Pochi giorni e finalmente sarà Strade Bianche, la classica del nord… più a sud. E a proposito di classiche, ognuna ha il suo passaggio simbolo, spesso anche decisivo: il Poggio per la Sanremo, la Foresta di Arenberg per la Roubaix, il Kwaremont per il Fiandre, il Cauberg per l’Amstel e così via. Alla Strade Bianche questo passaggio è Monte Sante Marie, quest’anno settore numero otto, posto a 71 chilometri dall’arrivo. I suoi dati: 11,5 chilometri (4,5 dei quali in salita), una pendenza massima del 18 per cento e anche una discesa molto, molto tosta.
Di Monte Sante Marie parliamo con l’unico italiano che sin qui è riuscito a vincere la Strade Bianche, Moreno Moser. Il trentino riuscì nell’impresa nel 2013. Oggi Moreno è un acuto commentatore ed opinionista del ciclismo e con lui facciamo un’analisi tecnico-tattica di questo settore.
Moreno, insomma Monte Sante Marie è il punto decisivo della corsa?
Sì, o meglio: dipende. Dipende da come viene interpretata la corsa. Con certi corridori come Pogacar lo è sicuramente. In alcuni anni, tipo quando l’ho vinta, invece non è stato un settore così fondamentale. Però mi rendo conto che quando correvo io c’era molto più attendismo. Sante Marie era il momento in cui si frazionava un po’ il gruppo, ma non si decideva ancora la corsa. Oggi, a 80 chilometri dall’arrivo, devi essere già praticamente in modalità finale.
Se facessimo un paragone coi muri fiamminghi: è il Kwaremont del Giro delle Fiandre?
Sì, lo è da un punto di vista tecnico, perché effettivamente è il più duro, il più lungo ed è quello dove se uno vuole, può fare selezione. Anche quando correvo io si diceva che da Sante Marie iniziava la corsa. Adesso rischia di essere il punto in cui la corsa finisce… Anche se poi forse dal punto di vista emotivo e per vicinanza all’arrivo il settore delle Tolfe è più coinvolgente. E’ il Cauberg dell’Amstel!
Come si affronta, come si gestisce il settore di Monte Sante Marie? Portaci in bici con te…
Ah – sorride – non si gestisce, se vanno a tutta devi stare dietro a chi va a tutta. Quando inizi Sante Marie hai già i battiti alti per la lotta alle posizioni. Il primo anno che ho fatto la Strade l’ho preso indietro e c’è stata una caduta che mi ha tagliato fuori. Eppure lì ho capito che quella corsa mi piaceva. Il primo tratto è duro, tendenzialmente devi stare seduto, a meno che il terreno non sia in condizioni ottimali, magari un po’ compattato dalla pioggia. Discesa e poi salitone.
Quando si parla di Monte Sante Marie tutti pensano al salitone finale, in realtà c’è una discesa affatto banale. Anzi, l’anno scorso proprio lì scattò l’asso sloveno. Cosa ci dici di questa discesa?
Quel tratto di discesa è davvero tosto. E’ uno dei punti in sterrato dove si raggiungono le velocità più alte. Bisogna lasciarla scorrere. Servono capacità e anche grossi attributi! Negli ultimi anni però i corridori sono molto più abituati a guidare sullo sterrato. Quando correvo io, c’era gente che non sapeva neanche dove fosse quando entrava sullo sterrato. Oggi quelli davanti sanno guidare.
Adesso sarai criticato!
Sicuro, in tanti mi dicono: «Ah, noi di una volta guidavamo meglio». Io non credo sia così, oggi in tanti sanno guidare. Se pensiamo ai corridori forti degli ultimi anni, a parte Evenepoel che comunque è migliorato, gli altri sono tutti fenomeni anche nel guidare la bici. Pidcock, Pogacar, per non parlare di Van Aert e Van der Poel: gente che sa cosa fare.
E tatticamente come si approccia Sante Marie?
Sul primo strappo soprattutto, dipende molto da quanti corridori ci sono nel gruppo di testa e da come si è svolta la gara sin lì. Il ciclismo ha una marea di variabili e l’andamento della gara influenza tutto. Se si presentano in 20 è un conto, se c’è una fuga che può andare all’arrivo è un altro. Se invece è una fuga scontata e il gruppo è compatto, magari non c’è il vero attacco ma solo la squadra che fa il ritmo. Oppure c’è il Pogacar che fa il vuoto… dopo il forcing della squadra. E va via dopo il primo strappo, nella discesa.
Ci dicevi dell’importanza di far scorrere la bici in discesa. In fondo c’è un ponticello e poi si passa subito a salire. E’ quello che in gergo viene chiamato “sciacquone”. Si deve passare dalla moltiplica grande a quella piccola… Può essere un momento delicato?
Sì, perché subito dopo la discesa c’è un’altra impennata. Devi essere lucido per cambiare rapporto nel momento giusto. Sullo sterrato la catena può saltare e se sei in difficoltà puoi fare errori. Se andiamo a vedere ai corridori lucidi e freschi, difficilmente succedono problemi meccanici. Quando invece sei al limite, schiacci il bottone a caso e la catena può prendere una frustata e andare giù. Di certo lì bisogna cambiare, perché poi le pendenze cambiano nettamente.
Mentre non è così decisivo il falsopiano dopo il salitone, dopo il Borgo di Sante Marie: perché?
Difficile dirlo, ma probabilmente oggi si va più forte nei tratti duri e quindi è più facile fare selezione prima. I corridori stanno molto più seduti perché si è visto che la pedalata è più efficiente. Rispetto a Pantani che faceva chilometri in piedi, oggi si è visto che si spreca meno energia da seduti. Tra l’altro alcuni calcoli hanno dimostrato che perdeva parecchio in aerodinamica.
Chiaro…
Difficilmente oggi trovi uno scalatore puro che salta tanto sui pedali alla Simoni. Però non saprei dire esattamente perché si fa meno selezione in quel falsopiano. Negli anni in cui correvo io, dopo Monte Sante Marie eravamo ancora in tanti. Magari c’era un attacco, ma rimanevano gruppetti da 15 corridori. Oggi, e torniamo al discorso di prima, la corsa si è già assestata.
Moreno, qual è la tua “foto” di Monte Sante Marie?
La mia foto è anche una foto reale. Risale all’anno in cui ho vinto, e quello scatto mi ritrae praticamente a bocca chiusa mentre salivo al fianco di Sagan e davanti a Cancellara. E dire che avevo preso il settore in quarantesima posizione. Ma con tre pedalate al lato della strada ero davanti con Peter (Sagan, ndr), Van Avermaet e gli altri migliori. Mi è rimasta impressa perché mi sentivo fortissimo.
Tu e solo tu conosci le sensazioni che avevi in quel preciso istante…
E infatti tra me e me iniziavo a pensare: «Però… Sarà, ma io qui non faccio fatica». Ricordo che mi succedeva spesso in quegli anni. Da neopro’ un giorno con ingenua sfrontatezza dissi ad Alan (Marangoni, ndr) che non sentivo mai mal di gambe. Sì, lo sentivo nel finale, ma era il mal di gambe bello, quello che hai quando vai forte e ti giochi la corsa. Quello che ti spinge a dare ancora di più.