E’ il 2017. Un giovane californiano divide la sua giornata in due: al mattino pedala per ore sulle lunghe strade intorno a Walnut Creek, la sua città natale. Il pomeriggio passa ore al computer, per inviare una mail a tutte le squadre professionistiche europee che ha trovato tramite Google. “Ciao, mi chiamo Matteo Jorgenson e sono un americano di 18 anni, corro il mio ultimo anno da junior con Hot Tubes Cycling e USA Junior National Program. Sono molto interessato a correre per te per il 2018”. Il suo è un lavoro certosino: ogni mail è personalizzata, in base alle caratteristiche del team, al calendario, alle sensazioni che gli desta. Impiega almeno un’ora per inviarne una, perché la studia a fondo. Si aiuta con i traduttori online o chiede consiglio a chi conosce altre lingue. Ne manda dieci, cento e anche molte di più. Perché sa che il ciclismo vero è in Europa e vuole evadere…
La storia di Matteo Jorgenson, uno degli americani emergenti, che ha impressionato molti addetti ai lavori all’ultimo Tour, non si comprende se non si ripercorre l’excursus degli ultimi suoi anni, perché su quest’attività ha investito tutto sin da giovanissimo. In attesa di ricevere qualche risposta valida, che non fosse il solito “le faremo sapere”, Matteo aspetta. La sua grande speranza è approdare all’Hagens Berman Axeon, dalla quale sono passati molti americani, ma la risposta che gli arriva lo gela. Porta chiusa, anzi serrata. Matteo non si perde d’animo: qualcuno risponderà, intanto però c’è una soluzione da trovare e il californiano la trova accettando la proposta del team americano Jelly Belly-Maxxis a condizione di trovare spazio nel gruppo della nazionale Under 23 e poter frequentare la prima parte di stagione nel Vecchio Continente.
La risposta dalla Francia
Una cosa Jorgenson l’ha imparata presto: «Ogni gara fatta in Europa ne vale più di 10 negli Usa. Le corse sono tutte diverse, cambiano in base al Paese, alle strade, alla gente, ai percorsi. Si impara tantissimo ogni volta, è come andare a scuola. E’ uno sport completamente diverso». L’americano si rende perfettamente conto che il ciclismo oltreoceano è ben poca cosa al confronto, fatto di kermesse che se danno spettacolo alla gente tra un hot dog e una birra, tecnicamente non trasmettono nulla.
Un giorno arriva la svolta. Nella mail trova una risposta, dalla Francia, dalla Chambery CF, squadra che fa parte della rete dell’AG2R La Mondiale. Riesce a parlare con il responsabile, con molta fatica per la differenza linguistica (e questo è un aspetto sul quale torneremo) e si ridanno appuntamento. Il team transalpino vuole saperne di più, vuole i suoi valori di potenza, tutti i suoi dati di allenamento. Alla fine arriva la proposta: un contratto per il 2019 a patto che dall’inizio dell’anno si trasferisca in Francia. Una proposta che sembra un segno, perché contemporaneamente la Usa Cycling annuncia che per problemi di budget non sarà più possibile per i suoi ragazzi fare attività in Europa dalla stagione successiva. Appena in tempo…
Poliglotta per necessità…
Matteo ha capito che per emergere in Europa non basta pedalare, allenarsi soffrire in bici. Deve davvero mettere in discussione se stesso. Si trasferirà in Francia, ma prima di allora dovrà imparare la lingua: «Non posso partire e poi affrontare viaggi di ore senza poter parlare, comunicare liberamente, non posso costringere gli altri a parlare la mia lingua». Jorgenson studia intensivamente e per l’inverno successivo parla già un fluente francese al punto non solo di poter sostenere una conversazione con i compagni, ma anche di essere intervistato. E così farà anche dopo, quando si trasferirà alla Movistar in Spagna.
Ciclisticamente i francesi capiscono presto che quel ragazzo a stelle e strisce ci sa fare. Si piazza spesso, anche in Italia al Trofeo Edil, lotta per il successo finale alla Ronde de l’Izoard e al Tour de l’Avenir conquista la classifica a punti. E’ forte sul passo e in salita e proprio questo fatto non sfugge ai responsabili del team spagnolo, che interrompono la sua scalata all’interno del team transalpino e lo portano al di là dei Pirenei, perché di uno scalatore c’è sempre bisogno da quelle parti. Erano oltre trent’anni che uno statunitense non vestiva quella maglia, l’ultimo era stato Andy Hampstean, per un breve periodo quando ancora la squadra era targata Banesto.
Punta tutto sul Tour
Jorgenson continua la sua ascesa, è molto giovane ma soprattutto è americano e per un americano il ciclismo ha un solo sinonimo: Tour de France. Nel 2021, quando gli comunicano che non sarà del team per la Grande Boucle ci resta male e questo influisce anche sulle sue prestazioni al Giro d’Italia («E’ stata la mia peggiore esperienza, non ne avevo più e non era cosa per me – affermerà in seguito – ho capito che se non mi prendo un periodo di pausa a inizio primavera, non posso essere competitivo per il Tour»).
Quest’anno, presosi i suoi tempi, si guadagna i galloni di luogotenente per Enric Mas al Tour. E’ al settimo cielo e soprattutto sente la gamba piena, tonica. Sono tre settimane intensissime, nelle quali entra spesso nelle fughe. Per ben due volte Jorgenson sfiora il podio e quando arriva la delusione è tanta. A Megeve forse con quel Cort Nielsen c’era poco da fare, a Foix invece appena arrivato va verso il bus, appoggia la bici e si siede con la testa fra le mani, trattenendo a stento le lacrime per l’occasione mancata. I dirigenti arrivano e lo trovano stanco e insanguinato: un’immagine difficile da dimenticare.
Lacrime di rabbia
«Io non credo di aver sbagliato – racconta – era l’ultima possibilità e mi sono giocato tutto, ma Woods aveva Houle davanti, nessuno mi poteva aiutare. In discesa ho rischiato tutto e sono anche caduto, ma se prendi dei rischi devi accettarlo e il dolore neanche lo sentivo. Quando il canadese è partito ero con la macchina a prendere la borraccia, neanche me ne sono accorto e quando l’ho saputo mi sono gettato in caccia, ma era tardi». «Dove ti fa male, dove hai sbattuto? » gli chiedono. «Mi fa male non essere là» risponde indicando il podio.
Più tardi, ai giornalisti che gli chiedono del suo 21° posto, parte della “Usa Connection” che ha caratterizzato la classifica del Tour con 4 atleti fra i primi, Jorgenson dimostrerà di non aver ancora digerito la delusione: «Quando arrivi e sai che sei in forma, che hai indovinato tutto, non stai a guardare e a pensare al futuro, vuoi tutto. Ci riproverò il prossimo anno, ma se le ferite fisiche guariranno presto, quelle nell’animo ci metteranno molto di più».
Il sorriso gli torna solo quando qualcuno gli ricorda la sua storia, il coraggio avuto nel mettersi in gioco e provare ad allacciare un legame digitale con l’Europa: «A molti ragazzi che mi contattano dico di provarci subito, appena passano junior, a contattare quante più società possibili e preparare la valigia, anche se non hai ancora risultati. Credo di aver mostrato una strada per rilanciare il nostro ciclismo, anche se mi davano del pazzo».