Il grido d’allarme di Paolo Tiralongo fa rumore, segnalando il malessere diffuso che vive il ciclismo giovanile italiano soprattutto a livello di reclutamento. Qui non si parla di vittorie nei Grandi Giri o di protagonisti nel WorldTour, qui è in ballo la stessa sussistenza del ciclismo, che si è spesso intersecato con la storia stessa del nostro Paese. Per questo abbiamo voluto tirare in ballo anche chi con l’ex pro’ ragusano collabora dallo scorso anno: l’ex campione del mondo under 23 Leonardo Giordani.
Il laziale è il diesse del team che in Toscana gestisce i corridori siciliani, ma non è una maniera semplice per farlo: «I corridori sono qui, nella zona di Prato, quando corrono o fanno ritiri prestagionali, altrimenti sono a casa. Questo significa che li vivo poco, solo nelle occasioni prestabilite e sinceramente è troppo poco, perché l’allenamento è affidato alla loro abnegazione e non sempre lo affrontano nella maniera giusta».
Che impressione ti sei fatto delle nuove generazioni, quanto sono cambiate rispetto ai tuoi tempi?
Non si può neanche paragonare, oggi i ragazzi con un clic pensano di conoscere tutto e diventare campioni. E’ come se i Pogacar della situazione siano diventati tali solo per grazia ricevuta… Hanno l’idea che vincere sia facile, che siano tutti fenomeni, non si rendono conto di quanto sudore c’è dietro. Manca la voglia di soffrire, di tener duro.
Eppure il fatto che in questo momento i ciclisti italiani siano in second’ordine dovrebbe farli pensare…
Sì, ma trovano sempre risposte pronte, pensano che vengono da realtà diverse e che non sono come loro. Poi, quando sono in gara, tanti (e non parlo specificamente dei miei ragazzi) si trovano spaesati, vedono che le velocità sono ben diverse soprattutto se cominci a salire di livello. E non mi riferisco a gare internazionali… Il problema, tornando alla realtà a me più vicina, è che quando non hai un contatto continuo con i ragazzi è difficile. Faccio un esempio: molti mi dicono che si allenano da soli, che seguono il programma, ma l’allenamento è fatto anche di competizione, di sfide contro l’amico di turno.
Secondo te è un problema di competitività?
Diciamo che manca la voglia di mettersi davvero alla prova. Se corri con gente che va più piano vincerai pure, ma non serve. Se corri con chi va più forte impari, cresci, migliori. Io penso sempre che la scelta di una regione come la Sicilia sia stata positiva, nel portare i ragazzi a gareggiare qui, ma anche altre regioni lo hanno fatto consociandosi, anche nel mio Lazio e bisogna dire grazie a questi sodalizi che si sforzano per pura passione, perché se vengono a mancare crolla tutta l’impalcatura ciclistica.
Si parla spesso della realtà siciliana, ma nelle altre regioni del Centro-Sud la situazione com’è?
Pressoché la stessa. Pochi ad esempio si accorgono che fra gli esordienti su strada i numeri sono bassissimi – è l’allarme di Giordani – significa che sta venendo a mancare la base anche perché i genitori non vedono di buon occhio l’attività su strada e magari preferiscono l’offroad, che poi per certi versi è anche più pericoloso. Ma almeno non pedali nel traffico… Chi corre lo fa davvero per passione, perché poi cominciano anche a entrare nella quotidianità altre priorità.
Non hanno il sogno del professionismo? Considerando anche che, rispetto ai tuoi tempi, parliamo di realtà economiche ben diverse…
Il professionismo non è il maggiore obiettivo, in questo le cose non sono cambiate rispetto ai miei tempi. Io sono cresciuto facendo risultati che erano, quelli sì, il mio target, il passaggio è diventato una logica conseguenza. Il posto che ti garantisce un futuro economico è riservato a pochi, se entri nel WT o in qualche professional, per il resto gli stipendi sono più che normali. Senza contare che se corri all’estero non hai neanche i contributi… Ripeto, è questione di passione anche perché a quell’età devi, e sottolineo devi, abbinare il ciclismo allo studio, a costruirti quel che ci sarà dopo.
Ma la passione c’è davvero?
Io dico che è quella la vera discriminante – risponde Giordani – vedi ragazzi che si tengono informati, che vogliono imparare, che ci tengono e altri che a un certo punto ti chiedi perché lo fanno: non si allenano e quando sono alle gare dopo 5 chilometri già si staccano. Ne vale la pena? Ma fanno numero e questo per certi versi penalizza perché non ci si rende realmente conto della situazione drammatica quantitativamente e, di conseguenza, dal punto di vista della qualità. Aggiungiamo a questo che ci sono sempre meno gare perché chi organizzava prima invecchia e non ci sono ricambi neanche da quel punto di vista. D’altronde allestire gare è difficile, rischioso, costoso, in Toscana spesso devi pagare anche l’Anas…