Le Samyn 2020. La gara si è appena conclusa e il vincitore, Hugo Hofstetter, piange a dirotto. Non riesce proprio a fermarsi, tanto che chi gli è intorno inizia a preoccuparsi: «Hugo, perché piangi così?». «Voi non capite… Vincere è così difficile e io non sono un vincente. Per questo sono felice, perché per vincere ho dovuto lavorare davvero tantissimo». Prima di quella corsa aveva vinto solo una volta, una tappa al Tour de l’Ain 2018, dopo non vincerà più, almeno finora.
Perché allora portarlo agli onori della ribalta? Qualche giorno fa il sito specializzato Pro Cycling Stats, che archivia tutti i numeri statistici riguardanti il mondo delle due ruote, ha twittato una domanda: «Lo sapete chi è l’unico corridore che arriva sempre nella Top 10?». Il nome era il suo ed effettivamente, andando a leggere la sua scheda, la sua costanza di risultati è impressionante: quest’anno, su 21 giorni di gara, c’è riuscito 11 volte, di cui ben 8 consecutive, tra classiche belghe e Volta a Catalunya, con 3 secondi posti e 4 terzi.
Un patrimonio per molti team
Qualche giorno fa si parlava dell’importanza di un corridore, soprattutto un velocista, per una squadra: il team ha bisogno di corridori vincenti, si diceva, perché sono quelli che danno immagine. E’ vero da un certo punto di vista, ma proviamo a guardare l’altro lato della medaglia. Molte squadre hanno oggi bisogno di punti, per poter restare nel World Tour o riuscire a entrarci. E per simili team uno come Hofstetter è una vena d’oro, che porta carrettate di punti. All’Arkea Samsic lo sanno bene, lo hanno prelevato dall’Israel Start Up per questo e ogni settimana si fanno i loro conti, sapendo che ogni euro versato sul suo stipendio è speso bene.
Hofstetter ha trovato la sua dimensione e non è poco per uno che è arrivato al ciclismo molto tardi e che è passato pro’ a 22 anni. Prima, aveva fatto di tutto, dal calcio alla scherma, dall’atletica persino alla danza. Poi però ha pensato che la scelta giusta l’aveva fatta sua sorella Margot, appassionata di ciclismo e seguendola se ne è innamorato anche lui. Ma ha capito subito che doveva cercarsi un ruolo che non era certo quello del campione.
Primo successo da pro’, alla prima tappa del Tour de l’Ain 2018 L’ultima vittoria di Hofstetter, a Le Samyn 2020
Garçon, champagne per tutti…
Beh, qualche vittoria l’aveva ottenuta anche lui, in fin dei conti nel 2013 è stato proprio Hofstetter a iscrivere il suo nume nell’albo d’oro del campionato francese fra i dilettanti. Quel giorno ci credeva, aveva persino scommesso alla vigilia con i suoi compagni: «Se vinco verso champagne da bere a tutti». Alla sera, carta di credito alla mano, al bistrot ha offerto da bere a tutti, versando dalla bottiglia di sua mano…
Dicevamo però che campione, di quelli che vincono e si guadagnano le prime pagine dei giornali, non è un ruolo che gli confaceva. A Hugo però sono venuti utili gli insegnamenti che ha appreso appena entrato nel mondo delle due ruote: quando è passato fra gli Under 23 si è accorto innanzitutto che gli altri andavano molto più veloci di lui. Perché? Perché si allenavano molto di più e in maniera molto più concreta. Ma non basta: ha capito anche che, proprio per questa sua mancanza, non conosceva davvero i suoi limiti.
La bici, uno strumento musicale
Si è messo a lavorare di brutto, ma anche a riflettere. Quando è passato pro’, sapendo ormai quali erano i suoi limiti, ha capito che doveva lavorare sodo a ogni gara, ma non come il solito capitano. Poteva ritagliarsi un ruolo diverso, quello dell’eterno piazzato. Perché ci sono squadre che lo avrebbero cercato proprio per questa sua caratteristica, come si cerca la figurina rara nella collezione degli album o il giocatore che nel Fantacalcio ti assicura sempre la sufficienza piena.
Nel 2018 è stato per ben 24 volte tra i primi 10 e alla fine della stagione ha portato a casa sia la Coupe de France che l’Europe Tour. Molti addetti ai lavori si sono accorti di lui rimanendo sorpresi da questo suo modo di interpretare il ciclismo. Certamente non ortodosso, certamente poco attraente dal punto di vista della fantasia, ma estremamente redditizio.
Così si è cominciato a scavare, hanno iniziato a fermarlo a fine corsa, a chiedergli qualcosa e le sue risposte non sono mai banali, sono sempre frutto di ragionamenti. Non arriviamo alle filosofie di Guillaume Martin, ma le sue parole spesso fanno pensare, soprattutto il profondo giudizio che dà del ciclismo: «E’ la mia vita e la bici è il mio strumento musicale, che mi permette di esprimermi anche meglio delle parole.
La grande sfida con Trentin
«Devo tutto al ciclismo, perché mi ha dato una strada da percorrere per diventare l’uomo che sono. Mi ha insegnato i valori giusti, come il rigore e la disciplina senza i quali non vai da nessuna parte. Mi ha reso indipendente, economicamente ma non solo. Mi ha fatto diventare una persona degna, per questo onoro la bici ogni giorno, a ogni gara, perché al termine di ognuna di esse voglio sentirmi in pace con la coscienza per aver dato tutto quel che potevo».
Certo, il gusto della vittoria gli piacerebbe riassaporarlo. Ci ha provato spesso, ad esempio di nuovo all’ultima Le Samyn, ma si è trovato di fronte un Matteo Trentin che aveva forse ancora più fame di vittorie: «Eravamo i due che avevano lavorato di più perché quella fuga andasse in porto. Nella volata sono rimasto bloccato per un secondo e ho perso l’attimo giusto, ma forse era lui il più forte ed è stato giusto così». Le parole di un “non vincente”, che però nel ciclismo attuale ha tutti i diritti di esserci.