Davide Stella, Sei Giorni di Gand

Stella a Gand: sei giorni di festa, musica e divertimento

29.11.2025
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L’inverno di Davide Stella lo ha visto pedalare in giro per il mondo tra parquet e strada, dal mondiale di Santiago del Cile su pista al Criterium a Singapore con Vingegaard e Milan. Ma per il classe 2006 del UAE Team Emirates Gen Z il richiamo della Sei Giorni di Gand è stato troppo forte per rinunciare quella che è la gara più bella per gli amanti di questa disciplina. Una settimana nel cuore del ciclismo, tra birre, giri di pista a velocità folli, musica e un mare di gente.

«Ero venuto qui anche lo scorso anno – racconta Stella – e quella di Gand si conferma una delle Sei Giorni più belle da correre in assoluto. La manifestazione prevede anche gare per la categoria under 23, le giornate sono meno frenetiche e si ha modo di guardare i grandi darsele di santa ragione. 

A sinistra Matteo Fiorin con Davide Stella, Sei Giorni di Gand
A sinistra Matteo Fiorin con Davide Stella, i due hanno corso insieme alla Sei Giorni di Gand
A sinistra Matteo Fiorin con Davide Stella, Sei Giorni di Gand
A sinistra Matteo Fiorin con Davide Stella, i due hanno corso insieme alla Sei Giorni di Gand

Preparatori e pista

Alla Sei Giorni di Gand le gare iniziano alla sera, intorno alle 18,30, con le prove riservate agli under 23. Dopo un’ora e mezzo nella quale i giovani scaldano il pubblico, come se ce ne fosse bisogno, entrano in pista i pezzi da novanta. Lo spettacolo inizia e per Stella e gli altri si apre il sipario sul mondo che verrà.

«Nella Sei Giorni di noi under – spiega ancora Stella – si corre molto meno rispetto agli elite, cosa che in questa parte dell’anno va anche bene. Siamo nel mezzo della ripresa invernale e i preparatori ci fanno fare tante ore a bassa intensità. Diciamo che una corsa in pista contrasta un po’ con il programma, però per una settimana si può fare. Anzi, io mi sento di stare meglio. Per i primi tre giorni noi under 23 correvamo due gare: una corsa a punti singola con due manche, dove le coppie venivano divise in numeri bianchi e neri. Poi la seconda prova era il giro lanciato. Mentre gli altri tre giorni avevamo la madison al posto della corsa a punti».

Davide Stella, Sei Giorni di Gand
Stella e Fiorin hanno corso nelle gare riservate agli under 23
Davide Stella, Sei Giorni di Gand
Stella e Fiorin hanno corso nelle gare riservate agli under 23
Hai corso in coppia con Fiorin, come vi siete organizzati con la logistica?

Eravamo in trasferta con la nazionale, quindi l’alloggio e gli spostamenti ce li hanno organizzati loro. Per il resto ci organizzavamo noi la giornata: la sveglia era abbastanza comoda visto che correvamo la sera. Io avevo con me anche la bici da strada e uscivo per fare qualche ora di allenamento. Una volta tornato riposavo, insieme a Fiorin giocavamo a Mario Kart e poi si andava in pista.

Che clima c’era una volta arrivati?

L’atmosfera era bellissima, uno spettacolo unico. E’ sia una corsa di ciclismo che uno show. Ogni sera dopo le nostre gare ci fermavamo a guardare quelle degli elite e ci siamo divertiti tantissimo, soprattutto perché era l’ultima in pista di Elia Viviani. Essere presenti a questo addio, dopo averlo visto vincere il mondiale qualche mese fa, è stato emozionante. 

Quanto prima correvate?

Questione di minuti, noi iniziavamo alle 18,30 mentre gli elite alle 20. La cosa bella è che potevamo scegliere se sederci in tribuna o rimanere in mezzo ai corridori. Per vedere bene la corsa era meglio andare in tribuna, ma facevamo fatica a trovare un posto libero (ride, ndr). 

Com’è vivere la corsa tra il pubblico?

Bello perché la maggior parte della gente se ne intende di ciclismo, tutti sanno come funzionano le varie prove. Poi in Belgio conoscono tutti i ciclisti, prendevano d’assalto anche me! Il più gettonato però era Viviani, diciamo che tra la sua carriera e la maglia di campione del mondo era difficile che passasse inosservato. 

Sei Giorni di Gand, pubblico
A Gand l’evento porta con sé sei giorni di festa e divertimento
Sei Giorni di Gand, pubblico
A Gand l’evento porta con sé sei giorni di festa e divertimento
Siete stati anche con Viviani?

Andavamo spesso a trovarlo tra una gara e l’altra. Però loro rimanevano poco nel parterre, tra una gara e l’altra ci saranno stati forse venti minuti di pausa. Ci siamo goduti ogni momento, poi sono arrivati anche Lamon, Ganna e Consonni per fargli una sorpresa e siamo stati tanto anche con loro. Diciamo che le sere una birretta post gara ce la siamo bevuta, mentre intorno a noi andava avanti la festa.

Una vera festa, che effetto fa viverla in prima persona?

Il DJ della Sei Giorni penso sia uno dei più bravi che abbia mai visto. Per prima cosa se ne intende di ciclismo e capisce i movimenti della corsa e dei corridori. Ogni atleta, quando attacca, ha la sua colonna sonora. Oppure a ogni passaggio o situazione lui cambia ritmo e coinvolge tutto il pubblico. Quando correvamo nel giro lanciato ogni coppia poteva scegliersi la canzone che preferiva.

Michele Scartezzini, Elia Viviani,Filippo Ganna, Simone Consonni, Sei Giorni di Gand 2025
La Sei Giorni di Gand è stata l’ultima corsa su pista di Viviani, qui con Scartezzini, Ganna e Consonni che sono venuti a fargli una sorpresa
Tu e Fiorin che canzone avete scelto?

Pedro di Raffaella Carrà, il remix. Mentre Viviani aveva “Sarà perché ti amo” dei Ricchi e Poveri. 

Quindi appuntamento per il 2026?

Speriamo in un altro invito! Adesso ho collezionato tre maglie della Sei Giorni. I colori li decidono l’organizzazione insieme agli sponsor. Quest’anno insieme a Fiorin avevo il verde. Poi lui non ha corso l’ultimo giorno perché è stato male, mi sono trovato a correre con un belga. Così ora a casa ho anche una maglia rossa.

Sei Giorni di Gand 2025, Michele Scartezzini, Elia Viviani, FIlippo Ganna,

L’ultimo giro di Viviani nel racconto di Scartezzini

27.11.2025
6 min
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Quando si è trattato di fare l’ultimo giro di pista, lo speaker lo ha chiamato a gran voce. E mentre dagli altoparlanti del Kuipke scendevano le note della Marsigliese, Viviani si è avvicinato alla parata di bici con le ruote sollevate, riconoscendo da un lato Consonni e sull’altro Ganna, accanto al quale Scartezzini riprendeva tutto con lo smartphone. La gente sugli spalti ondeggiava come grano in un giorno di vento, dando alla scena un contorno magico. Poi Elia ha preso il microfono e ha pronunciato il suo discorso, senza un filo di commozione.

La Sei Giorni di Gand è stata la sua ultima gara e in qualche modo è stata un momento di svolta anche per Scartezzini, a un passo da un cambiamento cruciale. Come Elia, ma con tre anni in meno, anche Michele è originario di Isola della Scala alle porte di Verona, e Gand se la sono vissuta insieme, dividendo la stanza in hotel. Entrambi hanno sperimentato emozioni mai vissute prima, soprattutto Viviani, mentre l’altro prendendolo un po’ in giro non faceva che scandire il countdown verso il fine carriera.

«Lunedì ho dormito per un giorno intero – racconta Scartezzini – perché bene o male andavamo a letto ogni giorno alle tre e mezza, anche le quattro. Finivamo la serata. Uscivamo dal velodromo e mangiavamo sul suo camper, che porta come appoggio nelle trasferte e in cui sta ad esempio il meccanico».

La piccola squadra veronese a Gand era composta dai due atleti, più il meccanico Matteo Ferronato, lo storico massaggiatore belga Ethienne Illigems e un altro massaggiatore veronese che si chiama Davide Vignato.

Gand sarà l’unica Sei Giorni del tuo inverno?

No, faccio Brema dal 9 al 12 gennaio, poi forse Berlino. Ma Gand è un’altra cosa. Da qualche anno avevano tolto le spine di birra dal centro della pista, sembrava di essere a un mondiale, non c’era più il solito casino. Invece quest’anno le hanno rimesse ed era tutto molto figo, fra corridori che passavano e tifosi che bevevano. Gand è la più dura, lo è sempre stata. E poi con quel pubblico è tutto più incredibile.

Con chi hai corso?

Ero con Thibaut Bernard, un giovane belga del vivaio della Lotto. Tanto che quando Elia l’ha visto, si è ricordato di lui, ma penso lo avesse visto una sola volta. Comunque è uno che in estate ha vinto il mondiale U23 della madison. Uno buono, ma anche questa volta Christophe Sercu mi ha ingaggiato per fargli da tutor, diciamo così. Di certo è meno stressante, perché non puoi pretendere di andare sempre davanti o girare a tutta, devi avere il tempo per insegnargli come ci si muove.

Difficile da chiedere a uno che alla nazionale ha dedicato gli ultimi 15 anni: che inverno ti aspetta?

Un inverno diverso. Non faccio più parte del gruppo azzurro, grazie alla decisione di puntare tutto sui giovani. Non per scelta tecnica, ma proprio per ringiovanire la rosa (Scartezzini ha al suo attivo due argenti e due bronzi ai mondiali, più due ori, sette argenti e due bronzi agli europei, ndr). Così dall’anno prossimo entro nel settore paralimpico. Ma siccome per essere convocabile deve essere passato un anno dall’ultima chiamata nella nazionale maggiore e la mia risale a gennaio, dovrò aspettare ancora un paio di mesi. Inizierò questa nuova avventura da febbraio 2026. Per cui mi sono tenuto allenato. Ho fatto più lavori specifici per Gand e tornerò a farne per Brema. Ma non ho grandi obiettivi in vista come prima. 

Scartezzini ha corso la Sei Giorni di Gand in coppia con Thibaut Bernard
Scartezzini ha corso la Sei Giorni di Gand in coppia con Thibaut Bernard, corridore del devo team della Lotto
Scartezzini ha corso la Sei Giorni di Gand in coppia con Thibaut Bernard
Scartezzini ha corso la Sei Giorni di Gand in coppia con Thibaut Bernard, corridore del devo team della Lotto
Quindi per le qualifiche di Los Angeles correranno i giovani?

Ci sarà anche Lamon e non so se poi avranno nuovamente a disposizione Ganna e gli altri del vecchio gruppo. Il discorso di ringiovanire si poteva fare benissimo, ma avendo cura di amalgamarli con i più esperti. Nei giorni scorsi a Gand c’era qualche azzurro giovane e si vede che ancora devono fare esperienza, si vedevano gli errori. Ma alla fine ho sempre accettato le decisioni e se daranno frutti, sarò contento per loro.

Le Fiamme Azzurre hanno sposato subito il passaggio al paralimpico?

Hanno capito la situazione e, invece di mettermi in ufficio, mi hanno detto di cogliere la possibilità. Ho già fatto un po’ di allenamenti con loro, mi è piaciuto. Ho fatto delle prove con Bernard, che a Parigi era con Plebani, e poi con Andreoli, che ha vinto il mondiale quest’estate con Di Felice. Non c’è niente di facile, perché il tempo nell’inseguimento è di circa 3’55”, bisogna spingere tanto. Per cui punto a Los Angeles, ma in un modo diverso.

Com’è stato vivere da vicino l’ultima Sei Giorni con Elia?

La prima volta a Gand ero in coppia con lui, per me è quasi come un fratello. Magari non ci pensavo che fosse l’ultima gara, ma continuavo a farglielo notare. «Vivi – gli dicevo – sei ore e per te finisce tutta quest’agonia. Beato te…». Lo sapevo già che avrebbe smesso così, anche se io, visto il ciclismo che c’è, gli avevo consigliato di accettare subito la proposta della FCI. Ma lui è una persona da ammirare, ha una testa incredibile. Nei giorni di Gand era sempre al telefono, tra meeting e interviste. Non sembrava neanche che fosse l’ultima gara, ma alla fine non credo che gli sia dispiaciuto troppo.

Sedici anni da professionista e 90 vittorie, questo il bottino finale dello stradista Viviani
Sedici anni da professionista e 90 vittorie, questo il bottino finale dello stradista Viviani
Sedici anni da professionista e 90 vittorie, questo il bottino finale dello stradista Viviani
Sedici anni da professionista e 90 vittorie, questo il bottino finale dello stradista Viviani
Perché dici così?

La cosa che ci ha detto finita la gara è stata che era riuscito a fare anche un bel discorso senza piangere. Eravamo nella cabina con Ganna e Consonni e gli abbiamo chiesto se gli dispiacesse e lui ha risposto di no. Il fatto di non aver pianto significa che non aveva alcun rimpianto. E’ convinto della scelta. Ha fatto un bel discorso. E se ci pensate, il finale della sua carriera è stato meglio di come chiunque lo avrebbe immaginato.

Mancherà?

Tutti parlano di Ganna e Milan. Pippo ha vinto e fatto numeri incredibili, è un pilastro. E’ stato quello che ci ha portato tutti all’oro del quartetto, non va dimenticato. Quando comincerà la qualificazione olimpica, compatibilmente con le squadre, rivedremo lui, Milan e anche Consonni. Ma penso che l’assenza di uno come Viviani si farà sentire. Poi è anche vero che lui ci sarà ancora, visto il suo nuovo ruolo.

Pensi che saprà fare bene il team manager?

Decisamente sì. Anche prima che gli venisse proposto l’incarico, già da 5-6 anni la mentalità di Elia è quella dell’imprenditore. Da quando ha aperto il negozio a Verona, lo vedi che ha una testa incredibile, non fa nulla a caso. Le maglie, la bici customizzata, ogni cosa ha dietro un ragionamento. Ha il controllo di ogni cosa, anche quando è dall’altra parte del mondo.

EDITORIALE / L’esempio di Benidorm e la parabola dei talenti

22.01.2024
5 min
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BENIDORM (Spagna) – Sedicimila persone a 18 euro ciascuna (i biglietti andavano da 14 a 20 euro) fanno 288 mila euro: questo è l’incasso stimato ieri per gli organizzatori della Coppa del mondo di ciclocross a Benidorm. In realtà potrebbe essere molto superiore, dato che nei 16.000 andrebbero considerati anche quelli che hanno riempito l’area VIP e Super VIP, i cui ingressi costavano fra i 75 e i 150 euro (ridotti per i bambini). In aggiunta, al conto vanno sommate le consumazioni, che passavano attraverso un braccialetto ricaricabile marcato Pissei. La coda davanti agli stand e le roulotte che vendevano birre e panini era interminabile. Non è difficile valutare che il totale superi abbondantemente i 300 mila euro.

A Benidorm si sono contati circa 16.000 paganti. Biglietti fra 14 e 20 euro, fino a 150 per l’area VIP
A Benidorm si sono contati circa 16.000 paganti. Biglietti fra 14 e 20 euro, fino a 150 per l’area VIP

Il ciclismo che si paga

C’era davvero un sacco di gente a tifare Van Aert e compagni, sfatando il luogo comune del ciclismo sport povero perché non ci sono biglietti da vendere. In realtà i biglietti ci sarebbero, quello che manca è la capacità di immaginare uno sport che oltre ad essere spettacolare, sia anche redditizio. Nei giorni del cross, Benidorm e i suoi hotel si sono riempiti di gente proveniente da ogni angolo di Spagna e d’Europa, soprattutto dal Nord. L’indotto per le strutture ricettive non è quantificabile.

A Gand, per la Sei Giorni che si è svolta lo scorso novembre nel velodromo Kuipke e accoglie ogni sera circa 6.000 persone (3.000 sugli spalti e altrettanti nel parterre ancora più pieno), i biglietti andavano da 27 a 45 euro a serata, fino ai 145 del Vip Cafè Hospitality. A voi il piacere di fare il conto. Ugualmente in Belgio, ma per il Giro delle Fiandre, i Vip paganti sono davvero una folla (dalla colazione all’arrivo passando per il Qwaremont) e pagano prezzi da mille e una notte.

Se un evento richiama migliaia di persone diventa più appetibile anche per gli sponsor, questo è abbastanza chiaro anche per chi di economia mastica ben poco.

Il velodromo di Gand accoglie ogni sera circa 6.000 persone, con biglietti da 27 a 45 euro, più zone VIP
Il velodromo di Gand accoglie ogni sera circa 6.000 persone, con biglietti da 27 a 45 euro, più zone VIP

Il ciclismo nelle città

Si tratta di esempi piuttosto elementari per dimostrare altrettanti aspetti che meriterebbero qualche riflessione aggiuntiva.

La prima è la conferma che il ciclismo, portato nel centro delle città, ha un appeal ancora intatto. Va benissimo la Coppa del mondo a Vermiglio, ma vogliamo mettere la risonanza che avrebbe un cross internazionale a Villa Borghese o al Circo Massimo, in un weekend di ordinario turismo a Roma? Oppure nel centro di Milano o di Verona?

La seconda rende palese quale potrebbe essere il ritorno economico di un movimento fiorente come quello della nostra pista, se solo qualcuno avesse la capacità di guardare oltre la punta del naso. L’Italia è protagonista di mondiali e Olimpiadi, ma non ha un evento per mettere in mostra i suoi gioielli.

Il terzo fa capire che agli organizzatori delle corse su strada basterebbe un pizzico di inventiva per allestire delle zone hospitality nei punti cruciali, smettendo di nascondersi dietro il paravento del “si è sempre fatto così”. Il problema non è pagare. Il problema è pagare senza avere qualcosa di indimenticabile.

Pidcock e i bambini. Quale altro sport consente l’accesso diretto ai campioni? (foto Yago Urrutia)
Pidcock e i bambini. Quale altro sport consente l’accesso diretto ai campioni? (foto Yago Urrutia)

La Sei Giorni di Milano

Anni fa furono quasi 30 mila i tifosi che presero d’assedio la Montagnetta di San Siro per vedere Paola Pezzo e Miguel Martinez gareggiare sulla mountain bike. E furono moltissimi anche i tifosi che nel 1995 si ritrovarono a Villa Ada, nel cuore di Roma, per la prova di Coppa del mondo di mountain bike vinta da Luca Bramati. Mentre il Superprestige di ciclocross faceva tappa fissa nel parco dell’ospedale Spallanzani, meglio noto di recente per aver… ospitato i primi due cinesi presunti portatori del Covid in Italia. Non c’è più nulla.

Tagliamo subito la testa al toro: non si può fare una Sei Giorni a Montichiari. E’ lontana, richiede un viaggio e per questo non attira curiosi. Se invece si prendesse un capannone della vecchia Fiera di Milano o addirittura il Forum di Assago, si affittasse una pista e la si montasse al suo interno, ecco che rinascerebbe la Sei Giorni tante volte promessa e mai mantenuta.

Questa immagine del 1984 ricorda come fosse la Sei Giorni di Milano, con il palazzo sempre pieno
Questa immagine del 1984 ricorda come fosse la Sei Giorni di Milano, con il palazzo sempre pieno

La parabola dei talenti

Chi potrebbe farlo? Se non ci arriva per scelta o intuizione RCS Sport e non ci arrivano per potenza economica le altre società sportive (ovviamente tutto ciò ha un costo), potrebbero farlo gli organizzatori di grandi eventi e concerti. Quelli che campano di biglietti e merchandising. Gli andrebbe proposto e questo potrebbe farlo la Federazione, che ne ricaverebbe un interessante utile.

Sarà forse perché piace la sua concretezza, sarà perché sa muoversi, ma sono tanti quelli che pensano che Cassani la Sei Giorni a Milano l’avrebbe riportata davvero. Lo aveva promesso. Così come a un certo punto si è messo in testa di portare il Tour de France in Italia e ha trovato gli alleati per farlo.

Fare: il verbo è proprio questo. La differenza vera fra lo spettacolo di Benidorm, il gigantismo belga e la nostra dimensione così accorta da sembrare stantia sta proprio nella capacità di immaginare, progettare, rischiare e poi fare. Si segue da decenni un copione identico, si spremono gli sponsor, si va in cerca di contributi pubblici e non si inventa nulla. Un po’ come nella parabola dei talenti, il ciclismo in Italia in tanti casi è gestito da chi ha sotterrato la moneta senza valutare più di tanto la possibilità di guadagnarne altre. Sappiamo tutti come finì con i tre servi del Vangelo di Matteo?

Nel nome del padre: Christophe Sercu parla di papà Patrick

26.11.2023
6 min
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Patrick Sercu è stato un gigante della pista e un grande anche della strada. E alla sua epoca, la seconda metà degli anni ’60 e ’70, non era facile finire sulle prime pagine avendo fra i propri connazionali campioni come Merckx e De Vlaeminck, eppure Sercu ci riusciva. E ci riusciva soprattutto in pista e passando dalle Sei Giorni, di cui è tutt’oggi il Re. Il Re delle Sei Giorni: ne ha vinte ben 88.

Christophe Sercu è suo figlio. Oggi cinquantenne, è cresciuto a pane e ciclismo, e raccoglie l’eredità del papà. E’ infatti l’organizzatore della Sei Giorni di Gand, nonché il team manager del Team Flanders-Baloise, squadra professional che lavora molto con i giovani.

Christophe, partiamo dalla Sei Giorni di Gand, ormai l’unica vera Sei Giorni: qual è il segreto?

Questo ci fa piacere, ma purtroppo è l’ultima vera Sei Giorni perché l’unica altra rimasta è quella di Rotterdam. Posso solo dire: speriamo bene per il futuro. Qual è il segreto di questa? Un insieme di cose: la sua vitalità, la sua tradizione, un buon pubblico, un’organizzazione collaudata e degli ottimi corridori.

La corsa gioca ancora un ruolo centrale qui?

Direi di sì, anche per questo la gente rimane fino a tardi. Qui si incontrano amici, ci si beve una birra e si guardano le gare: abbiamo un buon equilibrio tra tutto questo e penso che sia il segreto del nostro successo.

Il ciclismo è un affare di famiglia per lei. E’ stato naturale prendere l’eredità di suo padre?

Mio papà ha sempre corso qui. Qui ha avuto successo come corridore, prima, e come organizzatore poi. Io, che gli sono sempre stato vicino, di fatto sono dentro questa organizzazione da 40 anni, da quando ero un bambino, quindi ben prima della malattia e poi della morte di mio padre (avvenuta nel 2019, ndr). Abbiamo continuato a lavorare allo stesso modo, ma abbiamo anche modernizzato il tutto. Credo che si debba andare di pari passo col proprio tempo, ma anche rispettare le tradizioni.

Ha citato suo padre, iniziamo a parlare di lui, di Patrick. Qual è il ricordo ciclistico più importante che ha?

Oh, non è facile dirlo! Ne ho moltissimi, ma sono anche lontani. Avevo 12-13 anni quando lui ha smesso di correre, ci dovrei pensare un bel po’. Però c’è una foto a casa che vedo spesso ed è un bellissimo scatto della sua ultima Sei Giorni di Milano ed io ero lì con lui. Questa foto ci ritrae da dietro, mentre lasciavamo la pista. E lui mi mette un braccio sulle spalle. Un bel ricordo. Simbolico.

Le ultime apparizioni di Patrick Sercu su pista risalgono al 1982
Le ultime apparizioni di Patrick Sercu su pista risalgono al 1982
Tra le Sei Giorni d’inverno e la strada nel resto della stagione, non era molto presente a casa suo padre… Cosa ricorda di quel tempo?

In effetti mancava moltissimo, ci sono state stagioni in cui ha fatto anche più di 200 giorni di competizione in un anno. Lo vedevamo poco, ma cercava di essere presente lo stesso.

Sentirsi non era facile come oggi? Come facevate?

Eh sì – sorride Sercu – in effetti era un bel problema. Ricordo che si doveva prendere appuntamento, quando era all’estero. Dovevi farti passare una linea dall’operatore per quel giorno a quell’ora. Si pagava un bel po’ e si aveva a disposizione un certo numero di minuti.

Immaginiamo che in casa vostra ci sia stato un certo via vai di campioni…

Ne ricordo molti, ma non erano solo corridori quelli che venivano a casa. Erano dei buoni amici. Penso ad Eddy (Merckx, ndr), a Roger (De Vlaeminck, ndr), a Martin Van Den Bossche. Però quando sei piccolo non hai la sensazione di avere di fronte dei campioni di quel calibro.

Suo papà ha corso con grandi corridori ce n’è qualcuno con cui era più legato?

Difficile dire questo o quello. Diciamo che in gruppo aveva molti amici.

Cambiava la sua personalità, il suo carattere, quando era in bici e quando invece era a casa?

Un po’ penso di sì, come tutti i corridori del resto. Ma per quel che mi riguarda lui era lo stesso, il suo carattere non cambiava una volta giù dalla bici. Era sempre una persona civile. Dire che in bici era aggressivo non è la parola giusta forse, ma di certo era molto motivato. 

Due miti in una foto: Eddy Merckx e Patrick Sercu
Due miti in una foto: Eddy Merckx e Patrick Sercu
E tra strada e pista? C’era più agonismo in lui sul parquet… visto il suo palmares?

No, no… Strada o pista era sempre molto determinato. Un grande corridore è sempre professionale.

Quando eravate a casa parlavate mai di ciclismo?

Sì, certo. Si parlava di gare. Successivamente è diventato cittì della squadra nazionale, poi ancora capo dell’organizzazione di questa Sei Giorni. Ma in generale ho avuto l’opportunità di viaggiare molto con lui dopo la sua carriera e il ciclismo c’è sempre stato in tutti noi.

Rispetto ai tempi di suo padre in cosa sono più cambiate le Sei Giorni?

Credo nell’americana. In passato queste corse erano più lunghe. Chi faceva questa specialità era davvero bravo. Alla fine si facevano 200 chilometri al giorno in pista. Si facevano anche altre gare, come quella a cronometro, ma bisognava fare i conti con le mode, con le richieste. E queste erano americane, americane, americane… Poi man mano le cose sono cambiate. Prima s’iniziava alle sei del pomeriggio e si finiva alle tre, anche le quattro di notte. Ora tutto è più corto, ci sono altre tempistiche e altri interessi.

Su strada, Sercu ha ottenuto la sua prima vittoria in Italia: l’ultima tappa della Tirreno del 1969
Su strada, Sercu ha ottenuto la sua prima vittoria in Italia: l’ultima tappa della Tirreno del 1969

Sercu e l’Italia

Patrick Sercu dunque è stato un grande, un gigante del ciclismo belga. E lì non è facile stare tra i giganti. Su pista ha vinto un’Olimpiade (Tokyo 1964) nel chilometro da fermo, 88 Sei Giorni come detto, ma anche tre titoli iridati e una trentina di campionati nazionali.

E anche su strada ha un palmares importantissimo, tanto più che ha corso spesso in supporto di Eddy Merckx. Patrick Sercu era un velocista chiaramente viste le sue doti in pista. Pensate: 13 tappe al Giro d’Italia, sei al Tour con tanto di maglia verde nel 1974.

Prima di congedarci, giusto ricordando questi numeri lo stesso Christophe, con un grande ed onorato sorriso ha aggiunto: «Quanto tempo ha passato mio papà in Italia. Ci ha corso molto: Faema, Brooklyn e anche se era belga nella Fiat… considerava l’Italia la sua seconda casa. Veramente. Lo diceva spesso».

Alla “scoperta” del derny. La tattica sul filo dei 70 all’ora

23.11.2023
5 min
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Alla Sei Giorni di Gand abbiamo avuto l’occasione di “riscoprire” e ammirare da vicino il derny, sia la specialità, sia la moto-bici da cui prende il nome la specialità stessa. Il pistard si mette a ruota del pilota e via di corsa per tutta la gara (in apertura foto Sei Giorni Lotto Flanders).

Il derny entra in scena anche alle Olimpiadi per il Keirin, l’unica specialità che prevede l’utilizzo di un mezzo motorizzato in tutto il programma dei Giochi. Chiaramente i mezzi devono rispondere a canoni ristrettissimi di prestazioni ed utilizzo. Insomma si è voluto eliminare la variabile relativa al mezzo tecnico.

Al Kuipke le curve strette schiacciavano moltissimo. Si toccavano i 70 all’ora (foto Sei Giorni Lotto Flanders)
Al Kuipke le curve strette schiacciavano moltissimo. Si toccavano i 70 all’ora (foto Sei Giorni Lotto Flanders)

Velocità e tattica

A Gand il derny era una delle specialità più dure per le caratteristiche della pista: corta (166,66 metri) e con curve super pendenti (52 gradi). Va da sé che una volta arrivati a centro curva e in uscita, gli atleti erano schiacciati moltissimo sulla bici, specie se si considera che si andava anche a 70 all’ora. Pertanto le manche del derny, anche in virtù del fatto che erano inserite all’interno di un programma serale molto fitto, erano ben più corte dei 25-40 chilometri previsti dal regolamento UCI.

L’andatura impostata in partenza iniziava dai 40 all’ora e man mano saliva. Per questa sfida i pistard montavano i rapporti più lunghi dell’intera kermesse. L’olandese Havik per esempio utilizzava un 58×15 che, ci dicono, essere bello lungo sullo specifico anello fiammingo. Ma d’altra parte le velocità finali erano altissime.

Un po’ moto, un po’ bici

Il derny prende il nome dalla moto stessa, Derny appunto, un marchio francese che nacque nei primi decenni del 1900. Era una “moto leggera”, in pratica su un telaio di bici più robusto veniva installato un motore che era agevolato dalla spinta dei pedali. All’inizio vi furono organizzate gare specifiche su strada. Cera una cronoscalata del Ventoux, per dire. E sempre il derny era uno dei simboli della mitica Bordeaux-Parigi, che tra l’altro ritornerà il prossimo anno.

A parte qualche apparizione sporadica, l’arrivo su pista avvenne nel dopoguerra, nel 1948 in Giappone. E non è un caso che negli anni molti corridori di livello fossero del Sol Levante. Ma anche l’Italia con Guido Bontempi, Claudio Golinelli e Ottavio Dazzan ha avuto interpreti di assoluto valore.

La foto di rito dopo le manche del derny, spesso vinte da Van den Bossche (in foto) o dal compagno Jules Hesters
La foto di rito dopo le manche del derny, spesso vinte da Van den Bossche (in foto) o dal compagno Jules Hesters

Il pilota conta

A Gand i derny erano a motore termico. Oggi nei velodromi e ai Giochi sono elettrici, ma il concetto di velocità che va ad aumentare gradualmente resta lo stesso.

«E’ l’atleta che decide il passo – ci ha detto Michele Scartezzinise dice “Op” il pilota deve calare un po’, se dice “Alè” deve aumentare. E’ una gara molto tattica, si dice sempre che non si parte forte ma poi si aumenta più rapidamente di quel che sembra. Conta molto anche la sensibilità del pilota, che in certe fasi almeno deve essere bravo a non strappare».

Tuttavia quest’ultima affermazione non ha più valenza sui derny di ultimissima generazione. Questi infatti sono elettrici e controllati da remoto per l’aumento della velocità così da annullare la variabile relativa al pilota.

Nelle Sei Giorni però si resta fedeli alla vecchia linea, come ci ha detto uno dei piloti del Kuipke: «I corridori preferiscono questo tipo di derny e non quello elettrico, perché sentono il rumore che li aiuta a regolarsi. Riescono a capire meglio i distacchi. E, cosa non secondaria, il rumore del motore che sale di giri fa salire l’adrenalina».

E questo è verissimo, anche noi la prima sera siamo stati rapiti da questo crescendo motorizzato.

Il pilota gioisce per la vittoria di Lindsay De Vylder da lui guidato (foto Sei Giorni Lotto Flanders)
Il pilota gioisce per la vittoria di Lindsay De Vylder da lui guidato (foto Sei Giorni Lotto Flanders)

Come funziona?

Vince chi, al termine dei giri stabiliti, taglia per primo il traguardo. Il regolamento dice che la moto non va superata, ma bisogna fare un distinguo. Ci sono infatti delle varianti. Nelle prove ufficiali, mondiali, Olimpiadi… il pilota, unico per i finalisti, si sposta a 750 metri dall’arrivo: è questa appunto la specialità del Keirin, riservata ai velocisti. Nelle Sei Giorni invece il derny resta in pista fino alla fine e di fatto è parte integrante delle sfide.

Anzi, il pilota tante volte è più coinvolto dell’atleta stesso. Almeno così ci è sembrato a Gand. Quando vincevano urlavano più i piloti che i corridori! Ma ci sta, in fin dei conti il saper valutare le distanze per le rimonte, le velocità e gli spazi soprattutto è anche merito loro.

«Sembra facile ma non è così – ha detto Ron Zijlaard, uno dei piloti più esperti – anche noi dobbiamo prendere confidenza con la pista. Arriviamo un giorno prima per girare un po’. E’ importante che l’atleta si senta in una zona comfort, a suo agio.

«Noi che guidiamo dobbiamo essere anche in grado di capire gli altri. Se si muovono molto sulla bici allora si può attaccare. Dobbiamo sederci bene per fargli prendere meno aria possibile. E’ anche importante non stare nelle turbolenze di chi è davanti». Insomma c’è più tattica di quel che si possa immaginare.

Nella pancia e nella storia del Kuipke, il tempio delle Sei Giorni

16.11.2023
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GAND (Belgio) – Il Kuipke si trova nel centro della città, di preciso all’interno del Parco Cittadella, in questo momento un tappeto di foglie gialle a terra. Apparentemente sembra uno stabile come gli altri. Difficile dire che le sue alte vetrate custodiscano uno dei velodromi più prestigiosi e storici d’Europa.

Oltre 100 anni

Il Kuipke è stato costruito nel 1913, ma non era come adesso e neanche nello stesso punto. Si trattava di una pista ciclabile, un anello di 210 metri, ricavato all’interno del Palazzo Floreale, ma sempre nel Parco Cittadella. Nel 1922 viene realizzato il velodromo, smontabile, come oggi del resto. Quello definitivo risale agli ’60. La sua particolarità è di essere molto corto, 166,66 metri, e per questo è considerato super tecnico.

Sempre al 1922 risale la prima Sei Giorni di Gand, da allora è un vero monumento. Merito soprattutto delle mitiche edizioni in cui potevi vedere girare negli anni Buysse, Van Steenbergen, Ockers, Terruzzi, Merckx, De Vlaeminck, Sercu… fino ad arrivare a Villa, Martinello, Wiggins, Cavendish, Viviani.

Gand resiste

Oggi il Kuipke ospita quella che da molti è ritenuta l’ultima vera Sei Giorni. Non ci aspettavamo di vedere tanta gente e soprattutto tanto coinvolta. Una festa continua. Una gran voglia di partecipare a quello che, in qualche modo, diventa anche un evento mondano per la città.

Battiti alti: parola d’ordine sia per chi è sul parquet, sia per chi vive le emozioni della corsa sugli spalti e intorno.

Dal momento in cui si varcano le porte del Kuipke si entra in un altro mondo. Il mondo del ciclismo. S’inizia dal tardo pomeriggio con gli under 23 e si tira fino all’una di notte. Man mano che si svuotano gli uffici, si riempiono gli spalti e lo spazio al centro della pista. E’ qui che si fa “casino”. Sembra che stare lì senza una birra sia vietato!

Oltre la corsa

Ed è qui che stazionano anche i tifosi più caldi. Martinello ci aveva avvertito che il pubblico locale si sarebbe fatto sentire, specie con i propri beniamini: bè, ne abbiamo avuto la prova! Cori, balli e calici in alto soprattutto per Jules Hesters e Fabio Van den Bossche, entrambi di Gand.

Tutto è in movimento e in fermento. Gli atleti che girano in pista. I massaggiatori che sistemano le cabine all’interno del catino, preparano i sali o fanno il bucato. Sì, avete capito bene. I corridori si cambiano almeno un paio di volte in questa giostra continua e accanto alle cabine ci sono delle piccole lavatrici-asciugatrici.

Il pubblico intanto si muove. Le sedie sono occupate, ma intorno e nei tunnel per accedere al centro del velodromo è un brulicare continuo.

Il bar di Keisse

E la festa è anche fuori. A 200 metri dal Kuipke c’è un bar, che bisogna visitare. E’ il De Karper ed è della famiglia di Keisse. Lo gestisce il papà di Iljo. Lo scorso anno proprio sulla pista di casa il corridore della Deceuninck-Quick Step diede l’addio alla carriera. Fu omaggiato da città, tifosi e corridori. Un altro momento storico per il velodromo. 

Alle pareti e sul soffitto del bar ci sono foto e maglie. E c’è anche un pezzetto di Giro d’Italia. La bottiglia del 2015 quando Keisse vinse una tappa.

In molti passano lì per una birra (la scelta è immensa) prima di entrare al velodromo. Si respira ciclismo. Di solito ci sono gli irish pub, questo è un “belgian pub” e anziché i San Patrizio alle pareti, si venerano le bici!

Spirito invariato

Qualcuno ci ha detto che le Sei Giorni di una volta non ci sono più. Ma una cosa semplice quanto bella ce la dice Fabio Masotti, oggi tecnico della Fci ed ex pistard. «Vedete – ci spiega – oggi è cambiato tutto. Materiali, corse più brevi… ma lo spirito è lo stesso e certe cose come le cabine nella pista (foto di apertura, ndr) sono identiche a quelle di un tempo».

Intanto, mentre scriviamo, il velodromo si è riempito anche stasera. La musica è alta. L’interno della pista è pieno. Si fa festa. Il dj riesce persino a far fare la hola ai corridori mentre sono in corsa. E il Kuipke ti entra dentro.

Gand in vista: Martinello ci porta nel mondo delle Sei Giorni

09.11.2023
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La Sei Giorni di Gand della prossima settimana apre la stagione invernale dei velodromi. E’ un mondo tutto da scoprire, nel quale ci accompagna un vero esperto: Silvio Martinello. Oggi in realtà le Sei Giorni non se la passano benissimo, non c’è più un calendario vero e proprio. Ne sono rimaste poche e l’unica di un certo livello è proprio quella belga, che si terrà dal 14 al 17 novembre. Ma il format resta quello. Divertimento, gare, testa a testa, spettacolo.

Tra presente e passato, il campione olimpico su pista di Atlanta 1996, che di Sei Giorni ne ha vinte 28 (tre più del mitico Nando Terruzzi), ci introduce nei meandri di queste splendide kermesse sul parquet. Si evocano, a volte quasi con un filo di emozione, amici e ricordi.

Gand resiste

«Attualmente – va avanti il padovano – di Sei giorni di livello c’è solo Gand, anche Berlino è stata portata a tre giorni e Rotterdam è stata ridotta. Ci sono sempre degli ottimi corridori, ma non del livello che c’era un volta. Gand è un ambiente caldo. Conosciamo bene la tradizione ciclistica di quelle zone, sia su strada che su pista».

E il motivo per cui le Sei Giorni sono calate è sostanzialmente economico. Non è un motivo di calendario, dovuto magari anche all’avvento della Track Champions League. Villa stesso ci ha detto che avrebbero ancora la loro valenza, ma che manca il tempo per farle.

«Se avessero l’impatto di un tempo i corridori andrebbero alle Sei Giorni e non lì, ve lo assicuro. Marco Villa ha fatto una valutazione tecnica, giustamente. Ma in una sei Giorni non c’è solo l’aspetto agonistico. C’è anche quello del business. Viene da chiedersi perché sia diminuito l’interesse. Io credo per i costi: il solo affitto del velodromo per dieci giorni, tra allestimento, gare e riconsegna, è altissimo.

«Le Sei Giorni più importanti erano tutte o quasi tedesche: Berlino, Monaco, Stoccarda, Brema, Colonia, Dortmund… ognuna aveva una sua peculiarità. A Monaco il pubblico era competente e prevaleva la parte tecnico-agonistica, a Brema quello della festa. Indirettamente hanno pagato i problemi di doping che hanno avuto in Germania all’inizio degli anni 2000 e successivamente la maggiore difficoltà a reperire sponsor(specie dopo la crisi finanziaria del 2008, ndr). Una volta i corridori – e non solo loro – erano molto interessati a parteciparvi, gli ingaggi erano davvero buoni. Lo dico senza problemi».

Il derny, una delle specialità che in una Sei Giorni proprio non può mancare
Il derny, una delle specialità che in una Sei Giorni proprio non può mancare

Tutto diverso

E allora oggi chi vedremo in pista? Chi sono e come vengono formate le coppie? Secondo Martinello i metodi con cui vengono allestite le coppie è quello di un tempo, ma cambiano gli interpreti. Una volta c’erano i grandi campioni e gli organizzatori si affidavano a quelli per richiamare il pubblico e rientrare delle spese. Adesso i corridori sono sempre abili, ma hanno un appeal più locale.

«Di grandi coppie attuali – riprende Martinello – non ce ne sono, per il semplice fatto che non ci sono più le Sei Giorni. L’organizzatore pertanto ingaggia gli atleti e forma le coppie secondo criteri tecnici, ma anche di appeal. E allora si punta sull’appeal locale, dai parenti ai tifosi, e in Belgio è ancora buono. In generale oggi si punta più sui giovani e di sicuro vedremo ottime prestazioni. Andranno forte».

Villa e Martinello, indimenticabili

A questo punto si fa un passo indietro. Si parla di vecchie coppie e Martinello sfoggia, ricorda e inanella emozioni. Mostra di fatto che la pista “è casa sua”. Lui e Marco Villa negli anni ’90 soprattutto ci hanno fatto divertire. Chi scrive, per esempio, all’epoca era un adolescente e ricorda la mamma che dall’altra stanza diceva: «Spegni la tv». Ma quelle nottate a godersi i duelli Villa-Martinello contro Risi-Betschart restano indelebili.

«Io e Marco – racconta Martinello – abbiamo rappresentato una bella fetta delle Sei Giorni. E parlano i numeri. Ne abbiamo vinte 16. Prima di noi in Italia c’erano stati Ferdinando Terruzzi e Severino Rigoni, ma parliamo degli anni ’50-’60. Sin lì eravamo sempre rimasti in seconda linea».

«Le Sei Giorni erano in Germania e, soprattutto dopo il mio titolo olimpico, mi chiamavano nelle principali gare tedesche… e non solo. Non essendo tedesco, a volte ho avuto ingaggi importanti anche con altri compagni. Ho corso con il povero Kappes, con Zabel, con Aldag… ».

Due miti in una foto: Eddy Merckx e Patrick Sercu
Due miti in una foto: Eddy Merckx e Patrick Sercu

C’era persino Merckx

Ma certo i duelli storici erano quelli con gli svizzeri Risi-Betschart, due grandissimi interpreti secondo Silvio. E poi il fatto che erano di madrelingua tedesca li avvicinava molto al pubblico della Germania. 

«Fu un dualismo importante, grande. Ci fu anche l’idea di farmi correre con Risi, ma poi non si concretizzò».

Altre coppie del passato sono state formate da stradisti e pistard. Lo stesso Martinello ha corso anche con Bjarne Riis, dopo che aveva vinto il Tour.

In passato, forse, la coppia delle coppie fu Patrick Sercu ed Eddy Merckx, neanche a dirlo: entrambi belgi.

«Ricordo – conclude Martinello – aneddoti divertenti di Sercu quando raccontava le sue Sei Giorni con il Cannibale. Diceva che Merckx voleva fare come su strada. Sapete che in pista basta un giro per vincere? Ebbene, Eddy voleva vincere con minuti di distacco anche sul parquet, non gli bastava “solo” il giro».