Com’è il gravel negli USA? Ce lo racconta Brennan Wertz

27.11.2023
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BOLZANO – Stiamo scendendo da Cavalese in direzione Ora, lo scricchiolio della strada ghiaiata sotto le ruote ci sta accompagnando in una discesa che ripercorre il vecchio percorso del treno. Le curve si susseguono e davanti a noi abbiamo un ragazzo classe ’97 alto 1,96 che danza tra le curve sulla sua bici in titanio. Si chiama Brennan Wertz, è californiano ed è un corridore professionista gravel. Ma cosa ci fa uno statunitense sulle Dolomiti? 

Brennan è sponsorizzato da Q36.5 ed è venuto in Italia per disputare il campionato del mondo gravel. La sua storia merita di essere raccontata, ex vogatore dell’Università di Stanford e della nazionale USA con cui è stato campione del mondo U23. In seguito a un infortunio ha iniziato a pedalare su una gravel e da lì è iniziato il suo percorso off-road. Così ci siamo fatti raccontare la sua storia e come sia il gravel negli Stati Uniti dove è nata questa disciplina.

La guida divertente è una delle caratteristiche che ha portato Brennan Wertz ad innamorarsi del gravel (foto Jim Merithew)
La guida divertente è una delle caratteristiche che ha portato Brennan Wertz ad innamorarsi del gravel (foto Jim Merithew)
Come sei arrivato al gravel?

Ho trascorso otto anni remando, viaggiando per il mondo, gareggiando con la nazionale oltre che con il mio team universitario. Penso che sia stato di grande aiuto per costruire il mio fisico attuale, è lì che ho messo le basi per il motore che ho oggi. Prima del gravel facevo MTB, anche se non ho mai corso. E’ sempre stato solo per divertimento.

Poi cos’è successo?

Poi è arrivato l’infortunio mentre remavo. Avevo un’infiammazione ai muscoli delle costole. La tipica storia di qualcuno che si infortuna e inizia a pedalare per recuperare. Così mi sono reso conto di quanto fosse divertente la guida di queste bici. Devo dire che il tempismo ha giocato a mio favore. Sono molto fortunato che questo tipo di scena gravel sia esplosa negli ultimi quattro o cinque anni negli Stati Uniti.

Com’è il gravel negli Stati Uniti?

E’ decisamente più comune. E’ una disciplina che è in circolazione da tanto. Alcune gare vanno avanti da oltre 10 anni, quindi vanta già un’esperienza consolidata. Penso che negli ultimi quattro o cinque anni il gravel sia diventato davvero più popolare e che ci siano alcuni corridori chiave che in un certo senso hanno attirato molta attenzione su di esso. Ragazzi come Ted King, Ian Boswell, sono arrivati direttamente dal WorldTour e sono diventati un esempio di specialisti del gravel.

Abbiamo intervistato Brennan durante il training camp organizzato da Q36.5 in Trentino (foto Jim Merithew)
Abbiamo intervistato Brennan durante il training camp organizzato da Q36.5 in Trentino (foto Jim Merithew)
Come sei arrivato ad essere un pro’?

Io penso di essere in una posizione unica, sono una delle prime persone a diventare professionista nelle corse gravel senza aver partecipato al WorldTour. Ancora oggi, molti dei ragazzi che corrono professionalmente nel gravel provengono da lì e forse sono in… pensione o hanno semplicemente deciso che ci sono più opportunità in questa disciplina o perché gli piacciono di più queste corse. Quindi lasciano la strada per andare sulla ghiaia. Io ho iniziato a pedalare a livello agonistico solo nel 2019, è ancora un periodo piuttosto breve. Penso che sia una scena che al momento gode di molto slancio, energia, entusiasmo e industrie che investono su di essa.

Lo praticano in molti il gravel in USA?

Sì, alle persone piace davvero. Quando vado alle gare, ci sono migliaia di partecipanti ed è davvero una bella opportunità. Possiamo stare tutti con lo stesso obiettivo sulla stessa linea di partenza e vivere un’esperienza condivisa.

Che idea ti sei fatto del gravel in Europa?

Penso che sia decisamente differente. E’ banalmente un habitat diverso dove praticare questo sport. Negli Stati Uniti, abbiamo queste strade agricole che sono semplicemente sterrate, dove ci potrebbero passare quattro auto in larghezza. Vai dritto per miglia e miglia, poi c’è una svolta e poi di nuovo dritto, e poi un’altra svolta e di nuovo dritto. Le curve che incontri sono sempre a 90° suddivise in una specie di griglia di strade che si incrociano. Credo che l’Europa sia anche semplicemente più piccola, con più patrimonio culturale e storia, le persone vivono qui da più tempo. Ci sono queste strade strette e tortuose, con tutte queste curve. Per esempio ai campionati del mondo in Italia, attraverso i vigneti, non siamo mai andati dritto per più di un minuto o due. Curva, contro curva, su e giù. Questo cambia lo stile delle corse. E’ più aggressivo, corri rilanciando ad ogni svolta. E’ uno sforzo molto diverso e di conseguenza anche il suo approccio è differente. Negli Stati Uniti basta spingere per ore e guidare tra i 300 e i 500 watt ininterrottamente. Qui invece si hanno dei picchi di potenza costanti. 

Ti è piaciuto il mondiale in Italia?

Sì, moltissimo.  Aveva un percorso che non mi si addiceva molto, per queste salite davvero ripide con punte a più del 20 per cento. Ma non ho mai visto fan come quelli che abbiamo avuto quel giorno. C’erano persone così appassionate. Urlavano e facevano il tifo per noi su ogni salita toccandoci e spingendoci. Ricordo che le salite quel giorno mi hanno penalizzato e sono finito nelle retrovie. Nonostante ciò, la gente urlava e mi incitava. Negli Stati Uniti le nostre gare sono davvero isolate, in mezzo al nulla e puoi passare ore senza vedere nessuno. E’ stata un’esperienza super divertente. Un percorso bellissimo dove non bastava essere forti, ma bisognava anche essere bravi a guidare la propria bici. 

Brennan Wertz vanta molteplici vittorie nel circuito gravel statunitense (foto Jim Merithew)
Brennan Wertz vanta molteplici vittorie nel circuito gravel statunitense (foto Jim Merithew)
Che bici usi?

Io pedalo su una Mosaic Cycle GT-1 45 in titanio. Ho avuto anche bici in carbonio, ma devo dire che questo materiale per me si sposa al meglio con il gravel per come lo intendo io. Posso fare un single track senza preoccuparmi, viaggiare senza stare in pensiero. E’ una bici robusta, leggera e molto comoda. Questo telaio lo uso dal 2021 e può fare ancora tante miglia. 

Come è nata la tua sponsorizzazione con Q36.5?

Negli Stati Uniti per correre non hai bisogno di una vera e propria squadra, ma devi crearti un nucleo di sponsor. Con Q36.5 ci siamo trovati d’accordo fin da subito, i nostri intenti erano gli stessi. Con loro collaboro anche per il test di prodotti e sono ambassador negli Stati Uniti. Mi piace davvero la tecnicità dei prodotti che hanno e lo studio che c’è dietro ognuno di esso. 

Titici inaugura a Boston la prima filiale americana

13.09.2023
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Titici continua il proprio percorso di crescita sul mercato e inaugura a Boston, Massachusetts, la prima, personale filiale negli Stati Uniti. Attraverso una rete vendita in rapido ampliamento, l’intera gamma di biciclette Titici sarà dunque presto disponibile sul mercato statunitense. Sarà però acquistabile esclusivamente in “premium store” specializzati, oltre che sui canali online diretti del brand lombardo. Contestualmente a questa apertura, Steve Thomas è diventato National Sales Manager di Titici per gli Stati Uniti. 

Titici cresce anche nel gravel: una disciplina in grande aumento, soprattutto negli Stati Uniti
Titici cresce anche nel gravel: una disciplina in grande aumento, soprattutto negli Stati Uniti

In tutto il mondo

La nuova filiale Titici americana rappresenta un “asset” assolutamente strategico per supportare la forte espansione del marchio nel Paese. A seguito dell’acquisizione – nel 2019 – da parte del gruppo italiano Trerè Innovation, le biciclette Titici vengono oggi distribuite in tutto il mondo. Oltre a Stati Uniti ed Europa, si sono recentemente aggiunti anche paesi come Israele, Singapore, Corea del Sud, Australia, con altri importanti mercati in via di definizione. Le collezioni strada, gravel, mountain bike ed e-bike Titici sono state aggiornate e ampliate con modelli che integrano tecnologie proprietarie di nuova generazione, mantenendo però lo storico DNA del brand che dal “lontano” 1961 rappresenta una vera e propria icona del “fatto a mano e su misura” 100% in Italia. 

Da oggi, negli Stati Uniti, si apre dunque un nuovo capitolo per il marchio di Asola (Mantova): un brand che punterà a farsi apprezzare anche dai clienti americani grazie alla qualità artigianale dei propri telai, dal design Made in Italy e da una proposta di personalizzazione sartoriale che unisce arte, stile e prestazioni senza compromessi. 

Anche i modelli strada, in foto l’Alfa, sono di altissimo livello tecnico
Anche i modelli strada, in foto l’Alfa, sono di altissimo livello tecnico

Una collezione completa

Nel mese di giugno, a Francoforte in occasione dell’ultima edizione di Eurobike, Titici ha presentato con successo il nuovo modello Alfa. Una bici aero dal design ipersonico equipaggiata con la nuova tecnologia DAC (Double Air Channel) per una massimizzazione delle prestazioni aerodinamiche. Oltre a questa bicicletta sono stati presentati anche i modelli gravel all-around in carbonio Revo, oltre alla nuova bici ultra-leggera da salita Vento (omologata UCI).

Vale poi la pena ricordare che nel corso dell’ultimo anno, Titici ha introdotto anche i modelli road Strada e quello gravel Sterrato, entrambi costruiti con tubazioni in acciaio realizzate in collaborazione esclusiva con Columbus, oltre alla bici gravel Alloi, con telaio in alluminio Dedacciai, e la e-bike Dynamica (spinta da motore Mahle X20) per splendide avventure sia gravel che su strada. 

Titici

Vaccaroni: trent’anni dopo Barcellona, la sfida americana

28.07.2022
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Cinquemila chilometri attraverso 12 Stati e 35.000 metri di dislivello si fa fatica anche a immaginarli. Dodici giorni il tempo massimo, per cui soste ridotte all’osso, microsonni e un mondo di riferimenti tecnici che ti spiazzano. E’ la Race Across America e sono appena 25 gli italiani che negli anni sono volati oltre Oceano per cimentarsi. Non tutti sono riusciti a completarla o completarla in tempo. Fra i quattro che hanno riprovato quest’anno, c’era anche Dorina Vaccaroni, al secondo tentativo. Il primo nel 2021 non è andato bene. Ma quest’anno, forse anche per festeggiare i 30 anni dalla sua soddisfazione sportiva più grande, la veneziana è arrivata sul traguardo di Annapolis.

Chi sia Dorina Vaccaroni a qualcuno potrebbe forse sfuggire. Per rinfrescare la memoria bisogna tornare alle Olimpiadi di Barcellona 1992, quelle che per il ciclismo significarono oro con Fabio Casartelli e Giovanni Lombardi. Per lei furono il culmine di una carriera nella scherma. L’oro nel fioretto a squadre chiuse in modo magistrale una carriera di cinque mondiali, tre coppe del mondo e un europeo. Poi arrivò la bicicletta. Fatta di gare amatoriali, un anno tra le elite nel 2005 e alla fine l’approdo all’ultracycling.

A Barcellona 92, oro nel fioretto a squadre con Bortolozzi, Zalaffi, Gandolfi e Trillini (foto Coni)
A Barcellona 92, oro nel fioretto a squadre con Bortolozzi, Zalaffi, Gandolfi e Trillini (foto Coni)
Cos’hanno in comune scherma e ciclismo?

Parlerei di scherma e ultracycling. A livello mentale sono vicini. Sei da solo. Devi avere attorno un buon team per supportarti. La testa conta più del corpo. Quando sei in pedana, il cervello deve funzionare al decimo di secondo, in una gara di tanti giorni la sola strategia sei tu e come sai gestirti. Il ciclismo classico invece si basa molto sugli altri, dipende dagli altri. 

Come sei arrivata all’ultracycling?

Dopo aver corso su strada e aver fatto un Giro d’Italia. Per sfida e perché mio padre ha sempre detto che ho il fuoco addosso. Nel 2016 ho vinto la Ultracycling Dolomitica, valida appunto per la qualificazione alla Race Across America. Poi avrei dovuto fare la Race Across the West, dalla California al Colorado, ma mi infortunai al ginocchio. Così alla fine sono arrivata alla più grande di tutte.

Il percorso della RAAM misura 3.000 miglia, circa 5.000 chilometri e ha 35.000. metri di dislivello
Il percorso della RAAM misura 3.000 miglia, circa 5.000 chilometri e ha 35.000. metri di dislivello
La Race Across America, appunto.

Prima volta nel 2021, con gli strascichi del Covid. Per cui numeri ridottissimi già dalla partenza. Beccai una bolla di calore e alla fine non arrivai per appena 200 chilometri. Mi diede fastidio, forse anche per questo mi sono ripresentata, facendo le cose in modo diverso.

Cosa è cambiato quest’anno?

Intanto la preparazione. Mi sono fatta allenare da Mauro Farabegoli, che dopo aver lavorato nel ciclismo professionistico, è diventato un riferimento nelle lunghe distanze. Ho seguito i suoi allenamenti e sono arrivata pronta per la sfida. E sarei potuta arrivare in fondo senza fermarmi, ma ho dovuto farlo per dare il tempo alla crew di riposarsi.

L’auto la seguiva o la precedeva di poco durante la traversata dei 12 Stati
L’auto la seguiva o la precedeva di poco durante la traversata dei 12 Stati
L’atleta che dà tempo di riposarsi all’equipaggio in macchina?

Sembra strano ma è così. Serve una grande intesa. E’ pesante anche per loro che guidano per migliaia di chilometri alla velocità di una bicicletta. Trovare le persone giuste è una delle cose più difficili. Di solito dimagriscono anche loro, i miei invece sono ingrassati: segno che qualcosa non ha funzionato. Ma partecipare costa 40-50.000 dollari e nelle spese c’è da conteggiare anche chi ti accompagna.

Come si trovano tanti soldi?

Sponsor, principalmente. Allenandomi 8-10 ore al giorno, tanto tempo per lavorare non c’è. Gli sponsor sono tanto importanti, ma in Italia non si capisce, forse perché eravamo solo in quattro italiani al via, quindi se ne parla poco.

Medico e fisioterapista messicani: la scelta dell’equipaggio è decisiva
Medico e fisioterapista messicani: la scelta dell’equipaggio è decisiva
Cosa succede se la crew non funziona bene?

Si perde tempo. Sono stata costretta a tante soste inutili. Per contro, il medico e il fisioterapista, entrambi messicani, sono stati bravi quando si è trattato di abbassarmi la temperatura. Si arriva a pedalare fino a 55°C e se non c’era un medico a raffreddarmi e farmi recuperare con una flebo, forse nemmeno arrivavo in fondo.

Loro sono ingrassati, tu hai perso peso?

Dovevo mangiare una volta al giorno il mio piatto di pasta, ma non sempre è stato possibile proprio a causa di chi mi seguiva. Il calo fisiologico è di 2-3 chili, io ne ho persi 8 e non va bene. Non è salutare. Io poi sono vegetariana, quindi mangio cose che non fanno male. Ma portare il corpo oltre certi limiti è unhealthy, come dicono lì: non è salutare.

Auricolare e microfono per restare in contatto con la crew: Vaccaroni pronta al via
Auricolare e microfono per restare in contatto con la crew: Vaccaroni pronta al via
Quanto è importante avere la giusta posizione in bici per starci sopra tante ore?

E’ fondamentale. Ogni volta che facciamo la posizione, si lavora per 5-6 ore. Parliamo di telaio, ma anche sella, tacchette, manubrio. La mia sella è tutta aperta e aerata. Valerio Zamboni ha dovuto ritirarsi probabilmente per un problema di appoggio. Le bici per le corse su strada sono anche più piccole e non hanno bisogno di essere così comode.

Invece l’abbigliamento? Hai parlato di temperature infernali…

I pantaloncini sono importantissimi. Nalini me ne ha forniti cinque fra cui ho potuto scegliere fino a trovare quello giusto. Serve un fondello che non faccia la minima piega, tanto che l’ideale sarebbe avere dei capi su misura. Mi hanno dato anche delle buone maglie. Una bella collaborazione. La prossima volta spero che cominceremo con più anticipo, per trovare il giusto fitting.

La prossima volta?

Voglio fare la Raam sotto gli 11 giorni: mi conosco e so che posso farlo. Non potrò fare il record dei 9 giorni, ma sotto gli 11 è alla mia portata. Per questo continuerò ad allenarmi, fare gare e cercare sponsor (lo scorso weekend, Dorina è arrivata seconda ai campionati europei Slo24ultra, percorrendo in 24 ore 759 chilometri alla media di 32,090, ndr). Così appena l’ho finita ho cominciato a pensare alla prossima volta.

C’è ancora la scherma nella tua vita?

Col fatto che vivo in California, il mio lavoro è insegnare scherma in un grande club di laggiù. Loro vorrebbero che facessi di più, ma per me va bene così. Tra la felicità e fare soldi, scelgo ancora la felicità. Per questo ho scelto di vivere laggiù. E per me ora la felicità è andare in bicicletta.

Valcar, se ne va anche la Malcotti: direzione Stati Uniti

30.12.2021
5 min
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Quando chiama il WorldTour, bisogna avere la massima ricezione del cellulare per rispondere. E’ andata più o meno così a Barbara Malcotti, altra italiana che migra verso l’estero e la categoria più alta. La scalatrice classe 2000 (compirà 22 anni il prossimo 19 febbraio) dopo tre stagioni nella Valcar-Travel&Service passa al team statunitense Human Powered Health (ex Rally Cycling Women) con cui ha firmato un contratto biennale.

Nel 2022 la trentina di Storo (paesino qualche chilometro a nord del Lago d’Idro nella Valle del Chiese), che ora convive col fidanzato vicino a Conegliano, ha messo nel mirino due obiettivi: la crescita come atleta e la laurea in psicologia il prossimo novembre.

«In questo periodo in cui sono meno impegnata a casa – spiega la Malcotti, che è iscritta all’università di Bergamo – sto lavorando alla tesi. Mi piacerebbe farla su un particolare disturbo alimentare che ho già individuato e che mi ha molto incuriosito. Vi chiedo di non svelarlo per non rovinare la sorpresa ai miei professori. Se riesco vorrei fare una ricerca scientifica adattata al ciclismo femminile e in modo totalmente anonimo. Avrei già qualche contatto che si renderebbe disponibile. In caso contrario, per mancanza di tempo, farei una rassegna di sola letteratura, che ne ho già trovata tanta».

E così, anche Malcotti lascia la Valcar per passare nel WorldTour (foto Instagram)
E così, anche Malcotti lascia la Valcar per passare nel WorldTour (foto Instagram)

Per lei però – ce lo confida quasi ad inizio della nostra chiacchierata – la priorità ora ce l’ha il ciclismo. L’opportunità di correre e fare bella figura nel WorldTour è troppo grande per non dedicargli la maggior parte delle energie. Approfondiamo quindi il discorso.

Barbara, domanda di rito. Come sei arrivata alla Human Powered Health?

A settembre, dopo l’europeo U23 di Trento (in azione nella foto di apertura, ndr). In realtà ero già stata confermata dalla Valcar Travel&Service. Ma lo scout della squadra statunitense, che stava tenendo sotto osservazione altre ragazze della mia età, mi ha visto nella prova in linea e mi ha chiamata proponendomi l’ingaggio. Sono rimasta sorpresa e spiazzata. Ne ho parlato subito con Valentino Villa (il presidente della formazione bergamasca, ndr) che mi ha concesso di valutare e cogliere questa opportunità. Ho poi parlato anche con i diesse ed il team manager americani. E’ stata una scelta veloce perché loro volevano una risposta prima di inizio ottobre.

Questi tre anni in Valcar come sono stati?

Buoni, ringrazio Villa, Arzeni e tutti quanti per quello che hanno fatto per me. Sono cresciuta molto facendo tanta esperienza. Ho avuto il privilegio di stare con grandi campionesse e correre, ad esempio, con Elisa Balsamo che tutti sanno cos’ha vinto. Mi ha insegnato tanto Ilaria Sanguineti. Lei ha molta esperienza, è la donna-squadra al 100 per cento. Se devi avere un gregario al tuo fianco, lei è una garanzia, così come la è stata Silvia Pollicini.

Personalmente invece sembra che non siano state tutte belle stagioni…

Vero. Nel 2019, al primo anno elite, mi sono rotta il bacino il 25 maggio cadendo in discesa in gara in Spagna (all’Emakumeen Bira, ndr). Sette mesi ferma, recupero lunghissimo nel quale ho perso massa muscolare. Nel 2020, a fine febbraio alla Vuelta Valenciana, mi sono dovuta ritirare per un principio di overtraining. Il lockdown mi ha consentito di riprendermi, ma quando la stagione è ripartita avvertivo cattive impressioni di condizione. Solo alla Challenge by La Vuelta ho ritrovato davvero buone sensazioni. Ma ormai era novembre inoltrato e la stagione era finita.

Proprio gli europei di Trento, in cui ha aiutato Zanardi a vincere, sono stati la sua rampa di lancio. A destra il presidente Dagnoni
Proprio gli europei di Trento, in cui ha aiutato Zanardi a vincere, sono stati la sua rampa di lancio
Quindi nel 2021 come sei partita?

Inizialmente è stata un’incognita, pensavo fosse simile alla precedente. Tuttavia l’aver terminato in crescendo il 2020 mi ha stimolata a fare bene. All’Amstel mi sono staccata subito, ma non mi sono demoralizzata. Alla Liegi ho chiuso in buona posizione e ho preso motivazione per proseguire su quella strada. Mi ero sbloccata a livello mentale. Anche i miei studi mi hanno aiutata in questo, li ho applicati su di me. Prima ero diventata la paziente di me stessa. Sono rimasta delusa invece dal Giro che ho corso. Volevo farlo bene ma non è andata così.

Torniamo alla tua nuova squadra. Cosa sai di loro?

So che il loro obiettivo era formare un gruppo molto giovane con qualche ragazza esperta, presa per insegnarci a correre. Conosco bene solo Henrietta Christie (la neozelandese classe ’02 che quest’anno ha corso nella BePink, ndr), ma so che ci saranno qualche olandese e, fra le tante, la statunitense Kaia Schmid (nel 2021 tra le junior argento iridato su strada, argento nell’omnium o oro nell’eliminazione ai mondiali su pista, ndr). 

Hai già fatto un programma indicativo con i tuoi futuri tecnici?

Faremo un ritiro in Algarve dal 16 al 26 gennaio così potremo conoscerci meglio. Abbiamo già tracciato un po’ di calendario. Nella prima parte di stagione correrò al Nord. Freccia Vallone e Liegi su tutte, in cui vorrei fare bene. Poi Itzulia Women e Vuelta a Burgos prima del periodo di stacco in vista di luglio. Per il momento per me è previsto il Tour ma io vorrei correre il Giro Donne che è più indicato alle mie caratteristiche. E perché vorrei riscattare quello di quest’anno. Inoltre dovrei fare la Strade Bianche per la prima volta.

La nazionale è casa di Barbara Malcotti: qui in azione ai mondiali juniores di Innsbruck 2018
La nazionale è casa sua: qui in azione ai mondiali juniores di Innsbruck 2018
Barbara chiudiamo con uno sguardo al prossimo futuro. Cosa ti aspetti da te?

Nel 2022 l’idea è quella di essere di supporto alla squadra per ottenere riconoscenza in qualche gara di livello. Mi piacerebbe avere un po’ di carta bianca in qualche corsa WT quando ce ne sarà la possibilità. Su di me in generale l’obiettivo è quello, un giorno, di stare ed arrivare con le migliori. Un esempio di crescita e serietà che vorrei seguire è quello di Marta Cavalli. Siamo state compagne, la conosco e sono felicissima per la sua carriera. Diventare un’atleta come lei mi piacerebbe molto.

Axel Merckx

Merckx, la crisi e quei sorrisi al Giro

30.10.2020
4 min
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Axel Merckx risponde al telefono dal Canada in uno dei momenti più critici della sua carriera di manager. Il Covid ha spazzato via il ciclismo dal Nord America, facendo cancellare praticamente ogni corsa. E la Hagen Bermans Axeon, che a inizio stagione era una squadra in salute e pronta a giocare le proprie carte, adesso è ad un soffio dal chiudere i battenti per l’assenza di sponsor.

Fucina di talenti

Del team americano si è parlato più volte durante il Giro d’Italia, perché dalle sue file sono approdati al professionismo Tao Geoghegan Hart, che il Giro l’ha vinto; Joao Almeida, che lo ha comandato per due settimane; Ruben Guerreiro, che si è portato a casa la maglia dei gran premi della montagna. Tutti hanno speso parole di elogio per Axel che, da quando ha iniziato a portare avanti questo progetto oltre l’Oceano (nato negli anni di Livestrong da cui si è poi affrancato), ha smesso di essere il figlio di Eddy. Prima di loro e fra gli altri, Merckx ha mandato nel WorldTour corridori come George Bennett, Jasper Stuyven, Taylor Phinney, Neilson Powless e Mikkel Bjerg.

Tao Geoghegan Hart, crono Monreale-Palermo,, Giro d'Italia 2020
Tao Geoghegan Hart ha corso con Merckx dal 2014 al 2016
Tao Geoghegan Hart, crono Monreale-Palermo,, Giro d'Italia 2020
Tao Geoghegan Hart con Merckx dal 2014 al 2016

Colpa del Covid

Dice che avevano cominciato il 2020 super ambiziosi, poi sono sparite le corse, non si riusciva a venire in Europa. Insomma… un disastro.

«Sto ancora cercando – dice – e non dispero. E’ complicato. Ho contatti, ne vorrei di migliori. Il Covid non ha aiuta, anzi ci ha mandato al tappeto. Gli sponsor sono in difficoltà. Per questo non cerchiamo soltanto negli Stati Uniti o in Canada, ma in tutto il mondo. Del resto la squadra è affiliata negli Usa, ma abbiamo il servizio corse in Belgio e viviamo la maggior parte dell’anno in Europa. Siamo stati in Italia per il Piccolo Lombardia e il Giro U23 puntando su Quinn, ma non è andato benissimo. Ho anche pensato di legarmi a un team WorldTour, ma non tutti hanno budget per un team Development».

Il Giro, che sorpresa

A consolarlo è arrivato il Giro d’Italia, con quei tre ragazzi che hanno stupito lui per primo. Anzi, si dice stupito più di Tao e Joao che di Guerreiro, che le doti per la maglia della montagna le ha sempre avute.

«Ho seguito la corsa in tivù – dice – con tutte le complicazioni del fuso orario. E’ stato una grande sorpresa. Sapevo che sono ragazzi di talento e che sarebbero arrivati, ma come facevo a prevedere i quindici giorni in rosa di Almeida? E poi Tao… Avrei detto che avesse i numeri per una top 10, al massimo top 5. Ha talento. Vede bene la corsa, va bene a crono ed è forte in salita. Era al Giro per aiutare Thomas, ma ha giocato benissimo la sua carta. E’ stato lucidissimo e lui in questo è un esempio. Sono abbastanza sicuro che non cambierà la sua mentalità e tornerà a fare il suo lavoro. Pensa che mi ha chiamato prima di salire sul podio finale, super in fretta. L’ho trovato molto sicuro nella voce, ma posso aggiungere poco, perché per il resto della chiamata non abbiamo fatto altro che ridere…».

Joao Almeida, Giro d'Italia 2020
Joao Almeida, con Axel Merckx nel 2018 e 2019
Joao Almeida, Giro d'Italia 2020
Almeida con Merckx nel 2018 e 2019

Nessun segreto

C’è anche lui però nella loro storia ed è bello ricordarlo, soprattutto per capire come mai dal suo team siano usciti tanti corridori così forti e pronti.

«Ne faccio parte – ammette – ma sono loro ad aver fatto i sacrifici necessari. Non so se ci sia un segreto, parlerei piuttosto di metodo di lavoro. Un mix fra mentalità Usa e tradizione europea. Probabilmente non è un modello che funziona con tutti. Andando a stringere, ho bisogno di avere un buon feeling con il corridore e che lui lo abbia con i compagni. Solo così l’esperienza diventa insegnamento. Cerco il talento. Va bene guardare ai risultati, ma ci sono anche corridori di qualità che arrivano da periodi sfortunati e non hanno piazzamenti. Quel che conta è la mentalità con cui vengono e la voglia di far parte del progetto, cosa possono fare gli uni per gli altri. Da noi non sono numeri, sono persone. E credo che abbiamo fatto un buon lavoro».