«Dai miei nonni fino a mio fratello più piccolo, in famiglia tutti pedaliamo o abbiamo corso. Ricordo la mia prima biciclettina, una Parkpre bianca. Ero felicissimo». Alessandro Iacchi ci apre le porte della casa di famiglia, da generazioni dedicata al ciclismo. Sport che ormai fa parte del loro Dna.
In questi anni di interviste e gare, spesso usciva fuori il nome degli Iacchi. Tra chi ricordava i nonni in sella, chi i più giovani e chi li ringraziava per aver vissuto presso di loro, vedi Svrcek.
Nella foto di apertura Alessandro è tra il fratello più piccolo, Niccolò, e quello maggiore, Lorenzo, ex pro’ che ha appeso la bici al chiodo nel 2022. Oggi quindi è lui il numero uno della dinastia. E’ infatti professionista con il Team Corratec. Grande impegno, grande passione e una buona costanza di rendimento che si spera possa migliorare.
Alessandro, come nasce dunque questa passione per il ciclismo da parte della famiglia Iacchi?
Nasce dai miei nonni, sia quello paterno, Piero, che da quello materno, Mauro Romani. Furono dilettanti ai tempi in cui le maglie erano ancora di lana! Una volta smesso e messo su famiglia, nonno Piero fondò il Pontassieve. Era lui che portava alle corse tanti ragazzini, tra cui mio papà Sauro, ma anche gli zii. Alla fine è stato tutto un tramandarsi, fino all’ultimo che va in bici, mio fratello Nicolò, il quale è uno juniores.
E tu come sei salito in bici? Ti ci hanno messo loro?
In realtà è venuto tutto naturalmente. Io da piccolo ho provato mille sport, tra cui il calcio e la pallavolo, ma mi piaceva pedalare. E già dai giovanissimi eccomi in bici. Tra l’altro iniziavano a sparire le squadre per i più piccoli e dopo tanti anni mio “babbo” fece con me quel che all’epoca aveva fatto mio nonno: vale a dire rifondare il Pontassieve. E fu un bel progetto. Eravamo una ventina di bambini. Ed è rimasto in piedi fino a che c’è stato mio fratello Niccolò. Poi purtroppo andare avanti era sempre più complicato, i bambini erano sempre meno e, passato tra gli esordienti Niccolò, hanno chiuso il team. Io dopo i giovanissimi ho fatto gli esordienti in una società mitica.
Quale?
La SS Aquila, a Ponte a Ema, in pratica la squadra di Gino Bartali. La sede era al museo. Bellissimo.
Spesso quando certe passioni sono tanto forti e radicate, si finisce col mettere pressione ai ragazzi. E’ stato così anche per te?
No, no… assolutamente. Anzi, quando le cose non andavano bene, non mancavano parole di conforto. Mentre non mi hanno mai puntato il dito o detto: perché non sei arrivato? Perché non hai fatto così o colà?
In una famiglia così immaginiamo il tifo, le corse alla tv, l’occhio tecnico…
Mio nonno Mauro soprattutto era un tifosissimo di Pantani. Ogni volta che c’era una corsa non troppo lontana, saltava in macchina e andava a vederlo. Mi racconta sempre di quella volta che per andarlo a vedere nel maledetto giorno di Campiglio fece un sacco di strada a piedi. C’era talmente tanta gente che aveva dovuto lasciare la macchina lontano. Giusto qualche settimana fa, spostando dei mobili, sono riemerse delle vecchie pagine della Gazzetta dello Sport proprio di quei giorni.
Vi capita mai di uscire tutti insieme?
No, difficilissimo. Però con mio fratello che ora è junior a volte sì. Anche due giorni fa abbiamo fatto un paio d’ore insieme.
E poi, Alessandro, gli Iacchi sono stati anche un “porto sicuro” per alcuni vostri colleghi. Giusto?
Giusto. Da noi sono passati diversi corridori ma due si sono fermati a lungo. Uno è stato Martin Svrcek e l’altro Veljko Stojnic. Veljko arrivò che io ero dilettante di secondo anno. Eravamo alla Franco Ballerini. Venne con l’intento di trovare casa di lì a poco e rimase a lungo. Di fatto lo accogliemmo bene e lui si fece voler bene. Sempre rispettoso, educato, disponibile. Avevamo una “casetta” libera di nostra proprietà e lì rimase. Col tempo è diventato un fratello acquisito. Ci allenavamo insieme, uscivamo insieme… Tante volte voleva cucinare da solo, ma i miei nonni gli dicevano: «No, no, tu vieni da noi. Solo non ci stai». Anche se ora è tornato in Serbia, lui stesso si sente con la mia famiglia e i miei nonni.
Che storia!
Anche io sono stato a trovarlo in Serbia dalla sua famiglia. Ora corre per un team ungherese. E rivederci è sempre un piacere.
E Svrcek?
Più o meno la stessa storia. Tra noi c’è un bel rapporto. Ai miei genitori faceva piacere aiutarlo. Forse perché immaginavano se al suo posto ci fossi stato io. Pensavano a come si poteva sentire questo ragazzino da solo in un paese straniero.
Poi c’è tuo papà, Sauro, che aiuta gli allievi del team Cesaro-Franco Ballerini…
Esatto. A papà alla fine è sempre piaciuto stare in mezzo alle corse, ai ragazzi. E’ rimasto lì anche dopo che mio fratello Niccolò è passato di categoria. Si è creato un bel gruppetto e ha deciso di portare avanti questo progetto. Non voleva lasciarli soli.
Insomma anche la Corratec è una famiglia allargata: dalla professional agli allievi, passando per gli juniores… E a proposito di famiglie allargate: tua nonna cucinava per tutti?
Eh sì. Era un porto di mare casa sua. Nonna Laura ci chiedeva e ci chiede sempre cosa dobbiamo mangiare. E’ diventata un’esperta di alimentazione per ciclisti. Sarebbe pronta per un team WorldTour!
Che poi tra chi va e chi viene, chi va a scuola, chi esce al mattino… avete orari diversi.
Esatto, la cucina è sempre aperta. Però lei è contenta. Anzi, se non andiamo, quasi si offende.
E tua mamma cosa dice?
Mia mamma, Gabriella, ormai ci è abituata. E per forza di cose alla fine anche lei spesso viene alle corse e si è appassionata.
Dove vive di preciso la famiglia Iacchi?
A Rufina, Firenze. Quest’anno ci passerà il Tour de France sotto casa. E’ un sogno