Quando ho ripreso in mano la bici, avevo qualche dubbio sulla mia sensibilità in merito alla bici, alle fasi di guida e soprattutto nel fornire eventuali feedback. Onestamente però ci ho messo poco a riprendere un buon ritmo. Non quello da professionista, questo è ovvio.

Con calma e senza lo stress degli allenamenti e delle gare?

Esatto. Sotto molti punti di vista mi rendo conto di avere più tempo per focalizzarmi sulle risposte della bici, su come va effettivamente. La gamba non è male e questo mi aiuta.

Una cosa che ti ha colpito della nuova TCR?

Una risposta secca? La reattività in fase di accelerazione e rilancio, soprattutto fuori dalle curve. Sembra scappare via, non è per nulla nervosa ed instabile. E’ un frangente dove emergono il suo carattere corsaiolo e il rapporto tra la leggerezza, è molto leggera, e la rigidità.

La TCR è facile da rilanciare e sempre perfetta nelle linee (foto Sterling Lorence/Giant)
La TCR è facile da rilanciare e sempre perfetta nelle linee (foto Sterling Lorence/Giant)
Più veloce della Propel?

Sono due bici differenti, anche se devo ammettere che non ho utilizzato così a fondo l’ultima versione della Propel. Il feedback diretto che posso dare, facendo una sorta di confronto, è che la nuova TCR è ancora più pronta ai cambiamenti di ritmo, rispetto alla Propel. E considerando quanto è facile da lanciare quest’ultima, ti lascio immaginare!

Eppure l’anno passato tutti i corridori del Team Jayco hanno utilizzato la Propel!

Normale che fosse così, quando Giant gli ha messo a disposizione un mezzo leggero ed aerodinamico, veloce in pianura e capace di stare al livello delle bici da scalatore vere e proprie. Il corridore professionista non ama cambiare bici troppe volte. Se gli metti a disposizione il compromesso migliore, stai pur sicuro che la scelta verte su quello. Di questo ho parlato con Yates anche poco tempo fa.

Torneresti ai freni tradizionali?

Neppure per scherzo. Anche se è tutto l’insieme che fa la differenza. Non è solo una questione di impianto frenante. Le bici sono un altra storia, i componenti in genere sono evoluti. Le gomme e pure le ruote ti permettono di fare cose che pochi anni fa erano impensabili. Non parliamo di 30 anni, ma di sei o sette. Un altro mondo.

Giant e Dumoulin tornano a pedalare insieme

11.08.2023
3 min
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Solitamente il mese di agosto porta con sé tante novità negli organigrammi dei team pronti a rinnovare il loro roster per la nuova stagione. Ogni squadra annuncia i nuovi ingaggi nella speranza che questi possano portare in dote con sé future vittorie. Tra i tanti annunci arrivati a inizio agosto, uno molto particolare ha colpito la nostra attenzione in quanto non aveva come protagonisti né un team né un ciclista attualmente in attività. L’annuncio in questione ha infatti riguardato uno dei marchi di bici più famosi al mondo e un ex ciclista. Stiamo parlando di Giant e di Tom Dumoulin che hanno deciso di tornare a condividere un cammino comune.

Tom Dumoulin in sella alla Giant celebrativa per la vittoria al Giro del 2017
Tom Dumoulin in sella alla Giant celebrativa per la vittoria al Giro del 2017

Ambasciatore globale

Lo scorso 2 agosto, attraverso un proprio comunicato ufficiale, Giant ha annunciato che Tom Dumoulin ricoprirà il ruolo di Global Ambassador del marchio di bici taiwanese. L’ex campione olandese, oggi trentaduenne, ha chiuso la sua carriera da atleta lo scorso anno. E’ stato professionista dal 2012 al 2022 e in poco più di dieci anni ha saputo ottenere risultati davvero degni di nota. Nel 2017 Dumoulin è stato il primo corridore olandese a vincere il Giro d’Italia. Nel 2018 è salito sul podio sia al Giro che al Tour de France. Durante la sua carriera, ha vinto quattro tappe alla corsa rosa, tre al Tour de France e due alla Vuelta. Si è inoltre aggiudicato il titolo mondiale a cronometro nel 2017 a Bergen in Norvegia. Sempre a cronometro ha conquistato la medaglia di bronzo ai mondiali 2014 e la medaglia d’argento ai Giochi olimpici 2016 a Rio de Janeiro ed ai Giochi olimpici di Tokyo nel 2020.

Dumoulin al Giro del 2022, anno del suo ritiro, insieme a Van Der Poel
Dumoulin al Giro del 2022, anno del suo ritiro, insieme a Van Der Poel

Sempre con Giant

I successi più importanti che Dumoulin ha ottenuto nella sua carriera hanno un unico denominatore comune: essere stati ottenuti in sella ad una bicicletta Giant. E’ lo stesso Dumoulin a ricordarlo. «Ho un rapporto davvero speciale con Giant (ha dichiarato, ndr). Durante i migliori anni della mia carriera, Giant ha supportato le squadre in cui correvo. I miei migliori risultati sono sempre stati ottenuti su bici Giant, quindi è ovvio che io sia entusiasta di essere ora un ambasciatore del marchio».

L’entusiasmo di Dumoulin è stato naturalmente condiviso dalla stessa Giant. «Siamo entusiasti di annunciare questa partnership con Tom Dumoulin (ha affermato Phoebe Liu, Chief Branding and Marketing Officer di Giant Group). Ha raggiunto i massimi livelli di questo sport e ci ha aiutato a creare prodotti innovativi e ad alte prestazioni in grado di ottenere dei vantaggi effettivi in gara. Dopo il suo ritiro, Tom ha ritrovato il suo amore per il ciclismo. Sappiamo che sarà fonte d’ispirazione per le persone in tutto il mondo».

In qualità di ambasciatore globale del marchio, Dumoulin parteciperà a tutti gli eventi che vedranno coinvolta Giant, a livello strada, gravel e mountain bike. 

Ricordiamo che attualmente Dumoulin collabora con NOS, la rete televisiva pubblica olandese ed è coinvolto in prima persona in un nuovo bike park realizzato vicino a casa sua a Maastricht, in Olanda. Si tratta del Tom Dumoulin Bike Park e presenta un percorso strada di 3,2 chilometri accanto a percorsi per mountain bike e una pista BMX. Si tratta di un progetto nato per aiutare i giovani ciclisti ad allenarsi e a migliorare la propria tecnica di guida in un ambiente totalmente sicuro. Tutto ciò rientra in un certo qual modo nel nuovo ruolo che da oggi Dumoulin dovrà svolgere per Giant: essere fonte di ispirazione.

Giant

Dumoulin, i giorni in cui iniziò a spegnersi la luce

05.01.2023
5 min
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E’ stato quando ha smesso di percepire il ciclismo come un viaggio nei suoi sogni di ragazzo che Tom Dumoulin ha deciso di dire basta. Una magia che sorprendentemente si è interrotta proprio con la vittoria al Giro d’Italia, quando gli sguardi attorno hanno cambiato luce. Almeno questo è ciò che l’olandese ha percepito e che inesorabilmente lo ha trascinato a fondo. Finché in un giorno dell’estate che lo avrebbe condotto all’ultima gara della carriera – la crono ai mondiali di Wollongong – Tom ha detto basta.

«Sono vivo, più vivo di qualche anno fa. Ero decisamente pronto a smettere, mi divertivo sempre meno a salire in bici e a pormi obiettivi altissimi. Il mio corpo si stava lentamente deteriorando, mi diceva basta. Ho deciso di ritirarmi ad agosto e da quel giorno mi sento molto felice».

Quello che la gente non vede

Il ciclismo è uno degli sport più estremi, richiede una dedizione totale. Come professionista, tutto ruota attorno al ciclismo. Ogni decisione che prendi, ogni ingrediente che mangi, ogni volta che vuoi vedere gli amici. Sono gli stessi concetti espressi da Pogacar: quanto puoi durare vivendo sempre al 100 per cento?

«Il ciclismo – ha spiegato Dumoulin a L’Equipe – richiede un lavoro che il pubblico non vede. Passi il 90 per cento del tuo tempo a fare sacrifici che negli ultimi anni sono diventati troppo importanti, soprattutto perché i momenti speciali stavano diventando sempre più rari. Fino al 2017 e alla vittoria al Giro, mi sono sentito totalmente sulla mia strada. Poi i tifosi, la squadra, le persone con cui ho lavorato hanno cominciato ad aspettarsi qualcosa da me. Mi percepivano in modo diverso. A poco a poco, non era più solo il mio progetto, ma quello di molte persone. E questo non mi è piaciuto, ho cominciato a perdere il controllo della mia carriera e gradualmente ho smesso di divertirmi».

L’amore degli italiani

Eppure proprio vincendo quel Giro del 2017 e poi la crono al mondiale di Bergen, l’olandese così elegante aveva conquistato anche il pubblico italiano. Era chiaro che l’anno dopo sarebbe stato lui il corridore più atteso. Vennero quattro secondi posti: al Giro dietro Froome, al Tour dietro Thomas, al mondiale crono (dietro Dennis) e della cronosquadre (dietro la Quick Step). Poi qualcosa si spense. Difficile dimenticare le brutte ore della caduta di Frascati nel 2019 che lo portarono al ritiro, alla rottura con il Team DSM e al conseguente passaggio alla Jumbo Visma.

«Ho vinto il Giro una volta – ha ricordato – e in Italia sono più popolare di altri vincitori, che non hanno ricevuto tanto amore. Questo è stato bellissimo, ma ho avuto sempre più difficoltà a superarlo. Mi ripetevo: questa è la mia strada, questo è il mio sogno. Volevo mostrare allo sponsor e alla squadra che stavo lavorando sodo. Prima del 2017, se un giorno non stavo bene, capitava che saltassi un allenamento. Dopo la vittoria del Giro, anche se sfinito pensavo che si aspettavano tanto da me e dopo poche settimane ci sarebbe stato il Tour de France. Pensavo troppo, perdevo freschezza e non riuscivo più a dare il massimo».

Un uomo normale

Per questo si fermò la prima volta. Un mese e mezzo senza toccare la bici, sapendo che sarebbero arrivate le Olimpiadi già compromesse nel 2016 per la frattura del polso nel finale del Tour. Arrivò a 47 secondi da Cancellara e secondo sarebbe arrivato a Tokyo dietro Roglic, dopo una preparazione svolta quasi di nascosto.

«Eppure allenandomi da solo – ha detto – sentii che mi piaceva ancora andare in bicicletta. Avrei continuato, eppure appena finirono le Olimpiadi, fu di nuovo difficile tenere lontani tutti i pensieri. Così ho deciso di essere onesto con me stesso: la mia vita non poteva più essere quella di un grande atleta. Così, complice il mal di schiena per cui ho dovuto lasciare il Giro d’Italia, ho deciso di mollare. Dovevo chiudere ai mondiali, l’ho fatto prima. In Australia ci sono andato come tifoso. Sono stato nell’hotel della nazionale. Ho incontrato i miei amici, gli allenatori, i meccanici, i massaggiatori con cui ho lavorato per tanti anni. Mi è piaciuto essere in cima a quello strappo per incoraggiare i miei compagni di squadra, ma in nessun momento ho sentito che avrei voluto essere lì come corridore.

«Non mi sono mai sentito un eroe, semplicemente sapevo andare forte in bicicletta. E’ l’unica cosa che so fare meglio degli altri. Pochissime persone possono vivere quei momenti in cui sei tra i migliori a un passo dalla cima, è qualcosa speciale. Ma non mi sento speciale come persona. Se però posso dare speranza e ispirare qualcun altro, allora questo sarà molto positivo».

Dan Martin, Pogacar e il ciclismo delle persone normali

08.11.2022
6 min
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Dopo un anno dal ritiro, Daniel Martin ha mandato alle stampe un libro dal titolo emblematico: “All’inseguimento del panda”. Il riferimento è alla Liegi del 2013, quando l’irlandese fu inseguito da un tifoso mascherato da Panda mentre era in fuga con “Purito” Rodriguez (foto di apertura).

«Vedere la parola panda nel titolo di un libro di ciclismo – ha raccontato a The Guardian al momento del lancio – se non conosci la storia, ti intriga e ti interroga. Questo trascrive lo spirito del libro, che vuole essere più leggero della maggior parte delle autobiografie che siamo abituati a vedere. Avrei voluto disegnare io un panda per la copertina, ma l’editore ha rifiutato. Temeva che sarebbe stato scambiato per un libro per bambini. Non so chi ci fosse sotto quel costume. Mi ha sempre sorpreso che nessuno mi abbia mai contattato».

Martin è nato nel 1986 ed è passato pro’ nel 2008. Ha corso con Garmin, Cannondale, Quick Step, UAE e Israel
Martin è nato nel 1986 ed è passato pro’ nel 2008. Ha corso con Garmin, Cannondale, Quick Step, UAE e Israel

Bisogno del cielo

Martin non è mai stato bellissimo in bici, ma era un grande attaccante. Ha vinto la Liegi, il Lombardia, tappe al Giro, al Tour e alla Vuelta. Suo zio è Stephen Roche, padre di suo cugino Nicholas. La sua carriera è stata anche una ripicca contro David Brailsford che non lo volle nell’allora Team Sky, quando Dan gli disse che non aveva alcuna intenzione di lasciare la strada per la pista, come ad esempio avevano accettato di fare il suo coetaneo Geraint Thomas e Wiggins prima di lui.

«Avevo bisogno del cielo – racconta – volevo sentire la pioggia e il sole sulla pelle. Volevo vedere le sagome degli alberi. Ho sempre corso per divertimento. Se ho bisogno di vivere come un monaco per essere un buon ciclista, non voglio farlo. Forse se fossi andato a Tenerife e avessi vissuto sul Teide per tre settimane prima del Tour, ogni anno sarei stato un po’ meglio. Oppure non sarei ancora innamorato del ciclismo».

Vuelta 2018, Martin con il cugino Roche. Dan ha corso alla UAE per due stagioni
Vuelta 2018, Martin con il cugino Roche. Dan ha corso alla UAE per due stagioni

Una cosa normale

Il primo colpo di martello sul cuneo che alla fine del viaggio aprirà una breccia sul ciclismo estenuante di questi tempi, ma senza puntare il dito. Si è liberi di stare al gioco o si può accettare di viverlo diversamente.

«Mio padre Neil – spiega – era un ciclista professionista. Mio zio Stephen l’ho visto più volte tagliare il tacchino che vincere corse. Quindi sono stato educato sul fatto che essere corridori non è sovrumano, è semplicemente normale. Anche se nel 2005 ero giovanissimo e lottavo per rimanere attaccato al gruppo, sapevo comunque che prima o poi sarei finito al Tour. Sin da quando ho iniziato a correre a 14 anni, mi fu detto che avevo qualcosa di speciale. Non fu facile vincere una tappa nel 2013, Sky sembrava inespugnabile. Ugualmente capii perché non ho mai voluto farne parte. Perché io amavo soprattutto lo stile offensivo delle corse».

Nel 2018, Froome vince il Giro e Thomas il Tour: il dominio del Team Sky appare inscalfibile
Nel 2018, Froome vince il Giro e Thomas il Tour: il dominio del Team Sky appare inscalfibile

Tattiche e vita

Un fatto di stile di corsa, ma anche di modello di vita. Tuttavia, ogni volta che ha parlato dei colleghi dello squadrone britannico, lo ha fatto con grande rispetto, pur rimarcando la distanza.

«Non sarei potuto diventare come loro – spiega – ugualmente penso che Thomas sia uno degli uomini più duri che abbia mai incontrato. Il sacrificio a cui si è sottoposto per sei mesi prima di vincere il Tour è incredibile. Io ero dotato fisicamente, ma avevo la capacità mentale di affrontare quel sacrificio? Non lo so. Geraint e anche Froome sono andati ben oltre le loro capacità fisiche, grazie alla capacità di essere incredibilmente concentrati».

Nel 2014, Martin ha vinto il Lombardia sul traguardo di Bergamo
Nel 2014, Martin ha vinto il Lombardia sul traguardo di Bergamo

Margini ristretti

Si può fare senza, ma dal momento che certe abitudini hanno invaso il gruppo e si sono estese a tutte le fasce di corridori, a un certo punto Martin si è sentito fuori posto.

«Ecco perché l’anno scorso ho smesso di correre – racconta – perché lo sport stava diventando troppo controllato. Avevo perso il vantaggio dell’imprevedibilità, perché ora a ogni ciclista viene detto esattamente cosa stanno facendo gli altri e le metodologie delle squadre si adeguano. Voglio essere in grado di decidere perché, quando e quale allenamento faccio e quali tattiche utilizzare. Il ciclismo che amo è anche libertà di espressione. Ora invece le corse sono piuttosto noiose da guardare, perché nessuno commette più errori. Tutti sono perfetti nell’alimentazione, l’allenamento è perfetto e manca però l’elemento umano. Le corse sono diventate prevedibili».

La crisi del Granon è stata a vantaggio di Vingegaard, ma è stata conseguenza della sfrontatezza di Pogacar
La crisi del Granon è stata a vantaggio di Vingegaard, ma è stata conseguenza della sfrontatezza di Pogacar

La crisi del Granon

Al punto che la crisi di Pogacar sul Granon è stata il vero momento forte del Tour 2022. Merito a Vingegaard, ma soprattutto a Tadej che in qualche modo… se l’è cercata.

«La gente dice che quella tappa è stata la migliore corsa di sempre – spiega – ma è ugualmente merito di Pogacar. E’ la mina vagante che attacca ogni volta che ne ha voglia, mentre il resto della corsa è programmato e controllato. Pogacar torna all’idea del ciclismo romantico, ma allo stesso tempo ha il peso della squadra. E la UAE Emirates si sta già preparando per il futuro, anche se Pogacar ha solo 24 anni. Quindi la questione di quanto potrà durare è già sul tavolo. Normalmente si sarebbe detto che ha davanti altri 10 anni, ma ci sono in arrivo giovani fortisssimi, pronti per sostituirlo alla prima difficoltà. Ho sentito storie di sedicenni che facevano 30 ore di allenamento a settimana. Stanno già lavorando come dei professionisti incalliti».

Martin si è ritirato a fine 2021, ma quello stesso anno ha vinto la tappa di Sega di Ala al Giro
Martin si è ritirato a fine 2021, ma quello stesso anno ha vinto la tappa di Sega di Ala al Giro

Come Aru e Dumoulin

Quanto si può durare andando avanti così? Non esiste una regola assoluta. Probabilmente i caratteri meno fragili rischiano di cedere, altri tengono duro e sapremo solo col tempo se le carriere saranno più brevi.

«Dumoulin – dice – ha continuato a correre negli ultimi due anni, ma non era lo stesso. Si è sostanzialmente ritirato due anni fa a 29 anni. Anche Fabio Aru, un talento incredibile, si è ritirato a 30 anni. Questi ragazzi hanno sostenuto questo enorme impegno e sacrificio. Erano giovani corridori fenomenali, ma sono stati schiacciati. Va bene per chi in cambio di questa vita viene pagato con somme pazzesche, come Pogacar. Ma i gregari guadagnano potenzialmente meno di quanto avrebbero preso 10 anni fa, in cambio di sacrifici raddoppiati.

«Guardo le mie foto da neoprofessionista nel 2008. Avevo 22 anni, ne dimostravo 15. Nel ciclismo moderno mi sarebbe stato permesso il tempo per svilupparmi? Sono stato fortunato che una volta fosse possibile andare in bicicletta alle proprie condizioni e con il sorriso sulle labbra».

La sconfitta che segna una carriera. Come se ne esce?

12.09.2022
5 min
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Con la tappa di Coppa del Mondo di mountain bike in Val di Sole, ha chiuso la sua carriera Gerhard Kerschbaumer, l’attuale campione italiano ed ex vicecampione mondiale di cross country. A soli 31 anni ha deciso di chiudere la sua carriera, segnata da un episodio: Mondiali 2019, l’azzurro è secondo alle spalle del dominatore Nino Schurter, quando sul rettilineo d’arrivo fora ed è costretto ad arrancare fino all’arrivo, scendendo al 5° posto e vive quell’episodio come una sconfitta personale.

L’altoatesino non raggiungerà più quei vertici di rendimento, come se quell’episodio lo avesse condizionato da lì in poi. Anche il ciclismo è ricco di simili eventi: Matteo Trentin viaggia ancora con il fantasma dell’esito del mondiale 2019, perso di fronte a Mads Pedersen, da allora non è più riuscito a svettare in una classica com’era solito fare prima. Lo stesso Roglic rischia di fare lo stesso. Anche se dopo l’esito infausto della crono del Tour 2020 costatagli la maglia gialla (foto di apertura) ha vinto due Vuelta, alla Grande Boucle sembra perseguitato dalla sfortuna. Come se quel terribile sabato stia ancora portando conseguenze.

Kerschbaumer ai Mondiali 2019 con la ruota posteriore sgonfia. Argento perso e non solo quello (foto Pianetamountainbike.it)
Kerschbaumer ai Mondiali 2019 con la ruota posteriore sgonfia. Argento perso e non solo quello (foto Pianetamountainbike.it)

Quanto pesa l’ambiente circostante

Sembra strano a dirsi, eppure un episodio può davvero segnare una carriera. D’altro canto è così anche in positivo, con una vittoria che spesso “sblocca” l’atleta facendolo diventare campione. Per capire perché ciò avviene, Marino Rosti, mental coach dell’Astana, ha idee ben precise: «Lo sport vive di prestazioni, alcune più importanti e significative nell’evoluzione di una carriera. L’influsso del loro esito può avere un peso diverso a seconda della personalità dello sportivo, del suo carattere, magari di eventi precedenti, ma anche dell’ambiente culturale nel quale l’individuo agisce. Tutto ciò influisce su come l’episodio negativo viene assimilato: superarlo non è semplice ma è sicuramente possibile, c’è però anche chi non ci riesce. Basti pensare a Tom Dumoulin, che dopo due stagioni al top fra 2017 e 2018 ha subìto anche psicologicamente le conseguenze dell’infortunio al ginocchio dell’anno dopo».

Rosti mette l’accento in particolare su tutto ciò che circonda l’atleta, dal suo entourage alla società civile nella quale vive: «L’influsso di chi ti sta intorno può avere un effetto decisivo. Se chi ti è intorno focalizza quel ricordo, lo sottolinea, lo ripropone, le difficoltà per superarlo aumentano. La situazione diventa via via più pesante. Può essere l’inizio della discesa verso l’oblio sportivo. Diverso il discorso se invece chi ti sta intorno cerca di rendere l’evento più leggero».

Rosti ha lavorato prima con la Liquigas, poi con Cannondale, Astana, Bahrain e ora è di nuovo… kazako
Rosti ha lavorato prima con la Liquigas, poi con Cannondale, Astana, Bahrain e ora è di nuovo… kazako

La sconfitta va accettata

Come si può riuscire in questo? «E’ importante esaminare il fatto a mente fredda. Io dico sempre che una sconfitta va prima accettata e poi si reagisce ad essa. Per accettarla bisogna farla propria, capire che fa parte del gioco. Lo stesso vale per ogni singolo evento che ha portato ad essa, sia la foratura oppure la caduta oppure qualsiasi altro episodio. Capire perché è successo, che cosa si poteva fare per evitarlo, se ci sono stati altri fattori che hanno portato a quell’episodio stesso. Poi da lì si riparte».

Ciò fa anche capire come il dotarsi di un esperto nel campo, da parte dei team e delle federazioni sia un’esigenza ormai insopprimibile. «Bisogna trarre da quella singola vicenda qualcosa di positivo. Una vicenda sfortunata può anche essere l’occasione per imparare. Bisogna però avere la forza di andare oltre l’esito per cercare di trarne un insegnamento in vista della prossima occasione. Si deve partire da un presupposto: o vinco o imparo, ma non perdo. Per far questo però serve avere una personalità forte, per questo spesso si dice che si è campioni anche con la testa».

Dopo il 2019 Dumoulin ha vinto ancora molto, ma i problemi al ginocchio hanno pesato sul suo ritiro
Dopo il 2019 Dumoulin ha vinto ancora molto, ma i problemi al ginocchio hanno pesato sul suo ritiro

La “centralina” è la cosa più importante

Sull’aspetto mentale si pone ancora troppo poco l’accento, quando invece è chiaro come ai massimi livelli sia un aspetto che può fare la differenza. Basti vedere esempi come la stessa nazionale di volley laureatasi campione del mondo dopo essere partita fra le outsider, ma gasatasi con l’andare avanti del torneo. «Io faccio questo lavoro da una ventina d’anni – sottolinea Rosti – e mi sono accorto col passare del tempo come una prestazione sportiva sia fisica, tecnica e mentale, ma quest’ultima solo da poco viene presa in considerazione come le altre due. La presenza del mental coach non è la soluzione di ogni problema, ma in tutti gli sport è fondamentale, perché solo attraverso la tranquillità e l’equilibrio arriveranno i risultati, anche per una singola, semplice seduta di allenamento: se la mente è occupata da altri pensieri, l’allenamento non darà i risultati che ci aspettiamo. Ricordo sempre una frase che diceva Franco Ballerini, mutuata dalla sua passione per le auto: è la centralina la cosa più importante…».

La volata a due vinta da Pedersen su Trentin: allora l’azzurro sembrava favorito, quella sconfitta ha lasciato strascichi
La volata a due vinta da Pedersen su Trentin: allora l’azzurro sembrava favorito, quella sconfitta ha lasciato strascichi

Ciclismo sport di squadra

Il discorso legato alla squadra non è peregrino. Nel caso del ciclismo l’aspetto individuale e quello del team vivono una simbiosi che in nessun altro sport è presente in egual misura: «E’ vero, ogni corridore ha un ruolo. Anche il Trentin battuto allo sprint da Pedersen stava svolgendo in quel caso il compito che gli era stato assegnato. Far parte di una squadra significa che il ragionamento su una sconfitta è più complesso. Si basa su tanti fattori non tutti dipendenti dalla persona stessa. Questo non significa trovare scuse alla sconfitta, ma ragionare sul perché il risultato non è arrivato per far sì che arrivi la volta successiva».

La sconfitta deve quindi essere un punto di partenza, non quello snodo che costa a tanti la carriera: «La soluzione non la può avere il mental coach né nessun altro al di fuori della persona stessa, ma si può aiutare a trovarla attraverso il dialogo, l’analisi, il confronto».

Visconti: «Serbatoio vuoto, con due parole Tom ha detto tutto»

19.08.2022
7 min
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Quando scriviamo a Giovanni Visconti per chiedergli di commentare l’addio di Tom Dumoulin il siciliano ci risponde così: «Leggendo il suo comunicato ho capito ogni singola lettera di ciò che voleva dire». “Visco” ci è passato pochi mesi fa e pochi, se non nessuno, meglio di lui possono capire cosa è passato nella testa e nell’animo del campione olandese.

Un addio, in segreto e provvisorio, a luglio poi la ripresa e lo stop definitivo a marzo: anche per l’ex Bardiani Csf Faizanè è stato un bel calvario.

Palmares da re per Tom: un Giro, un mondiale a crono (in foto), un podio al Tour e oltre 20 vittorie
Palmares da re per Tom: un Giro, un mondiale a crono (in foto), un podio al Tour e oltre 20 vittorie

Le parole di Tom

Prima di andare avanti però, ci sembra doveroso riportare le parole della maglia rosa 2017 (in apertura la stessa foto con cui Dumoulin ha annunciato il suo addio sui social) con le quali il corridore di Maastricht ha ufficializzato il ritiro.

“Ho deciso di lasciare il ciclismo professionistico con effetto immediato. Circa due mesi fa ho annunciato che mi sarei ritirato dal ciclismo professionistico alla fine dell’anno. La scorsa primavera, malgrado il mio amore per la bici, ho notato che le cose non stavano andando come volevo. Ho sentito che ero pronto ad una nuova fase della mia vita. Ma avevo ancora un progetto nella mia lista dei desideri, che era quello di chiudere la mia carriera con un botto, ai Mondiali in Australia. Volevo affrontare la strada verso i Mondiali come fatto lo scorso anno con i Giochi di Tokyo. Con un senso di libertà, a modo mio, con il supporto del team e con la mia motivazione intrinseca come principale carburante. All’epoca è questo che mi aveva ridato la gioia di pedalare”.

Ma ho notato che non ce la faccio più. Il serbatoio è vuoto, sento le gambe pesanti e le sessioni di allenamento non vanno come speravo per poter pensare di fare una buona performance e avere buoni sensazioni ai Mondiali. Dalla mia dura caduta in allenamento lo scorso settembre, qualcosa si è rotto di nuovo. Ho dovuto nuovamente interrompere i miei sforzi per tornare alla mia forma precedente e affrontare una nuova delusione. È stata la volta di troppo.

Anche se il mio addio non è andato come avrei voluto, guardo alla mia carriera con grande orgoglio. Ho lavorato duramente, e ho affrontato questi anni con passione e piacere, fornendo grandi prestazioni. Sono cose che non dimenticherò mai. Ora è tempo di godermi altre cose ed essere presente per le persone che amo. Un grandissimo grazie alla mia squadra e a tutti coloro che mi hanno supportato nel corso di questa mia fantastica carriera. E un grazie speciale a mia moglie, che mi ha sostenuto per tutti questi anni”.

Dumoulin (31 anni) ha corso il Giro ma si è ritirato nel corso della 14ª tappa. Doveva chiudere la carriera a Wollongong
Dumoulin (31 anni) ha corso il Giro ma si è ritirato nel corso della 14ª tappa. Doveva chiudere la carriera a Wollongong

Giovanni a te…

Anche Giovanni avrebbe dovuto lasciare a fine stagione, ma in primavera dopo l’ennesima difficoltà ha detto basta. E per questo non c’è stato bisogno di fargli neanche una domanda. Visconti è partito. L’argomento gli sta a cuore e, come detto, lo ha capito.

«Tom, come me, aveva un contratto fino a fine anno e poteva ancora guadagnare dei soldi e nel suo caso immagino anche dei “bei soldi”. Ma quando nella mente subentrano certi pensieri vuol dire ormai vai a scavare dei pezzi di vita. Tu sai che il tuo livello non lo raggiungerai più…».

«Le persone attorno ti dicono di ripensarci, di non mollare, che è un momento, ma non è così. Anche io come lui lo scorso anno ci ero passato. Era luglio per me (Dumoulin aveva preso un periodo di pausa ad inizio stagione, ndr): avevo detto basta. Le persone vicine mi dicevano: “Dai Giovanni che poi passa” e lì per lì la voglia ti torna anche. Pensi che tutto sommato sia la cosa giusta da fare, che smettere in quel momento sia sbagliato e riparti. Forse è anche paura di affrontare una nuova vita, non ci si sente pronti.

«Ma io ero arrivato. Dicevo a mia moglie che non avrei voluto pedalare per un solo centimetro in più, che a pensare di fare solo un chilometro di gara mi sentivo male. E quando è così vuol dire che stai scavando dentro te stesso. E’ un massacro. Rosicchi qualcosa che non c’è più e quello che stai facendo non è più ciclismo».

Le parole di Visconti sono forti, ma rendono benissimo l’idea e il travaglio dell’atleta e dell’uomo. Perché poi è inevitabile che le due cose si fondano.

Nell’ultimo anno Dumoulin su strada non è mai stato davvero competitivo. Miglior piazzamento il 4° posto a Potenza al Giro
Nell’ultimo anno Dumoulin su strada non è mai stato davvero competitivo. Miglior piazzamento il 4° posto a Potenza al Giro

«Serbatoio vuoto»

Il passaggio chiave secondo Visconti è quando il corridore della Jumbo-Visma parla di “serbatoio vuoto”. Giovanni ha parlato di livello top che l’atleta sa di non poter più raggiungere. E quando si ha questa consapevolezza perché continuare? Per i soldi, okay… ma non è così facile, almeno nel ciclismo.

«Io – spiega Giovanni – non sarei più arrivato al mio massimo, lo sapevo. Come sapevo che con il ciclismo attuale il mio top non era più sufficiente, in più non avevo la testa per raggiungere il mio livello. Figuriamoci dunque come ero messo… A quel punto quando ho rinunciato mi sono sentito libero».

«Anche Tom non aveva altra scelta. In bici ormai sembrava una mummia. La prima volta magari si era convinto di aver sbagliato ed è tornato, in più aveva attorno uno squadrone a supportarlo. Ma quando lui dice: “Non c’è più niente nel mio serbatoio” vuol dire che è finita.

«Puoi anche allenarti bene, fare chilometri su chilometri, lavori, altura… ma quel serbatoio tanto non si riempie più, perché è la testa che non lo fa riempire. E’ la testa che comanda… E anche lo stipendio non basta più come giustificazione per andare avanti».

Dopo aver ripreso a pedalare in primavera, la scorsa estate Dumoulin aveva vinto l’argento nella crono olimpica
Dopo aver ripreso a pedalare in primavera, la scorsa estate Dumoulin aveva vinto l’argento nella crono olimpica

Pedalare con la paura

«Ad un certo punto poi – va avanti Visconti – ti vengono dei dubbi. Inizi ad avere paura del gruppo, delle cadute, pensi alla famiglia. In cuor tuo hai già deciso di smettere. Anche fare una gara in più ti fa riflettere. E poi magari proprio in quella “corsa in più” succede qualcosa che non doveva succedere: non ha senso.

«E poi, ragazzi, adesso rispetto a quello di qualche anno fa, il ciclismo è un altro sport. Almeno a certi livelli. Continuare in questo contesto è ancora più difficile».

A questo punto però incalziamo Visconti facendogli notare che già lo scorso anno Dumoulin era tornato e aveva anche conquistato l’argento nella cronometro olimpica. Ma Visco ribatte senza indugio.

«Non mi stupisce – dice il siciliano – che lo abbia conquistato, perché comunque parliamo di un corridore fortissimo, con una classe immensa, ma lo ha conquistato in una crono. Una gara in cui è solo, solo con se stesso e senza il gruppo intorno. Ma su strada non c’è più stato un solo giorno in cui si è potuto dire: è tornato Dumoulin».

A testa alta

Alla fine dunque, e anche Visconti è d’accordo, il “primo stop” in questi casi è una tappa necessaria per arrivare all’addio definitivo. E’ quella che poi ti fa smettere senza rimpianti, ripensamenti o dubbi.

«La ripresa dopo il primo addio – spiega Visconti – è il dubbio che ti devi togliere. E quello che poi elimina ogni ripensamento, ogni incertezza successiva, anche se mancano “solo” due mesi al termine della stagione. Andare avanti in certe condizioni non ha senso. Io non ho mai avuto un ripensamento, nonostante le difficoltà della vita da persona normale.

«Tom è stato realista, lucido (e non è facile, ndr). Ha detto a se stesso: “Io non sono in grado di continuare”. E per me è stato un campione anche in questo. Non è facile ammetterlo, ma lui è uscito di scena nel modo giusto, soprattutto nei confronti di sé stesso. E per questo lo ammiro. Può andare in giro ancora di più a testa alta».

EDITORIALE / Non è più il tempo delle tendiniti

16.08.2022
5 min
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Non è più il tempo delle tendiniti e Dumoulin lo sa bene. Oggi va via la testa, punto e basta. Le tendiniti minarono la carriera di Fignon. Il parigino, di cui abbiamo parlato di recente ricordando la vittoria di Nibali ad Asolo, vinse il primo Tour a 23 anni e il secondo a 24, battendo pezzi grossi come Hinault e Lemond. Ci si stupisce per le vittorie precoci di Pogacar, senza rendersi conto che è già successo. Solo che allora le minori conoscenze fisiologiche e preparazioni spesso empiriche esponevano i ragazzi a carichi di lavoro che il fisico non era pronto a sostenere.

Fignon penò parecchio per rimettersi in sesto e non ci riuscì mai del tutto. Ugualmente si portò a casa il Giro d’Italia del 1989 e secondi posti beffardi, come quello del 1984 in Italia alle spalle di Moser e quello del 1989 a Parigi dietro Lemond.

Tour del 1984, Fignon in giallo a 24 anni, Lemond iridato con un anno di meno. Dall’anno dopo vennero fuori le tendiniti del francese
Tour del 1984, Fignon in giallo a 24 anni, Lemond iridato ne aveva 23

Oggi non è più tempo di tendiniti. I corridori vanno in palestra. Hanno imparato a non abusare dei rapporti avendo capito che l’elevata frequenza di pedalata permette di esprimere meglio la potenza. Integrano meglio dopo gli sforzi e offrono un miglior supporto al proprio corpo. Oggi il punto debole è nella testa e per quella c’è poco da fare. Se il filo si spezza, non c’è modo di riannodarlo.

La ricerca della perfezione

Ne ha parlato giorni fa Enrico Battaglin, descrivendo la sua fatica nel tenere i ritmi del ciclismo attuale.

«Il problema – diceva – è che tutti hanno alzato il loro livello. Serve curare il dettaglio per colmare il gap. In più cresce il livello di stress, perché sei sempre alla ricerca del limite. Per questo non credo a carriere lunghe. Anche per i leader. Quando sono passato, i veri capitani puntavano ai loro obiettivi e nel resto delle corse lavoravano o lasciavano spazio. Adesso anche loro sono sempre al 110 per cento».

Bettiol ha investito fortissimo sul Tour, mettendo da parte tutto il resto
Bettiol ha investito fortissimo sul Tour, mettendo da parte tutto il resto

Ne aveva parlato in precedenza Moreno Moser, raccontando di una conversazione avuta con Bettiol nelle settimane che portavano al Tour.

«Quello che mi diceva Alberto è che ormai il ciclismo è così totalizzante, che devi prendere questo lavoro per step. Da qui al Tour non esisto più, sono un robot. La vita è solo quella della bici e dell’allenamento. Il recupero si farà dopo…».

L’esempio di Dumoulin

Nella trappola è caduto nuovamente Dumoulin, che pure la prima volta provò a riannodare i capi. AI primi del 2021 annunciò infatti con un lungo post su Instagram che si sarebbe fermato

«Ho deciso di congedarmi per un periodo di tempo indeterminato dal nostro bellissimo sport. Da troppo tempo sento una grande pressione. Ho dimenticato me stesso, volendo fare il meglio per la squadra, gli sponsor e tutti gli altri. Ho dimenticato cosa voglio davvero in questo sport e per il mio futuro. Poiché non ho questa risposta chiara per me stesso, in realtà non sto nemmeno facendo del mio meglio per le persone intorno a me. Ho davvero bisogno del tempo per avere le cose chiare nella mia testa su cosa voglio e come lo voglio».

Il talento di Dumoulin si rivelò al massimo quando vinse il Giro d’Italia del 2017
Il talento di Dumoulin si rivelò al massimo quando vinse il Giro d’Italia del 2017

Il ritorno

Non si trattava di scarso amore per lo sport, dato che dopo aver postato quel suo scritto, andò a farsi un giro in bici e fece in modo di farsi vedere lungo la strada delle corse che passavano vicino casa sua a Maastricht.

Il richiamo del gruppo fu più forte, al pari della sua voglia di non arrendersi. Lo vedemmo a Livigno. Lo applaudimmo sul podio della crono olimpica di Tokyo. Ci illudemmo che il nodo tenesse. Fu quando lo vedemmo stordito sul Block Haus al Giro che capimmo che non era vero niente. E puntuale come un presagio, è arrivato ieri l’annuncio del ritiro definitivo. Si trattava comunque di un ritorno a orologeria: Tom avrebbe mollato dopo la crono dei mondiali, ma non ce l’ha fatta.

Il ritorno di Dumoulin nella crono di Tokyo, conclusa con l’argento alle spalle di Roglic
Il ritorno di Dumoulin nella crono di Tokyo, conclusa con l’argento alle spalle di Roglic

Di nuovo al tappeto

«Quando ho deciso di tornare – ha scritto su Instagram – l’ho fatto con un senso di libertà, alle mie condizioni, con il supporto della squadra e con la mia motivazione intrinseca come carburante principale. Questo è ciò che mi ha riportato la gioia del ciclismo dei primi tempi. Ma noto che non ce la faccio più. Il serbatoio è vuoto, le gambe sono pesanti e gli allenamenti non stanno andando come speravo. Dal mio duro incidente in allenamento lo scorso settembre (Dumoulin fu investito da un’auto e ha dovuto sottoporsi ad un intervento chirurgico per mettere a posto il polso destro, ndr), qualcosa si è rotto di nuovo. Ho dovuto interrompere i miei sforzi ancora una volta e affrontare un’altra delusione».

Era troppo e ogni tentativo di tornare davanti ha aggravato il senso di fatica e di frustrazione. Le tendiniti le aggiusti, la mente no.

Staccato sul Block Haus, primo vero arrivo in salita del Giro 2022: sembrava volesse essere altrove
Staccato sul Block Haus, primo vero arrivo in salita del Giro 2022: sembrava volesse essere altrove

Rischio burnout

Ci sono due modi per elaborare l’esperienza dell’olandese. Attaccargli l’etichetta di debole e lasciarlo andare. Oppure riflettere sul campione che si è perso nel nome della ricerca spasmodica della perfezione. L’uomo non è una macchina, esiste un limite (soggettivo) oltre il quale è rischioso andare. Il burnout è una sindrome sempre più diffusa nel mondo del lavoro, da quando ad esempio la connettività permanente impedisce di sottrarsi alla pressione e alla necessità di essere presenti.

Nelle squadre è spuntata da qualche tempo la figura dello psicologo e in alcuni casi dello psichiatra. Il corridore prova sempre a rialzarsi e ripartire, ma non c’è fase nella sua vita che non sia tiranneggiata dall’esigenza di perfezione. Siamo certi che leggeremo presto sui social che altri alle prese con lavori ben meno gratificanti stanno decisamente peggio. Non abbiamo indicazioni da dare, si tratta pur sempre di aziende gestite da altri. Ci chiediamo semplicemente se vada bene così.

Dumoulin e i lenti passi dell’addio

15.06.2022
5 min
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Sarebbe bastato guardarlo bene in faccia in cima al Blockhaus per capire come sarebbe finita. Dumoulin era piantato in mezzo alla strada nel giorno in cui tutti aspettavano da lui il primo squillo e sembrava estraneo alla scena. Fissava un punto all’orizzonte, ma la sua mente era altrove.

I 9 minuti dell’Etna, che inizialmente erano stati attribuiti al caldo e al primo arrivo in salita, avevano appena trovato un’altra spiegazione. Era passato un anno dal suo ritorno in bici. Il terzo posto nella crono di Budapest aveva fatto sperare di averlo ritrovato, il Giro sarebbe stato la sua rinascita. Invece di colpo Tom è crollato nuovamente. Il suo talento di sottile cristallo ha iniziato nuovamente a sbriciolarsi. Il ciclismo è così esigente, che anche la crepa più piccola diventa fatale.

Il Giro di Dumoulin era iniziato bene, con il 3° posto nella crono di Budapest, a 5 secondi da Yates
Il Giro di Dumoulin era iniziato bene, con il 3° posto nella crono di Budapest, a 5 secondi da Yates

La bici non è la cura

In Olanda non si rassegnano o forse sarebbe meglio dire che non rinunciano. Un po’ come quando qua si cercava in tutti i modi di rimettere in bici Pantani, pur essendo evidente che la bici non fosse più la cura. Parlano di virus. Di problemi alla schiena. Dei postumi del Covid. Tutte cause certamente possibili, che diventano insormontabili in un uomo che ha perso da tempo la voglia o la capacità di andare oltre la soglia della sofferenza. E’ chiaro che se le gambe non girano a dovere, la testa va giù. Ma in questa sorta di circolo vizioso, chi può dire quale disagio venga prima dell’altro?

Bruciato nel 2020

«Nel 2020 ho avuto un periodo molto difficile – ha raccontato dopo il ritiro, avvenuto nella tappa di Torino – e alla fine di quell’anno mi sono allenato tanto e bruciato. All’inizio del 2021 ero ormai un’ombra e ho deciso di prendermi una pausa dal ciclismo per pensare al mio futuro. E quando ho ripreso, nonostante alcuni giorni buoni, molte volte, soprattutto quest’anno, ho vissuto periodi frustranti. Il mio corpo si sentiva stanco e si sente ancora stanco. Non appena il carico in allenamento o in gara aumenta, soffro di stanchezza, dolori e infortuni invece di migliorare. Lo sforzo in allenamento non porta più alle prestazioni desiderate. Da un po’ di tempo c’è uno squilibrio tra la mia dedizione al 100 per cento al ciclismo e ciò che ne ottengo in cambio.

«Con molta pazienza e un approccio molto cauto – ha aggiunto – sono convinto di poter tornare al massimo delle mie potenzialità. Ma sarebbe una strada troppo lunga, senza garanzie di successo. Per questo ho scelto di non seguirla e di abbandonare invece il ciclismo attivo e di intraprendere un percorso nuovo e sconosciuto».

Dumoulin quarto a Potenza, dopo aver lavorato per la vittoria del compagno Bouwman
Dumoulin quarto a Potenza, dopo aver lavorato per la vittoria del compagno Bouwman

Segni di fragilità

I corridori sono nudi davanti a un mondo che alza le attese e poi li giudica. Il riscontro del cronometro non è neanche il dato più duro, le prestazioni possono arrivare oppure no. Quel che pesa sono il giudizio e il senso di responsabilità che un atleta trasparente come Dumoulin probabilmente non riesce più a maneggiare. Mi pagano perché io vinca. Non ci riesco. Crollo. Si era nascosto nel 2020 mettendosi al servizio di Roglic, poi il problema è esploso in tutta la sua evidenza.

Tornerà? Vorrà azzerare di nuovo la situazione e poi cercare di ripartire? I media olandesi se lo augurano, le sue parole non lasciano in realtà troppi margini di speranza. Quando non raggiungi il livello più alto per troppo tempo, la durezza della gara si riesce a superare solo correndo e poi correndo ancora. E la sensazione è che Tom non ne abbia più voglia.

«Non so ancora cosa voglio fare dopo la mia carriera di ciclista attivo – ha detto – e non voglio nemmeno saperlo in questo momento. Ma so che il mio amore per la bici mi terrà sempre connesso al mondo del ciclismo in un modo o nell’altro. Sono molto curioso di sapere cosa riserverà il futuro per me. Mi sento felice e grato e già ora guardo indietro alla mia carriera con molto orgoglio».

Invece l’Etna è stato la prima vera mazzata, con un passivo (inatteso) di 9’10”
Invece l’Etna è stato la prima vera mazzata, con un passivo (inatteso) di 9’10”

Cambio di squadra

Arriverà ai mondiali, come fu la crono di Tokyo a dargli la voglia di ripartire. Si vociferava che, scaduto il contratto con il Team Jumbo Visma, sarebbe passato alla Bike Exchange, dove avrebbe ritrovato la bici Giant con cui vinse il Giro, ma il suo annuncio sembra aver tagliato anche l’ultimo filo che lo teneva legato al gruppo.

«Il team e io – ha detto – ora faremo un piano insieme per rendere più belli, divertenti e si spera di successo questi ultimi mesi. Non vedo l’ora in particolare di arrivare al mondiale in Australia, dove mi piacerebbe ottenere un’ultima medaglia nella crono».

Estate 2021, Tom è rientrato da poco e ha vinto il titolo olandese della crono: il bacio di sua moglie Thanee
Estate 2021, Tom è rientrato da poco e ha vinto il titolo olandese della crono: il bacio di sua moglie Thanee

Il controllo della sua vita

Koos Moerenhout è il tecnico olandese della crono e smise di correre nel 2010, alla vigilia dell’arrivo del giovane Dumoulin nella sua stessa Rabobank. E’ stato lui ad aspettarne il ritorno alle Olimpiadi e ancora una volta gli ha spalancato le porte.

«Tom è uno specialista – ha detto – un uomo che sa esattamente cosa serve per fare bene in un importante appuntamento a cronometro. Gli ho dato fiducia l’anno scorso e lo sto facendo di nuovo ora, senza dubbio. Soprattutto perché lui per primo dice di voler puntare al massimo possibile. E’ un peccato perdere un campione così, ma se si sente in questo modo, allora dovremmo lasciargli il controllo della propria vita».

Formolo nella morsa olandese: «Ma giuro che ci riprovo!»

13.05.2022
5 min
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«Non sono mai stato un vincente, ma mi piace vincere. Ieri Facebook m’ha mandato il ricordo di quando vinsi a La Spezia, sono passati sette anni. E se non fosse stato per un crampo ai meno sette dall’arrivo, magari riuscivo a rifarlo…». Formolo fa un sorriso amaro, mentre il pullman chiude le porte e si avvia verso il prossimo albergo di questo lunghissimo viaggio che è il Giro d’Italia. Terzo a due secondi sul traguardo di Potenza, nella volata che a suo modo era già stata preannunciata dai gran premi della montagna che Bouwman si è messo nel taschino con evidente superiorità. Quattro olandesi e due italiani in fuga attraverso le montagne aspre della Basilicata. Come un film, un romanzo o una barzelletta.

«Una bella opportunità – racconta a caldo il veronese del UAE Team Emirates – ma come facevamo a fregarli? C’era una sola possibilità per metterli in croce. Seguivo facilmente i loro attacchi e quando si è presentata l’occasione di tirare dritto, è arrivato invece il crampo. Ho aspettato 200-300 metri, perché passasse. Avevo addirittura paura di dovermi fermare, invece mi sono ripreso, ma ormai eravamo in cima all’ultima salita e ho capito che sarebbe stata dura. Si saliva a 35 all’ora col vento contro, difficile andare più forte».

Ultimo Giro di Nibali? Il pubblico lo saluta con un sorriso che sa di gratitudine
Ultimo Giro di Nibali? Il pubblico lo saluta con un sorriso che sa di gratitudine

Il risveglio di Dumoulin

Nel giorno che ha segnato il ritorno in alto di Tom Dumoulin, che ha così riguadagnato qualche posizione in classifica (ha recuperato 2’50”), ai due italiani della fuga (entrambi a caccia di sole e riscatto) la sfortuna ha regalato quanto è bastato per appiedarli. E se Villella è stato costretto a un inseguimento balordo dovuto a noie meccaniche, per Formolo sembrava finalmente arrivato il momento della riscossa dopo una prima parte di stagione che più iellata difficilmente sarebbe potuta essere. Invece niente…

Formolo ha provato a staccare tutti in salita, ma il vento contro ha reso tutto più difficile
Formolo ha provato a staccare tutti in salita, ma il vento contro ha reso tutto più difficile
Rammarico?

Un po’ forse sì, ma i due Jumbo Visma erano forti e simili nelle caratteristiche e soprattutto si aspettavano, era evidente. L’unico modo per staccarli era correre in accordo con Mollema, ma non ci siamo mai riusciti. Alla fine, quando siamo rimasti in tre, mi stava anche bene che rientrasse Dumoulin, perché si sarebbe messo a tirare e magari ci poteva scappare un allungo, ma non è stato possibile.

Cercavi la fuga stamattina?

Non è stato facile portarla via, ci sono voluti 70 chilometri. Per cui quando è partita, siamo andati avanti con le energie che erano rimaste. La cercavo. Ho provato anche sull’Etna, ma ero ancora troppo vicino in classifica perché mi lasciassero andare. Così ne ho approfittato per prendere un po’ di tempo e guadagnarmi la libertà di riprovare. Sulla carta mi piace quella di Napoli, domani. Ma vediamo come ci arrivo.

Se non altro adesso stai bene…

Vediamo. Dopo il Giro dei Paesi Baschi m’è venuta una tendinite al ginocchio e non mi sono allenato per una settimana. Quest’anno è cominciato tutto col cinghiale che a gennaio m’ha attraversato la strada, con tanto di frattura della mano. Sono rientrato alla Tirreno-Adriatico e sono riuscito a mettere insieme una discreta condizione per fare la Sanremo. Poi ho preso come tutti l’influenza e sono stato per una settimana a letto. Mi sono allenato tre giorni e sono andato ai Paesi Baschi, che per noi è la corsa più dura dell’anno, con salite strette e ripide. E lì m’è venuta la tendinite.

Il minimo, dopo una settimana a letto…

Eh, appunto! Quest’anno non so cosa significa allenarsi. A casa sto con la famiglia, perché sto male. E alle corse poi mi distruggo. Di sicuro, ricominciare dai Baschi non è stato molto salutare (ghigna amaramente, ndr). Però una cosa la dico…

Avanti!

Se la gamba è questa, una tappa la porto via. Sono arrivato a Budapest con una condizione migliore di quanto mi aspettassi. Il primo giorno dovevo aiutare Ulissi e ho fatto danni, tirando troppo forte. Nella crono ho spinto, per vedere la condizione e non sono andato male. Sull’Etna pensavo di più, ma non ho la gamba dei migliori in salita. Sono qui per aiutare Almeida, il nostro leader, ma all’occorrenza abbiamo le nostre carte. Io per ora posso giocarle così. E lo ripeto: se la gamba è questa, una tappa la porto via.