Italia, Francia e Spagna: le grandi salite a confronto

22.08.2024
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La salite hanno sempre un certo fascino nel mondo del ciclismo. La maggior parte del pubblico, specie quello non abituale, associa la bici e i campioni alle montagne, alle Alpi soprattutto. Chi va in bici sa bene che le salite possono essere diversissime tra loro. Non si tratta solo di pendenze, ma c’è tanto altro a caratterizzarle. Fattori esterni, vedi il vento, la tipologia di gara, che solo un esperto può cogliere.

Giro d’Italia e Tour de France sono alle spalle, mentre la Vuelta si sta correndo proprio in questi giorni. Ognuno dei tre grandi Giri propone scalate e gruppi montuosi diversi. Per conoscerli meglio ne parliamo con chi di salite e grandi corse a tappe se ne intende, Stefano Garzelli.

Pantani e Garzelli sullo Zoncolan. Entrambi sono legatissimi, in modo diverso, anche al Mortirolo
Pantani e Garzelli sullo Zoncolan. Entrambi sono legatissimi, in modo diverso, anche al Mortirolo
Stefano, in onore alla Vuelta che si sta correndo, iniziamo a parlare dei Pirenei…

Tra le grandi catene montuose sono, mediamente, più facili. Più facili rispetto alle salite italiane e a quelle più note delle Alpi. Ma attenzione, comunque non ti regalano niente. Le salite dei Pirenei in generale sono abbastanza costanti, non presentano grosse pendenze e per questo sono abbordabili. Anche se i puertos dei Pirenei francesi, che tecnicamente non sono diversi da quelli spagnoli, con il caldo e il ritmo del Tour de France diventano selettivi.

Passiamo in Italia. 

Ne abbiamo molte, ma le prime che mi vengono in mente sono le Dolomiti, però anche nomi come Gavia, Stelvio, Mortirolo, Zoncolan: tutte queste sono le più difficili, anche tecnicamente. A volte sono strette, chi deve fare classifica cerca di prenderle in testa. Lo Zoncolan per 10 chilometri non scende quasi mai sotto al 15 per cento (e ha punte del 22 per cento da una parte e del 23 dall’altra, ndr). L’Italia ha davvero salite di tutti i tipi e tutte sono bellissime e impegnative. E per questo il Giro è la corsa più dura del mondo.

Visto che ci siamo parliamo degli Appennini, allora. Cosa ci dici di queste scalate?

Una catena montuosa tanto lunga, quanto variegate sono le sue salite. Le prime scalate appenniniche a cui penso sono il San Pellegrino in Alpe, il Terminillo, dove ho anche vinto, l’Abetone. Già queste tre sono molto differenti tra loro. Il San Pellegrino in Alpe è duro, mentre una scalata come Terminillo se fatta ad alto ritmo può fare male e selezione. 

Ad eccezione di alcune scalate, la strade alpine francesi sono ampie e pedalabili. Sono progettate così secondo le vecchie indicazioni di Napoleone, che voleva srade accessibili per gli eserciti. Qui il Lautaret
Ad eccezione di alcune scalate, la strade alpine francesi sono ampie e pedalabili. Sono progettate così secondo le vecchie indicazioni di Napoleone, che voleva srade accessibili per gli eserciti. Qui il Lautaret
La tua scalata appenninica preferita?

Direi il San Pellegrino in Alpe: particolare e anche a livello paesaggistico mi ricorda un po’ una salita alpina.

Andiamo in Francia, sulle Alpi…

Queste sono salite storiche. Le salite del Tour de France. Penso alla Bonette che dall’alto dei suoi 2.802 metri propone un paesaggio fantastico. Rispetto alle scalate alpine italiane, specie quelle dolomitiche, non hanno pendenze proibitive. Anche se alcune sono dure, vedi l’Izoard, il Galibier, l’Alpe d’Huez… Sono dure non tanto per le pendenze, ma perché non danno respiro. Alcune invece sono velocissime: Les Arc, la Rosiere, Isola 2000… sono salite al 6-7 per cento sulle quali oggi si va su con il 54. Merito anche delle nuove cassette posteriori che ti consentono di girare bene un 54×28. Un rapporto così ti fa fare tanta velocità.

Vosgi e Massiccio Centrale. Cosa ci dici?

Per certi aspetti, quelli tecnici almeno, mi ricordano un po’ gli Appennini, soprattutto i Vosgi anche se forse in media sono salite un po’ più corte. Salite che al massimo arrivano a 10 chilometri. Di solito hanno pendenze costanti e sono, sempre facendo un paragone con gli Appennini, molto più verdi sul piano del paesaggio. Non vorrei però dimenticare il Mont Ventoux…

Secondo Garzelli, i Vosgi e il Massiccio Centrale francese sono paragonabili ai nostri Appennini
Secondo Garzelli, i Vosgi e il Massiccio Centrale francese sono paragonabili ai nostri Appennini
Giusto: il Gigante di Provenza, che però non fa parte di nessun gruppo montuoso.

Premetto che non l’ho mai fatto in bici. Né da corridore, quando ho fatto il Tour non era mai stato inserito nel percorso, e neanche da commentatore Rai. Infatti per motivi logistici il compound è sempre montato in basso. Però questa salita andava menzionata. Una particolarità assoluta: lunga, impegnativa ma soprattutto spoglia, nuda. E’ affascinante.

Insomma dovrai farla prima o poi! Chiudiamo con la “tua” Spagna. Ci sono molte altre montagne oltre ai Pirenei…

Tante e non solo nella terra ferma. La Spagna ha le salite anche sulle isole, Gran Canaria (con il Pico de la Nieve, ndr), Tenerife dove c’è il Teide. Questa salita con i suoi quattro versanti è una magia. Ha tutto quello che serve: distanza, varie pendenze, quota… per me è il posto migliore per allenarsi. Lì davvero riesci a trovare la concentrazione giusta. Il Teide va vissuto.

E nella Spagna vera e propria?

Altre salite sono poi nella zona a Sud della Spagna, quella di Granada. Lì c’è il grande massiccio della Sierra Nevada. In teoria si può arrivare in bici fino a 2.850 metri, ma gli ultimi 10 chilometri sono sterrati. Anche in quella zona ci sono tante salite. Sono quasi tutte lunghe, perché partono da molto in basso, ma non sono quasi mai pendenti. Le strade sono anche piuttosto larghe e sono regolari.

Il Teide è un vero paradiso per allenarsi. Anche se non ci sono gare è comunque a pieno titolo una salita dei grandi campioni
Il Teide è un vero paradiso per allenarsi. Anche se non ci sono gare è comunque a pieno titolo una salita dei grandi campioni
Ma non sono finite le salite spagnole, giusto?

C’è la Nava Cerrada, vale a dire le montagne nei dintorni di Madrid, in pratica le salite di Alberto Contador. Sono abbastanza lunghe e regolari, molto stile Tour, vanno su al 7-8 per cento. E poi ci sono le scalate delle Asturie e queste sono le più dure di tutta la Spagna. Sono scalate lunghe, ma non lunghissime. Molte sono irregolari e quasi tutte hanno pendenze in doppia cifra. Sono salite paragonabili al nostro Mortirolo.

Qualche nome?

Quelle famose della Vuelta e che tanto le hanno dato: Angliru, Lagos de Covadonga, Pico del Buitre. Sono scalate di 10 massimo 15 chilometri, su strade strette spesso anche scoperte al sole e al vento. E con pendenze micidiali (anche oltre il 25 per cento, ndr).

Nelle Asturie scalate molto dure. Qui i Lagos de Covadonga (foto queverenasturias)
Nelle Asturie scalate molto dure. Qui i Lagos de Covadonga (foto queverenasturias)
Stefano, quali sono le tue salite preferite per ognuna delle tre Nazioni dei grandi Giri?

In Francia il Galibier, perché oltre che affascinante di suo ho anche un bel ricordo. Transitai per primo da solo nel 2003 e vinsi il premio Henri Desgrange. In Spagna direi i Lagos de Covadonga: non ci ho mai corso, ma nei tre anni in cui ho collaborato con l’organizzazione della Vuelta ogni volta che si arrivava lassù restavo a bocca aperta con tutti questi laghi che ti si aprono una volta terminata la salita. Davvero bello. 

Resta l’Italia…

In Italia il Mortirolo – risponde senza indugio Garzelli – perché è una grande salita e perché è quella dedicata a Pantani. E’ lì che Marco staccò Indurain e quelle per me sono immagini e ricordi da giovane. Pensate che qui in Spagna, dove vivo, se a qualche cicloamatore chiedi delle salite italiane ti dice subito: “Mortirolo”. E’ amatissimo.

“Doppietta” Tour-Vuelta, ora Bernal punta al 2024

22.09.2023
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Sulle strade di Tour de France e Vuelta, in qualche caso sovrapposte, è tornato a pedalare Egan Bernal. Il corridore della Ineos Grenadiers ha portato a termine la sua personale “doppietta”: 42 giorni di corsa in due mesi, non poco considerando da dove partiva e dalla condizione dimostrata. Il colombiano è tornato ad assaporare l’aria dei grandi eventi e questo non può che fargli bene, donandogli nuove aspettative. 

Di questo parliamo con Matteo Tosatto, suo diesse nel team britannico. Lo intercettiamo in uno dei momenti di vita quotidiana, mentre ha accompagnato la figlia a nuoto. Seduto al bar beve un caffè e risponde alle nostre domande. 

Il Tour per Bernal è stato un passaggio sulla strada del ritorno, l’importante era fare fatica
Il Tour per Bernal è stato un passaggio sulla strada del ritorno, l’importante era fare fatica

Due grandi fatiche

Mettere in fila due grandi corse a tappe è stato un bel modo per rispondere a tante domande. Senza nemmeno aver bisogno di sprecare tante parole, Bernal ha corso, si è messo in mostra e ha terminato entrambe le corse.

«Non l’ho seguito personalmente – racconta Tosatto – per scelte tecniche non ho seguito la squadra al Tour e alla Vuelta. Però in squadra, tra tecnici, ci sentiamo tutte le settimane. In più ci siamo confrontati anche con l’allenatore di Bernal. Quindi qualche dettaglio sulla sua condizione lo abbiamo».

Stare in gruppo e mettersi a disposizione dei compagni gli hanno permesso di crescere
Stare in gruppo e mettersi a disposizione dei compagni gli hanno permesso di crescere
Tornare al Tour era il primo obiettivo?

Sì. L’idea era di vederlo all’opera sulle strade della Grande Boucle e poi di trarre le prime conclusioni. In Francia il percorso era molto impegnativo, il fatto di averlo portato a termine ci ha dato una grande soddisfazione. Era importante tornare a queste corse, in vista del recupero totale. 

In corsa cosa doveva fare?

Nella prima settimana, quella corsa nei Paesi Baschi, doveva provare a restare con i migliori. Ha risposto bene, non si è scomposto e alla fine ha concesso solo qualche manciata di secondi. Un primo segnale positivo. 

Con il proseguire delle tappe è uscita la fatica, ma era preventivabile, no?

Assolutamente. Quello che mancava a Egan era mettere insieme tanti giorni di corsa e tanta fatica. Di chilometri ne ha fatti, si è messo a disposizione dei compagni e ha speso tante energie. Insomma, un bel modo di riprendere la mano con le corse importanti.

Eccolo alla Vuelta con la maglia di Santini dedicata alla solidarietà
Eccolo alla Vuelta con la maglia di Santini dedicata alla solidarietà
La Vuelta era già in programma o è arrivata dopo?

L’idea era di vedere come avrebbe finito il Tour e trarre le prime conclusioni. Una volta visto che la risposta di Bernal è stata positiva, la Vuelta è arrivata di conseguenza. Tra l’una e l’altra ha anche avuto modo di tornare a casa, in Colombia, e allenarsi in altura. 

Anche in Spagna era a disposizione di Thomas.

La Vuelta dal punto di vista della classifica non è andata come ci saremmo aspettati. Però ha risposto bene anche in quel caso, fin dalla cronometro a squadre di Barcellona. E’ rimasto con i compagni, un segnale positivo per noi e per lui. 

Alla Vuelta nell’ultima settimana è andato meglio…

E’ arrivato settimo in una tappa, la 18ª, quella vinta da Evenepoel, andando in fuga per 170 chilometri. Riuscire a fare uno sforzo del genere alla fine di un grande Giro è un bel segnale in vista del 2024.

Dopo il Tour è arrivata la convocazione alla Vuelta, un bel segnale
Dopo il Tour è arrivata la convocazione alla Vuelta, un bel segnale
Che cosa vi aspettate dalla prossima stagione?

Dall’inverno si avrà un’idea migliore di come sta e del lavoro che ci sarà da fare. Queste due corse a tappe ravvicinate servivano per aiutarlo a sopportare meglio la fatica e avere una migliore gestione dei recuperi. Ci si aspetta che più avanti nel tempo possa fare carichi di lavoro sempre più intensi. 

Potrà tornare a puntare ai grandi obiettivi?

Penso proprio di sì. Fare un inverno tranquillo, dove lavorare tanto e bene, sarà il primo obiettivo. Quando si programma la stagione rientrare bene è più semplice, basta focalizzarsi sugli obiettivi. 

Tornando al 2023, come lo hai visto pedalare?

Sereno. Stava in gruppo e spesso era davanti a tirare. Dalla televisione non si vedono tutti i dettagli, ma erano tutti contenti di lui. Non vale la pena stare a guardare i numeri e i risultati. 

Bernal tornerà a lottare per la maglia gialla al Tour?
Bernal tornerà a lottare per la maglia gialla al Tour?
Le salite tra Spagna e Francia erano dure, un bel test per lui…

Sicuramente certi sforzi è meglio farli in gara che in allenamento. Mettersi in gruppo e seguire gli altri ti porta a fare più fatica, a mollare meno di testa. Questo finale di stagione gli servirà molto. 

Bernal che dice?

Abbiamo parlato con il suo allenatore. Era contento e soddisfatto. Si è visto un netto miglioramento nello sforzo e nei numeri. 

Correrà ancora?

Non sappiamo. Non credo farà le gare in Italia, c’è qualche corsa in Oriente, ma non credo parteciperà. La miglior cosa per lui è riposare e preparare il 2024.

El Diablo: «Il Santa Cristina? Nel 1994 lo sottovalutammo»

28.11.2021
4 min
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Entriamo sempre più nel dettaglio delle ormai tre famose salite più dure del Giro d’Italia numero 105. Dopo il Blockhaus con Cataldo è la volta del Santa Cristina con Claudio Chiappucci, per tutti El Diablo.

Il varesino affrontò questa scalata nella mitica tappa, Merano-Aprica del 1994, che suggellò la doppietta di Marco Pantani in quell’edizione del Giro. Il giorno prima l’allora ragazzino romagnolo aveva vinto a Merano, staccando tutti sul Giovo e arrivando da solo nella cittadina tirolese. Con lui alla Carrera c’era anche Chiappucci che quel giorno morse il freno col compagno che faceva fuoco e fiamme. Ebbene, con Claudio cerchiamo di conoscere meglio questa salita.

Questa scalata per certi aspetti era nuova, tuttavia come punto di passaggio non era del tutto inedito. Il Giro ci era transitato tre anni prima, nella Morbegno-Aprica. Si fece solo il breve tratto da località San Pietro (che si nota nell’altimetria in basso) al valico, quello che in pratica corridori in pratica affronteranno in discesa il prossimo 24 maggio.

L’ultimo passaggio sul Santa Cristina avvenne invece nel 2010 (foto di apertura), ma era lontano dall’arrivo.

Chiappucci e Indurain nella Morbegno – Aprica del 1991
Chiappucci e Indurain nella Morbegno – Aprica del 1991

Scalata in doppia veste

Si sale dalla Valtellina, pertanto il Santa Cristina non si prende a metà come nel 1994, ma da Tresenda. Quindi dal fondovalle, per un totale di 13,5 chilometri.

La strada così ha una doppia fisionomia: carreggiata ampia e pendenze più “dolci” (6-9%) nella prima metà e carreggiata stretta e ripida nella seconda, con pendenze quasi sempre al di sopra del 10%. L’ultimo chilometro è il più duro e presenta una pendenza media dell’11,2%.

«Questa doppia veste – spiega Chiappucci – per me non influisce troppo sull’andamento tattico. Le squadre che tirano non lo fanno per prendere in testa il tratto più duro e stretto, ma perché stanno già facendo un forcing, quindi presuppongo che ci si arriverà tutti in fila indiana. Posto che poi la corsa la fanno i corridori e che oggi la tendenza è sempre più quella di aspettare l’avvicinarsi della cima.

«Stare davanti per me è sì importante, ma non è fondamentale. Certo non è che devi stare in coda al gruppo! Si è pur sempre su una salita potenzialmente decisiva».

Il Santa Cristina non è anche sede di arrivo ma è vicinissima al traguardo dell’Aprica
Il Santa Cristina non è anche sede di arrivo ma è vicinissima al traguardo dell’Aprica

I ricordi del 1994

Chiappucci parla una frazione lunga e dura in quel Giro. Una tappa corsa in modo intenso soprattutto sulle rampe del Santa Cristina, scalata posta nel finale anche allora.

«Ricordo – dice El Diablo – che era una tappa lunga e dura. Si faceva lo Stelvio in partenza, poi il Mortirolo, poi ancora l’Aprica e infine il Santa Cristina. E quest’ultima salita che all’epoca era inedita, trovandosi tra tutti questi mostri sacri passò in secondo piano. Dall’altimetria non sembrava così terribile. Non l’andai a vedere. E invece… era una salita importante».

«Quel giorno fece primo Pantani e secondo io. Ero con Berzin e Indurain e staccai tutti proprio sulle rampe del Santa Cristina. C’era tanta gente, ero convinto di essere solo, dopo un po’ invece mi accorgo che alla mia ruota c’è “Cacaito” Rodriguez… così piccolo non lo avevo notato. Mi guardò con quella faccina e mi disse di tenerlo lì, di non staccarlo, ma io gli dissi che non potevo. Così allungai ancora.

«Ma che fatica nel finale. L’ultimo chilometro era davvero tosto. In cima poi non si scendeva subito».

Molto bosco e pochi tornanti nella seconda metà della scalata
Molto bosco e pochi tornanti nella seconda metà della scalata

Occhio al falsopiano

Il Santa Cristina quindi non sarà sottovalutato. Ma oggi anche se fosse una salita inedita, anche se i corridori non ci mettessero piede, avrebbero una mole d’informazioni grazie alle quali la scalata gli sarebbe decisamente meno sconosciuta. El Diablo invece ha avuto modo di ripassarla e vederla meglio parecchi ani dopo.

«Esatto – dice Chiappucci – l’ho rivista, e me la sono goduta questa volta, nella granfondo dell’Aprica. E in effetti è bella dura. Anche perché bisogna considerare una cosa: noi all’epoca avevamo la folla, i tifosi a bordo strada, che ostruivano la visuale in molti tratti». E a proposito di visuale e punti di riferimento, bisogna considerare che dopo il bivio per la statale verso Aprica, si entra in un fitto bosco. Solo qualche radura lo interrompe e comunque non prima dei tre chilometri dallo scollinamento. Il paesaggio quindi è chiuso.

«Scalata irregolare? Io non direi – conclude El Diablo – Direi piuttosto che sale sempre forte. E’ tutta uno strappo. E poi non va sottovalutato il pezzo dopo il Gpm. Come ho detto non si scende. Ma c’è un falsopiano in discesa, molto stretto e abbastanza veloce, con curve e semicurve. E se ne hai continui a guadagnare, altrimenti diventa duro e lungo anche quello».

Blockhaus, Santa Cristina e Fedaia: quale farà più male?

21.11.2021
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Il prossimo Giro d’Italia si annuncia a dir poco tosto. Propone tante salite, ma tre sembrano essere più dure delle altre. Non solo, ma si annunciano anche decisive visto che sono all’arrivo. Di quali scalate parliamo? Blockhaus, Santa Cristina e Fedaia (in apertura il tratto spettacolare nei Serrai di Sottoguda).

Per analizzare meglio questi tre “giganti” ci siamo rivolti a Gilberto Simoni che queste salite le conosce bene. Nella sua carriera le ha affrontate in corsa sin da dilettante, come il Blockhaus. Gibo di scalate se ne intende visto che ci ha costruito i suoi successi più prestigiosi.

Simoni al termine della Chieti-Blockhaus al Giro 2009
Simoni al termine della Chieti-Blockhaus al Giro 2009

Numeri simili, durezze differenti

Si tratta di tre salite lunghe e, almeno numericamente, somiglianti. Il Blockhaus misura: 13,6 chilometri, 1.141 metri di dislivello e ha una pendenza media dell’8,4 %. Il Santa Cristina: 13,5 chilometri, 1.078 metri di dislivello e una pendenza media dell’8%. Infine il Passo Fedaia conta: 14 chilometri, 1.062 metri di dislivello e una pendenza media del 7,6%.

Ma in salita i numeri contano fino a un certo punto. Porzioni, segmenti, tipologia dei tornanti (se spianano o tirano), meteo… Ogni scalata ha la sua storia e il suo DNA.

Il Blockhaus si scalerà nel corso della 9ª tappa (187 chilometri) con partenza da Chieti
Il Blockhaus si scalerà nel corso della 9ª tappa (187 chilometri) con partenza da Chieti

La lunghezza del Blockhaus

«Il Blockhaus  – ricorda Simoni – lo feci la prima volta da dilettante. Arrivai secondo. Mi sembra salissimo dal versante di Passo Lanciano. Ero con il mio compagno Amilcare Tronca che morì poi per un incidente stradale. Io ero in maglia di campione italiano e la squadra voleva che vincessi. Quasi litigammo affinché si prendesse quella tappa. Lui voleva essere fedele agli ordini di squadra. Ma io avevo già vinto 16 corse e gli dissi di stare tranquillo. Tante volte mi aveva aiutato ed era giusto che vincesse lui».

«Per il resto – aggiunge Gilberto – si tratta di una salita molto lunga. E’ la prima vera scalata del Giro. Anche l’Etna non è cosa da poco, ma lì si può stare bene anche a ruota. Chi attacca sul vulcano rischia di fare la fine del topo con quella pendenza e la strada larga. Sul Blockhaus invece non è così.

«Queste salite appenniniche di inizio Giro recano sempre un po’ d’incertezza. Fanno paura, non si sa mai come sono i valori in campo. In ogni caso questa salita sarà un bello spartiacque e metterà subito in evidenza i veri protagonisti del Giro. Il dislivello è importante».

Il Santa Cristina non è sede di arrivo ma è vicinissima al traguardo dell’Aprica
Il Santa Cristina non è sede di arrivo ma è vicinissima al traguardo dell’Aprica

Gli strappi del Santa Cristina

Gibo ha sottolineato il dislivello e la lunghezza del monte abruzzese e infatti parliamo di scalate che durano oltre 40 minuti che, come detto, sono molto simili. Ipotizzando una VAM (velocità ascensionale media) di 1.500 metri all’ora, queste tre salite durano rispettivamente: 45′, 43′ e 42′. Chiaramente questo “su carta”, poi s’innescano discorsi tattici, la fatica che si accumula in una corsa a tappe, il meteo. L’anno scorso per esempio Yates toccò una VAM di 1.700 quando vinse a Sega di Ala.

«Il Santa Cristina – riprende Simoni – di solito lo si faceva dopo aver scalato il Mortirolo e scendendo dall’Aprica, stavolta invece si attacca dal basso. Quindi per la prima parte la strada è quella che porta all’Aprica, appunto, ma dal versante valtellinese. Poi dal bivio, a circa metà salita, cambia tutto. La strada diventa stretta, ci sono dei tornanti. Ricordo che ci sono delle rampe con strappi duri.

«Una scalata del genere non la puoi subire. Devi attaccare, devi stare davanti, altrimenti se ti difendi con tutti quei cambi di ritmo rischi di fare molta fatica ad inseguire».

Il Passo Fedaia è l’ultima grande scalata del Giro. I 5 chilometri finali sono durissimi
Il Passo Fedaia è l’ultima grande scalata del Giro. I 5 chilometri finali sono durissimi

La durezza del Fedaia

Gibo esalta subito la durezza della Marmolada. Per lui questa è la più dura delle tre, anche se, numeri alla mano, sembra la più “gentile”, ma è per questo che ascoltiamo il parere dei corridori!

E poi conta il profilo. E allora nel caso del Fedaia se si considera che nei tratti iniziali spesso la strada spiana, quel 7,6 per cento di pendenza media è ingannevole. Esattamente come diceva ieri Fabbro del Kolovrat: «E’ 9 per cento, ma nel mezzo spiana e c’è discesa». 

«Queste salite troppo dure – conclude Simoni – a volte bloccano la corsa. Un po’ come si è visto su Mortirolo o Zoncolan. Se attacchi, rischi di pagare. E allora per me non devi guardare nessuno. Devi prendere e salire al meglio che puoi: né attaccare, né difenderti. Se attacchi magari guadagni 10”. Però è anche vero che siamo nel finale del Giro e bisognerà vedere quali saranno i giochi in ballo.

«Per me non cambierà troppo le sorti del Giro. Tante volte la tattica conta poco in questi casi. Sai che arrivi lì e ti giochi tutto, semmai conta maggiormente in tappe più facili».

Fedaia: i 5 chilometri finali sono durissimi. In fondo l’uscita dai “drittoni” in corrispondenza di Capanna Bill
Fedaia: i 5 chilometri finali sono durissimi. In fondo l’uscita dai “drittoni” in corrispondenza di Capanna Bill

Quei 24′ sul Fedaia

E probabilmente alla fine Gibo ha ragione quando dice che la mitica Marmolada, il Passo Fedaia, è il più duro. E anche i numeri sono dalla sua parte. No, non ci stiamo contraddicendo!

Consideriamo anche la quota. E’ l’unica di queste tre salite che supera i 2.000 metri, è l’ultima del Giro e poi il troncone duro è il più impegnativo. Perché alla fine, proprio per ovviare al dato della pendenza media, bisogna sezionare il tratto più tosto.

Il Blockhaus è il più regolare: tolto l’inizio è tutto impegnativo. Per 10 chilometri si sale attorno al 10 per cento e con una punta del 14 per cento.

Al contrario il Santa Cristina è il meno costante. Il suo troncone duro misura 6,6 chilometri nei quali la pendenza media è del 10,1 per cento con una punta del 16 (anche se l’altimetria ufficiale recita 13).

Infine il tratto duro del Fedaia è il più breve: “appena” 5,35 chilometri, da Malga Ciapela (uscita dei Serrai di Sottoguda) al valico, ma con una pendenza media dell’11,2 per cento e una punta del 18. 

Se dovessimo tornare a quei famosi dati VAM ipotizzati, i tre segmenti durerebbero rispettivamente: 36′, 27′ e 24′. E fare 5 chilometri in 24′ la dice lunga…

Simoni, le alte vette e l’immenso amore per la bici

24.05.2021
3 min
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Gilberto Simoni è stato uno scalatore fortissimo, due volte vincitore del Giro, altri tre anni sul podio. Ha vinto gare e tappe di montagna faticosissime, in Italia, Spagna, Svizzera, Francia, persino in Giappone. Chi meglio di lui poteva raccontare le Dolomiti e le altre vette, protagoniste, come sempre, del Giro d’Italia? 

«Il mio rapporto con la montagna è venuto un po’ naturale, facile, per certi aspetti», esordisce Gibo. «Quando ti svegli la mattina o quando torni la sera e ne sei circondato, le cime diventano punti di riferimento. Ci sono, le vedi e sai che sei a casa». Molti le vogliono salire: a piedi sui sentieri e sulle ferrate, con gli sci sulla neve, in cordata sulle vie di roccia. «Ognuno lo fa nel proprio modo, io ho trovato la soddisfazione di farlo in bicicletta e mi è andata bene. Avevo grinta e tenacia e la montagna mi ha regalato il successo», riconosce Simoni. 

Sul Sampeyre nel 2003, con la neve sulla strada: il fascino e la durezza delle vette
Sul Sampeyre nel 2003, con la neve sulla strada: il fascino e la durezza delle vette

Il Giro sul Pordoi

Sul Pordoi ha ipotecato la vittoria del suo primo Giro, nel 2001. «E’ una bella salita, anche se non è tra le più dure, però quel giorno lì era spettacolare –ricorda – lo salivamo due volte, c’era una folla incredibile». I tifosi lo aspettavano, ma lui non sentiva molta pressione addosso: «Sapevo che potevo farcela, ho avuto sangue freddo e, nonostante la presenza di avversari molto agguerriti, ho giocato bene le mie carte». Gibo quella tappa non l’ha vinta: «Ma è stato comunque il giorno più bello della mia carriera», ammette.

Gioia effimera

Anche la seconda vittoria alla corsa rosa, nel 2003, la deve a salite di tutto rispetto come Zoncolan e l’Alpe di Pampeago. «Sono due belle sfide, chi vince sullo Zoncolan deve metterci oltre alla testa, la volontà, le gambe e il cuore», confessa a bici.PRO. «Anche l’Alpe di Pampeago non è facile, non ti dà respiro. Bei momenti, ma la soddisfazione dura poco perché sai che il giorno dopo sei ancora in gara e non è finita».

La strada si allarga

La montagna in corsa e negli allenamenti: l’habitat di Simoni era più o meno quello dei camosci o dei cervi che popolano valli e versanti alpini. Afferma di avere «la fortuna o la sfortuna (dipende dai momenti) di dover affrontare una salita di sei chilometri per tornare a casa. Alcuni giorni mi piaceva, come fosse un finale di corsa, altri, quando ero stanco, diventava un calvario, una penitenza». Anche in gara non dev’essere stato facile, «ma nel Giro e in altre corse le salite coincidevano con i momenti più tranquilli, sapevo che avrei trovato il mio posto. Non parlo di vittorie o di secondi posti. Se in pianura devi mischiarti, combattere per cercare la vittoria, in salita ognuno trova il suo posto e la strada si allarga». A Gibo piacevano soprattutto le frazioni nelle quali poteva metterci del suo. «Non c’entravo niente con le tappe per velocisti e odiavo le cronometro. Non vedevo l’ora di fare una tappa di 250 chilometri tutta in salita, con vette importanti, piuttosto che farne 10 in pianura».

In salita trovava il suo posto: «La strada si allargava»
In salita trovava il suo posto: «La strada si allargava»

Amore per la bici

Il brutto tempo sulle alte terre, a volte, è una difficoltà aggiuntiva per i corridori, «ma il meteo è stato sempre dalla mia parte. Ricordo gare con tanta, tanta acqua come il Giro dell’Emilia e la Japan Cup. O come la prima tappa vinta al Giro d’Italia, che arrivava a Bormio: un tappone vero, 250 chilometri, il Gavia in discesa con la neve in alto e sotto un temporale primaverile». Non si è mai inchinato alle intemperie, Simoni, che chiude la chiacchierata con la frase più bella: «In bicicletta facevo cose che non avrei mai fatto senza, non mi piaceva la gara in sé, mi piaceva solo andare in bici».

Orlando Maini, Michele Scarponi, 2016

Maini, Nibali, lo Stelvio e Jacopo Mosca

22.10.2020
4 min
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Se volete una lettura romantica e concreta della tappa di oggi, chiamate Maini. Orlando è quel tipo che nelle foto di allora si riconosce sulla cima del Galibier, mentre consegna a Pantani la mantellina per iniziare la discesa verso la maglia gialla. Sentirgli raccontare quei momenti di attesa spasmodica e della paura di sbagliare è ogni volta più emozionante. Maini era uno dei direttori sportivi della Mercatone Uno. Anni prima era stato il tecnico dell’Emilia Romagna nel Giro dei dilettanti vinto da Marco, quindi lo conosceva e Marco gli voleva bene. Ugualmente la paura di sbagliare gli fece vivere minuti da brivido.

Marco PAntani, Tour de France 1998
Maini era sul Galibier quando Pantani attaccò nel 1998
Marco PAntani, Tour de France 1998
Maini era sul Galibier quando Pantani attaccò

Oggi si corre una tappa che ricorda quella di allora e forse ricorda anche quella di Risoul al Giro del 2016 in cui Nibali con l’aiuto di Scarponi riaprì il Giro d’Italia. C’è lo Stelvio come nel 1998 il Galibier e nel 2016 il Colle dell’Agnello. C’è la discesa. E c’è subito la salita, che nel 1998 si concludeva alle Deux Alpes e nel 2016 a Risoul.

Per Maini il Giro d’Italia è una funzione religiosa. E da quando per motivi fastidiosi non ne fa più parte, la sua concentrazione davanti al teleschermo è totale. E se c’è da disegnare uno scenario tattico in cui il nostro eroe sbaraglia gli avversari e conquista il primo premio, Orlando è la prima persona cui pensare. Perché ne sa tanto. Perché ama il ciclismo. E perché ha il linguaggio giusto per parlare dei corridori e con i corridori.

Hai visto la tappa di ieri a Campiglio?

Certo che l’ho vista. Hanno lasciato fare l’andatura alla Deceuninck. E quando Kelderman e Hindley sono scattati, hanno voluto provare la febbre alla maglia rosa. Ma perché Almeida perdesse terreno sull’ultima salita, bisognava che fosse in bambola.

Wilco Kelderman, Jay Hindley, Madonna di Campiglio, Giro d'Italia 2020
Kelderman e Hindley attaccheranno sullo Stelvio?
Wilco Kelderman, Jay Hindley, Madonna di Campiglio, Giro d'Italia 2020
Kelderman e Hindley attaccheranno sullo Stelvio?
Come si vince questo Giro?

Abbiamo un italiano specialista della discesa. Quado arrivano su stanchi, lui fa la differenza. Ovviamente parlo di Vincenzo.

Credi che attaccherà?

Non credo che rimarrà fermo, lui è uno di quelli che li aspetti e di solito arriva. Vedrei una bella coppia con Fuglsang. Anche se non si sopportano. Come quando Moser e Saronni facevano insieme il Trofeo Baracchi, che era una cronometro a coppie, e con il pretesto di staccarsi reciprocamente, alla fine vincevano loro.

Servirebbe l’intervento di Martinelli…

Ha guidato Nibali a due Giri e al Tour, ora ha Fuglsang. Lui vuole bene a entrambi e potrebbe essere la chiave di volta.

Perché Vincenzo attacchi in discesa, occorre che scollini con i primi.

Lo Stelvio lo fanno forte per forza, perché la Sunweb non ha alternative. Hai già chi lo fa. Credo che dall’ammiraglia daranno questo tipo di consegna, anche se le giovani generazioni sono difficili da gestire.

Sunweb a fare forcing e basta?

E poi dovranno attaccare. Parte uno, la maglia rosa chiude e l’altro deve partire secco.

Dove metteresti l’uomo che aspetta Nibali sullo Stelvio?

In cima, dentro l’ultimo chilometro. Deve essere un pezzo ideale per fermarsi, vestirsi e ripartire. Anche prima di un tornante. Tanto ormai tutti mandano avanti la macchina con il terzo direttore. E Vincenzo là in cima deve avere 500 metri per vestirsi. Possono dargli la gabba o la classica mantellina, più dei guanti pesanti. Poi la discesa la fa da sé, ce l’ha nel Dna.

Vincenzo Nibali, Pello Bilbao, Jakob Fuglsang, Giro d'Italia 2020
Nibali per Maini è atteso dall’attacco in discesa
Vincenzo Nibali, Pello Bilbao, Jakob Fuglsang, Giro d'Italia 2020
Vincenzo Nibali, Pello Bilbao, Jakob Fuglsang, Giro d’Italia 2020
Cosa deve fare l’uomo in cima?

Serve uno che lo capisca con lo sguardo senza parlare. Panta sapeva che gli volevo bene, ci conoscevamo da quando era dilettante.

Come muoveresti la squadra prevedendo uno scenario del genere?

Per il mio modo di correre, un uomo davanti lo manderei sempre. Sai quante corse si sono perse perché il leader non aveva un uomo davanti? Penso a Dumoulin, che perse la Vuelta contro Aru perché Fabio si trovò davanti tre compagni e lui nessuno. Non rientrò per pochi secondi. E io vinsi la tappa con Ruben Plaza.

Chi manderesti fossi il tecnico della Trek?

Bisogna capire cosa gli è rimasto nelle gambe. Serve uno che vada bene su quei percorsi e loro hanno l’uomo perfetto: Jacopo Mosca. Lui potrebbe aspettare Vincenzo e aiutarlo fino alla salita successiva.

Questi piani li decide il diesse o bisogna che scattino al campione?

Nel rispetto dei ruoli, il diesse deve dire la sua. Poi semmai la concorda con il capitano.

Come avresti vissuto una giornata come questa?

Alla mia maniera. Con il diesse che arriva al traguardo morto come il corridore. Sono giorni che danno la pelle d’oca, non ci avrei dormito tutta la notte precedente. Non mi fregherebbe niente nemmeno di dormire se fossi il direttore sportivo di Nibali prima di una tappa come questa…

Baffi ci crede. «Nibali è solido»

20.10.2020
3 min
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Per Adriano Baffi la parola d’ordine è crederci. Alla vigilia delle grandi montagne in casa Trek-Segafredo è arrivato il momento della verità. La tanto attesa terza settimana entra nel vivo e Vincenzo Nibali può uscire allo scoperto. Nel bene e nel male. Dopo la brillantezza vista oggi a San Daniele e ascoltando proprio le dichiarazioni dello Squalo a fine tappa, è lecito essere ottimisti.

Il ritorno verso l’hotel il siciliano lo fa in macchina anziché sul bus. Vuole arrivare prima per sbrigare i massaggi e tutto il resto in tranquillità. Non lascia nulla a caso. Buon segno.

Due giorni duri

«Non abbiamo preso fiducia semplicemente perché non l’avevamo persa – dice il ds della Trek-Segafredo, Adriano Baffi – Sappiamo che per adesso c’è chi va più forte. Almeida anche oggi ha guadagnato 2”. Se lotteremo? E c’è da chiederlo? Se fai il ciclista non puoi non lottare. La generale resta il primo obiettivo. Anche perché con questa classifica e queste gambe è difficile vincere una tappa: non ti lasciano andare e in caso di arrivo insieme c’è chi ne ha di più. La terza settimana per alcuni va bene, per altri è difficile e per altri ancora è una sorpresa. Vedremo.

Adriano Baffi, ex corridore e direttore sportivo della Trek-Segafredo
Adriano Baffi, direttore sportivo della Trek-Segafredo

«La tappa di domani non sarà decisiva. Però ci potrà di dire chi vincerà il Giro. Sarà l’antipasto del giorno dopo. Immagino che Ntt o Sunweb possano fare la corsa dura. Noi sin qui abbiamo cercato situazioni favorevoli. Ma quando si sono create le opportunità abbiamo sempre perso terreno. Non ci aspettavamo di arrivare a questo punto con 3’31” di ritardo».

Nibali ha dichiarato che Wilco Kelderman il nemico più pericoloso ce l’ha in casa ed è Jai Hindley. I due Sunweb potrebbero anche litigare in qualche modo?

«Credo proprio di no – ribatte Baffi – sarebbe stupido. Hindley è oltre 2’30” dietro Kelderman. O cede o tutt’al più la Sunweb decide di giocare su due fronti per mettere pressione ad Almeida se non dovesse staccarlo. Se fossi il loro ds punterei sull’olandese».

La solidità dello Squalo

Nel clan di Luca Guercilena non si parla della rimonta di Vincenzo nel 2016. Né si fanno conti. C’è solo da dare il massimo e vedere come andranno gli eventi.

«E’ l’unica cosa che possiamo fare – dice Baffi – abbiamo la totale fiducia in Vincenzo e che si arrivi a Milano. Semmai i conti li faremo la sera prima della crono finale. Siamo in un Giro e tutto può accadere. Guardate cosa è successo: dopo tre tappe è andato a casa Thomas, ci ritroviamo con Almeida in rosa e Hindley che a Piancavallo ha fatto un qualcosa di pazzesco. Di fronte a tutto ciò posso solo dire che Nibali è solido.

«Intanto pensiamo a queste due tappe – conclude il ds – credo che tutti coloro che sono dietro non aspetteranno. Noi e l’Astana ne abbiamo uno, ma Bora, Sunweb ne hanno due in classifica (e Deceuninck-Quick Step e NTT sono forti, ndr). Se dovessero fare queste due tappe alla morte ai Laghi di Cancano qualcuno pagherà. Per questo mi immagino che ci saranno ritmi alti. Gambe permettendo».