La trasferta in Australia crea sempre disagi e difficoltà, anche se ai nostri tempi tutto è mitigato, basti guardare a come ci si regola in tema di alimentazione. Vent’anni fa però la situazione era ben diversa: nel 2000 si tornò agli antipodi per le Olimpiadi, a 44 anni di distanza dall’edizione di Melbourne e quella di Sydney fu una rassegna olimpica che rappresentò, dal punto di vista tecnico, uno spartiacque per molti argomenti.
Sydney fu la seconda edizione per i Giochi con la mountain bike inserita nel programma olimpico. Il ciclismo fuoristrada si stava affermando in ogni continente, ma era ancora uno sport giovane e per certi versi sconosciuto. Si sperimentava. In Australia si era già gareggiato, sia in Coppa del Mondo che ai mondiali, ma i Giochi sono ben altra cosa, è la classica manifestazione che non puoi sbagliare in alcun modo.
Un oro da difendere
Paola Pezzo arrivava alla rassegna a cinque cerchi con l’onere di difendere l’oro di Atlanta ’96, ma i mesi precedenti l’avevano sì vista protagonista, ma non era accreditata dei favori del pronostico. Rispetto alle gare del calendario classico, però, Sydney aveva al suo interno le incognite legate alla trasferta e su quelle la veneta giocò le sue carte: «Sapevo che la trasferta era difficile – afferma aprendo l’album dei ricordi – io poi ho sempre sofferto i viaggi negli altri continenti, dovevo quindi pensare a una soluzione per ammortizzare il più possibile i disagi. Fu così che io e Paolo (Rosola, suo allenatore e compagno di vita, ndr) c’inventammo l’idea di anticipare il cambio di fuso orario nelle settimane precedenti il viaggio».
Come avvenne e in che cosa consisteva questa scelta?
Dissi a Paolo che dovevo abituarmi il più possibile alle condizioni di gara di Sydney, esattamente come avevamo fatto per Atlanta, quando invece di andare in altura mi allenai nella bassa Mantovana, in condizioni di grande caldo e umidità come quello che avremmo trovato in Georgia. La differenza oraria con l’Australia è di 8 ore e il recupero del jet lag avviene un’ora al giorno, ma noi ci saremmo trasferiti a Sydney molto più tardi, quindi il recupero sarebbe stato difficoltoso. Una quindicina di giorni prima di partire iniziammo così a trasformare lentamente il nostro ritmo vitale da quello europeo a quello australiano.
Come?
Iniziai ad allenarmi alle 6 del mattino e ogni giorno anticipavo di 15 minuti fino ad arrivare a uscire alle 3 di notte, che era, trasposto, l’orario di partenza della gara australiana. Tutto il resto era di conseguenza: i pasti, il sonno (andavo a dormire alle 11 del mattino…) in modo da ridurre anche i disagi del volo, che per me sono sempre stati pesanti. A tal proposito ricordo che il Coni aveva fissato per noi il volo in seconda classe, io pagai la differenza e viaggiai in prima, per stare un po’ più comoda e ridurre il disagio, che comunque ci fu. Al ritorno, con la medaglia d’oro, mi fecero viaggiare direttamente in prima…
Che cosa facevi in quegli allenamenti di notte?
Non granché dal punto di vista specifico, ma il grosso era già stato fatto. Quel che contava era abituare il fisico a essere pronto a quell’ora, il metabolismo a mettersi in moto all’orario che serviva per la gara. Paolo stava con la macchina dietro con i fari a illuminare, per farmi vedere il percorso. Non furono giorni semplici, ma il risultato ripagò di tutto.
Quanto tempo ti allenavi?
Dovevamo ripetere l’orario di gara, allora i cross country duravano almeno 1h50’ quindi mi allenavo per almeno 90 minuti. Ricordo che, il giorno della partenza per l’Australia, avevamo il volo al mattino ma io mi misi in moto dall’inizio della notte. All’autogrill mi fermava la gente per chiedermi che ci facevo lì a quell’ora e io rispondevo «Sto andando alle Olimpiadi»…
Pensi che questa scelta personale abbia influito sulla gara?
Sì, perché le avversarie che avevano scelto un avvicinamento più tradizionale partirono a tutta, io infatti persi terreno nelle prime fasi, ma poi pagarono, io invece rimanevo fresca. Dopo in molti vennero a chiederci lumi sulla nostra preparazione, anche perché i giornalisti ne parlarono come di qualcosa di assolutamente innovativo e devo dire che molti hanno seguito quella strada. Telser ad esempio ha fatto allenare le ragazze svizzere della mtb, in vista dei Giochi di Tokyo, al caldo umido invece che in altura e anche nel suo caso la scelta è stata indovinata.
Molti corridori, o meglio le loro squadre WorldTour, hanno deciso di rinunciare alla trasferta iridata temendo le ripercussioni sul fisico al ritorno. Tu le subisti?
Parzialmente, ma per me non era un problema, avevo centrato l’obiettivo e non mi aspettavano impegni fondamentali al ritorno, tanto è vero che io e Paolo ci prendemmo due settimane di vacanza da trascorrere proprio in Australia. Al ritorno si fatica, ma meno di quando si ritorna dall’America, a noi europei la trasferta verso est è più favorevole al ritorno. Se però devo correre subito è comunque dura, capisco quindi alcune scelte.
Un’ultima domanda: che cosa fa Paola Pezzo oggi?
Continuo a dedicarmi alla mountain bike ma in veste diversa. Insegno in un liceo a Castelletto di Brenzone, sul Lago di Garda, con specializzazione in mtb. I ragazzi fanno quattro anni di corso e alla fine acquisiscono con il diploma di maturità anche il brevetto di guide di mtb, praticamente hanno già un lavoro in tasca. E’ il primo in Italia e ne vado orgogliosa come di un’altra grande vittoria.