Pepoli, figlia d’arte in arrivo: chi ricorda papà Christian?

10.12.2022
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Padre ex pro’, figli giovani promesse. Nel ciclismo della generazione Z ci sono sempre più casi del genere e talvolta può capitare che sia proprio il genitore a riconoscere un maggior talento nel suo erede. Nella prossima Isolmant-Premac-Vittoria ci sarà una elite del 2004 figlia d’arte. Sara Pepoli, figlia di Christian, prima buon dilettante con la Record Cucine e poi pro’ ad inizio anni 2000 per quattro stagioni tra Cantine Tollo e Saeco.

Padre e figlia. Christian Pepoli insieme a Sara (seduta) quando lei era allieva alla Fiumicinese
Padre e figlia. Christian Pepoli insieme a Sara (seduta) quando lei era allieva alla Fiumicinese

L’attuale 44enne Pepoli senior, romagnolo doc, è stato interprete di un movimento in cui gli squadroni erano italiani e dove le nostre formazioni correvano tutte le classiche e i grandi giri a tappe. E’ stato un gregario fidato per i propri capitani e ha sgomitato con i grandi campioni di allora. Inutile fare paragoni, il ciclismo è cambiato in tutto ma in quei quattro anni Christian di esperienza ne ha fatta a tonnellate. Ed oggi la porta al servizio della figlia e delle ragazze della Fiumicinese Fait Adriatica, la storica società del suo paese.

Sara è pronta

«Mio padre mi ha insegnato a non tirarmi indietro davanti a nulla – spiega spigliata Sara, junior nella Ciclismo Insieme-Team Di Federico e azzurra in pista ad europei 2021 e mondiali 2022 – ce l’ho avuto come diesse da allieva, ma non ha mai fatto differenze. Anche adesso è molto discreto. Ovvio però che mi dia delle indicazioni tattiche, anche perché è stato lui a mettermi in sella. I consigli maggiori me li dà per saper stare in gruppo. Tendo ad andare sempre in fuga perché mi piace correre con poca gente attorno. Infatti mi piacciono le crono. Però devo per forza migliorare in questo aspetto. Il 2023 sarà un’annata difficile. Avrò la maturità e dovrò fare tanta esperienza. Ma io sono pronta».

Christian, ti somiglia tua figlia in bici?

Mica tanto (ride, ndr). Io ero un gran limatore. Quando andavamo a correre al Nord c’era gente come Museeuw, Van Petegem o lo stesso Tafi che cercavano di fare selezione in un qualsiasi punto. Dovevi buttarti in ogni buco senza pensare troppo per non trovarti a mangiare il panino con la nutella al furgone della squadra dopo soli 10 chilometri di corsa. Lassù, che ti piaccia o no, impari cos’è una corsa.

Tra dilettanti e professionisti, che anni sono stati quelli?

Belli. Ho un buon ricordo anche se ho dovuto smettere a 25 anni. Qualche soddisfazione me la sono tolta. Ho vinto la tappa di Collecchio al Giro d’Italia dilettanti dove credo di avere ancora il record della fuga più lunga. Almeno 200 chilometri. Partivamo da San Salvatore in provincia di Lucca. Ho fatto il pronti-via. Sul Passo delle Radici avevo ancora qualche compagno di avventura ma da lì fino al traguardo l’ho fatta tutta da solo. Era il ’99, quel Giro lo vinse Di Luca, il mio capitano. Siamo rimasti in contatto. Quell’anno ricevetti pure la convocazione per i mondiali a crono di Verona ma…

Racconta…

Ah, niente, non ci andai perché andavo troppo piano (sorride, ndr). C’era stata una pre-selezione ed ero contento. Parteciparono altri miei compagni perché forse davano qualche maggiore garanzia di risultati. Alla fine, nonostante di risultati non ne avessi fatti tanti, riuscii a passare professionista. Non so, penso alle tante volate tirate a Degano. Sapevo lavorare per i più forti e ho sempre avuto un buon rapporto con tutti. Ecco i motivi.

Poi cosa è successo?

Non ho trovato squadra. Sono passato dal firmare autografi a zappare il campo nella azienda di famiglia. Non sapevo nulla sull’agricoltura ed ho dovuto imparare tutto. Per fortuna che il ciclismo è una grande palestra di vita perché ti insegna cos’è il sacrificio. Io lavoravo senza avvertire la fatica. E penso che sia stato bene così. Ora ho un’azienda di confezionamento di sementi insieme a mia sorella. Certo, mi sarebbe piaciuto correre ancora, però prima o poi avrei dovuto smettere e trovare un lavoro. E più in là lo fai, peggio è. Perché il ciclista passa tutta la vita a pedalare e non sa fare altro. Come compagno avevo Roberto Conti, che quando correva aveva già iniziato un’altra attività ed io avevo preso spunto da lui.

Pepoli da 6 anni guida da esordienti e allieve della Fiumicinese, storica società romagnola
Pepoli da 6 anni guida da esordienti e allieve della Fiumicinese, storica società romagnola
Adesso invece com’è insegnare ciclismo ai giovani?

Non è semplice. Deve essere un divertimento fino ad una certa età, invece ora è tutto amplificato ed estremizzato fin dalle categorie più piccole. Alle mie ragazze voglio trasmettere il saper fare gruppo, lo stare bene insieme. Cerco di vietargli il cellulare nel pre e post gara fintanto che siamo assieme. E poi non transigo su rispetto ed educazione. Pensate, qualche anno fa non ho fatto correre alcune atlete finché non avessero imparato ad usare un linguaggio più adeguato per ragazze della loro età.

Ti piace quello che fai?

Sono convinto di questa scelta. Quando crei la giusta armonia, quello è già un grande risultato. In questo periodo, per dire, andiamo ad “allenarci” con i rollerblade sulla ciclabile di Gatteo Mare per più di venti chilometri. Diversificare l’allenamento aiuta a togliere un po’ di stress a questi ragazzi che sono sempre sotto pressione.

Sara Pepoli ha iniziato a correre in bici a 9 anni. Oltre alla Fiumicinese, è stata alla Forlivese da esordiente
Sara Pepoli ha iniziato a correre in bici a 9 anni. Oltre alla Fiumicinese, è stata alla Forlivese da esordiente
Per Christian Pepoli che atleta è Sara?

E’ una passista che sta diventando anche scalatrice. Va bene a crono e anche in pista. Al campionato italiano è stata a lungo in fuga, un suo must ormai. Per il momento lei, come me, fa pochi risultati ma ha una grande voglia di soffrire. Anzi, è più determinata di quanto lo fossi io. Sta attenta al cibo e agli allenamenti. Si sta facendo seguire da Alessandro Rovelli, un bravo preparatore atletico di Rimini. Non mi intrometto troppo nella sua vita ciclistica. Quest’anno l’ho vista più convinta. Credo sia merito della sua crescita. Poi sono contento di lei perché a scuola ha voti buonissimi.

Ora che è passata elite cosa ti aspetti da lei?

Innanzitutto devo ringraziare Giovanni (Fidanza, team manager della Isolmant, ndr) che si è interessato a lei e l’ha presa. Per Sara è una squadra giusta per crescere. Spero che lei possa essere d’aiuto alle compagne più grandi e magari possa ritagliarsi un po’ di spazio.

Volate. L’arte (quasi persa) del fare da soli: parola ad Endrio Leoni

26.08.2021
6 min
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Anche alla Vuelta lo stiamo vedendo, vincono i velocisti che hanno un treno o quel che ne resta dell’immaginario comune, cioè il treno rosso della Saeco di Cipollini. E quando manca almeno quel paio di compagni fidati lo sprinter non vince. L’esempio Guarnieri-Demare ne è la prova più calzante. Dov’è finito il velocista che fa tutto da solo? Dov’è finito l’Endrio Leoni della situazione?

Beh, lo chiediamo proprio all’ex ruota veloce veneziana. Oggi Leoni lavora nel settore immobiliare, ma è sempre molto attento a quel succede nel ciclismo. Segue anche i giovani. Leoni ha vinto molto, ma spesso ha avuto degli infortuni e la sua bacheca poteva anche essere più folta.

Endrio Leoni, classe 1968, vanta oltre 20 vittorie in carriera e 13 anni da pro’
Endrio Leoni, classe 1968, vanta oltre 20 vittorie in carriera e 13 anni da pro’
Endrio, dicevamo: facevi le volate da solo. Pronto a fare a spallate, ad infilarti, a saltare da una ruota all’altra…

Le mie volate diventavano un lavoro. Quando non avevi un treno dovevi adattarti. Dovevi portare un risultato a casa ed ogni volta poi era una guerra per trovare un contratto. Oggi magari le cose sono un po’ cambiate, in ogni senso. Velocisti così ce ne sono pochi. In pochi hanno pelo sullo stomaco. Forse un po’ Groenewegen, ma gli altri sono tutti sui binari e se salta il treno non vincono, anzi non riescono neanche a fare la volata.

Sagan però è uno che sa fare anche da solo…

Però Peter non è un velocista puro e poi adesso ha perso un po’ di esplosività. E si è anche un po’ adagiato. Rischia meno.

Che differenze c’erano tra i tuoi tempi (gli anni ’90-2000) e le volate attuali?

Adesso i “treni” partono ai meno due chilometri, tre al massimo. Una volta iniziavano ai -10. Il treno di Cipollini era quello super-collaudato, ma lo poteva fare perché aveva gente adatta e dei “centochilometristi”: Poli, Vanzella, Scirea, Calcaterra, Ballerini… già in quella fase. Era già tanto stargli a ruota. Lì c’era la vera lotta. Però sapevi che stando lì, male che ti andava, facevi secondo o terzo. Era durissima restarci, perché una spallata, un colpo d’aria a 60 all’ora e perdevi un sacco di energie.

Ricordi una delle volte che hai battuto Mario?

A Bassano, avevo preso la sua ruota. Lui aveva Chioccioli e Ballerini. Quel giorno stranamente fu facile prendergli la ruota e restarci. Non ci fu troppa bagarre e arrivai “fresco” allo sprint, altrimenti facevo sempre la volata con “mezza gamba”. In carriera ho fatto 42 secondi posti, una ventina dei quali dietro di lui! Purtroppo non avendo un treno tutto mio negli d’oro è andata così.

Prendevi proprio la ruota di Cipollini o quella di un suo uomo?

No, no la sua. Mario era talmente tranquillo che non metteva nessuno dietro di lui. Anche perché quella gente che aveva lo portava allo sprint ad un velocità pazzesca. Credo che con le bici di oggi Cipollini avrebbe toccato 3-4 chilometri orari in più. Con i nuovi telai e le nuove ruote non disperdi energia.

Prima hai detto che gli sprinter attuali sono tutti “sui binari”, però è anche vero che hanno molte più regole da rispettare. Il “fair play” è, come dire, molto imposto…

Vero. Non dico che bisogna fare come negli anni ’60 quando in tanti arrivavano senza numero perché si attaccavano alla maglia, ma un po’ più di libertà ci vorrebbe. Le mani non vanno staccate dal manubrio e va bene, era così anche ai miei tempi, 20 anni fa. Però c’era più spazio per delle furbizie, come tenere un avversario alle transenne, mettergli paura, tenerlo in spazi stretti… E si vedeva chi aveva l’esperienza e la scuola della pista. Oggi invece una volta partito lo sprint devono mantenere la linea. Una regola un po’ estremistica per me.

Hai parlato di “guerra di posizione”: come ti sentivi quando era il momento di allargare il gomito?

Istinto – risponde secco Leoni – negli ultimi 10 chilometri sei come il toro che vede rosso. Non ricordi niente. Il velocista senza treno deve solo difendersi dall’avversario che viene a disturbarti, devi chiudere sulla ruota che hai battezzato. Però era bello. Io vivevo per quei dieci chilometri. Era adrenalina pura. E ancora oggi m’immedesimo nelle volate che vedo.

Come proteggevi quella posizione? Dove guardavi?

Ripeto: istinto. Facevi tutto sul momento. Eri a tre centimetri da quello davanti (gli spazi si restringevano) ma non guardavi davanti. Cercavi di capire dov’eri e chi c’era intorno a te. Per questo la volata non è per tutti. Ce n’è di gente forte e veloce, ma non tutta è adatta per la bagarre.

Si frenava?

Il freno non si toccava – esclama Leoni – In volata ti appoggiavi. Se frenavi perdevi posizioni e poi era un bel dispendio energetico per recuperarle. In quel caso, se non ne perdevi troppe, meglio restare dove eri finito e fare la volata magari dalla quinta, sesta ruota che cercare di risalire. Ma io lo dicevo ai miei avversari: non mi venite dietro perché io non freno!

Tra i battitori liberi come te chi è che ti dava più filo da torcere?

Beh, Abdujaparov era un “cagnaccio”. Ma negli ultimi tempi anche McEwen… caspita se ci sapeva fare! E infatti ha vinto tanto. Un altro davvero tosto era Kirsipuu. Lui era forte perché era capace di prendere molto vento ma di riuscire a fare la volata lo stesso. Molto bravo anche Danny Nelissen: fortissimo ma sfortunato.

Guarnieri-Demare, l’esempio migliore del feeling tra velocista e apripista attuali. Il francese è così coperto da Jacopo che quasi non si vede
Guarnieri-Demare, l’esempio migliore del feeling tra velocista e apripista attuali. Il francese è così coperto da Jacopo che quasi non si vede
La grande rivalità è stata con Cipollini e Mario era da volata lunga. Tu come ti allenavi per batterlo? Puntavi sullo sprint lungo o sugli ultimi 50 metri?

Di testa partivo sempre per batterlo, poi magari non ci riuscivo, ma sin da giovane avevo sempre vinto parecchio allo sprint e quella era la mia mentalità. Mi allenavo anche sulle volate lunghe. Le facevo anche da 250 metri e se serviva le facevo più corte, ma tutto stava a come ci arrivavi. Non era tanto la lunghezza dello sprint a fare la differenza, ma quanto spendevi per arrivarci. Con quante energie arrivavi ai 4-500 metri. A volte non avevi neanche la forza per alzarti sui pedali. In questo contava molto anche il ruolo dell’ultimo uomo.

Cioè?

Lui doveva, e deve, essere bravo a portarlo il più avanti possibile, ma in modo regolare. Senza strappare, perché più lo sprinter arriva regolare alla volata e più va forte. E per questo è molto importante che il pilota conosca bene il suo capitano.

Tra i tuoi tanti successi qual’è quello che ti ha dato più emozione?

La prima tappa del Giro (era il 1992 e Leoni prese la maglia rosa, ndr). Era il sogno da bambino, lo vedevi in tv. Ci misi un paio di giorni a realizzare, sul momento non mi resi bene conto.

A notte fonda, nei ricordi di Fornaciari

21.02.2021
8 min
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Quando si metteva davanti Fornaciari, la velocità impazziva e il gruppo dietro smetteva di parlare. Oggi che fa i gelati, Paolo mette nelle sue giornate la stessa grinta. Per questo, quando ci sentiamo a notte fonda, ha lo stesso tono delle sere nella hall degli hotel a raccontarci come fosse andata la tappa. Una volta si faceva così. E lui stavolta è arrivato lungo perché a un certo punto ha finito il latte ed è dovuto andare alla Esselunga per trovarlo.

Nel 2008, dopo il ritiro, riceve da Johnny Carera e Roberto Bettini il premio Sprint Cycling Magazine
Nel 2008 riceve da Roberto Bettini il premio Sprint Cycling Magazine

«Sono stato tutto il giorno a inseguire il gruppo col 53×11 – scherza Fornaciari – ma ora sono rientrato. Arriva il primo caldo, la gente vuole il gelato. Ma noi abbiamo lavorato anche durante il lockdown. L’8 marzo abbiamo cominciato a portare le vaschette a casa e quei clienti poi sono tornati. Ne portavamo fino a 100 al giorno per 5 euro in più. Con le scatole termiche, il ghiaccio e quello che serviva. Perché s’è corso in bici e con tutta la fatica che facevo, non erano quei chilometri a farmi paura. Ma adesso non pedalo più. L’anno scorso ho fatto in tutto 210 chilometri, in un giorno solo. E’ venuto un amico a propormelo e allora gli ho detto che il percorso lo avrei deciso io. Siamo partiti alle sei del mattino e siamo tornati alle cinque del pomeriggio. Montecatini, Lucca, Massa, Versilia, Pisa e poi a casa. Non prendevo la mia Wilier da 11 anni e quando sono rientrato, ho tolto le ruote e l’ho rimessa sull’armadio. Mi ha fatto male il soprassella per qualche giorno…».

La bici è una parentesi

Paolo ride e parla, l’ha sempre fatto. Da quando era dilettante fino al passaggio nel 1992 e poi per tutta la carriera, conclusa nel 2008 con una sola vittoria personale ma strepitosi successi dei suoi capitani. Ha il vocione e il suo modo di raccontare le cose ti fa pensare di aver vissuto insieme degli anni davvero speciali. Racconta che gioca a tennis con dei ragazzotti di 20 anni che dopo un po’ non ce la fanno più. Dice di essere 10 chili più di quando ha smesso, ma allora era tutto muscolo. Adesso le gambe sono la metà, però ha i capelli bianchi.

«Lunedì e martedì siamo chiusi – dice Fornaciari – anche d’estate. Ho la casa, la mia famiglia. Mia moglie Maddalena s’è laureata in geologia con 110 e lode, ha fatto la geologa per vent’anni e adesso lavora con me. Mia figlia Arianna è al secondo anno all’università, mentre Greta è in seconda media. E’ un lavoro che si fa con grande passione, cercando la qualità del prodotto. La bicicletta è stata una parentesi e a me è andata bene. Dovevo aprire un negozio di bici e per fortuna non l’ho fatto. Ho la mia casa con la piscina. Non ti arricchisci a fare questi lavori, ma c’è grande soddisfazione».

Con Gotti e Cunego

Paolo ride e parla. Poi di colpo il tono si abbassa ed è come se dal manubrio si voltasse per guardare quel che ha lasciato indietro.

Nel 1995 partecipa alla Roubaix vinta da Ballerini
Nel 1995 partecipa alla Roubaix vinta da Ballerini

«Sono contentissimo – dice Fornaciari – e devo dire grazie a tante persone che mi hanno consigliato benissimo. Eravamo insieme in Sicilia da neoprofessionisti, ti ricordi? Bartoli e Fornaciari, primo e terzo. Sembrava fossero nati due campioni, invece ne era nato uno solo. Ho capito presto che non ero un vincente. Fu Salutini ai tempi della Mercatone Uno a dirmi che se volevo fare carriera dovevo mettermi a disposizione di un capitano, perché con il mio fisico avrei fatto la differenza. Anche Luciano Pezzi seppe parlarmi in modo saggio. Ho un bellissimo rapporto con tutti, l’unico con cui ho rotto è Cipollini e non so perché. Eravamo a Genova alla partenza del Giro del 2004. Noi avevamo Cunego, andai vicino a Mario a dirgli di dare un occhio a questo ragazzino e mi rispose: “Con lui ci parlo, con te no”. Mai più una parola da allora. Gli altri li ho risentiti tutti. Calcaterra, Bramati, Scirea. I toscani li vedo e li sento spesso e ho un ottimo rapporto ancora con Martinelli. La Saeco è la squadra che più mi è rimasta nel cuore. Vincemmo prima il Giro con Gotti e poi con Cunego».

Al Giro del 2003 sullo Zoncolan, che non si addice ai giganti
Al Giro del 2003 sullo Zoncolan, che non si addice ai giganti

I suoi massaggiatori

Paolo adesso non ride più e lo dice con un sorriso amaro, perché quasi gli fa male parlare del ciclismo, che fatica a riconoscere.

«Non mi garba più – ammette Fornaciari – perché è cambiato tanto. Sono in contatto con i massaggiatori e me lo dicono che non è più come una volta. E’ vero quello che si diceva poc’anzi. Dopo la corsa ci si trovava nella hall, si chiarivano eventuali incomprensioni e poi si andava avanti. Adesso invece sono tutti coi cellulari, i computer e le mail. Io andavo sul pullman a prendere il caffè con i massaggiatori, che fanno una vitaccia. L’ultima cosa che fanno sono proprio i massaggi. Prima preparano i rifornimenti, poi te li passano in corsa, portano le valigie, fanno le camere. Arrivano la sera distrutti e devono ancora fare i massaggi. Devono darti morale ed essere sempre onesti a dirti le cose come sono. I miei li ricordo tutti. Noè, Mugnaini, Della Torre, Avogadri e Cerea che mi salvò quando caddi al Tour e mi pelai da testa a piedi. Ero alla Saeco, nel Tour che partì da Dublino. Erano anni che stavo più con il massaggiatore che con la moglie. Facevo anche 100 corse all’anno, ma fisicamente sono integro. Mai una tendinite, mai una frattura…».

Alla Tirreno del 2007, con Bettini iridato, Basso e Roberto Petito
Alla Tirreno del 2007, con Bettini iridato e Basso

Kemmel, che paura

Paolo parla e ride forte, questa volta ricordando quanta paura abbia avuto in certi momenti.

«Se c’è una corsa che davvero faceva paura – dice Fornaciari – era la Gand a scendere dal Kemmel. Quello era il rischio più grande, si aveva paura per tutto il tempo prima di arrivarci. Si faceva in discesa a 70 all’ora sul pavé. Le borracce cadevano, l’acqua bagnava le pietre e diventava impossibile restare in piedi. Duecento metri, non di più. Sull’asfalto scivoli. Sul pavé, se va bene sono contusioni, altrimenti ti rompi. Vi ricordate nel 2007 Velo che male si fece in quella discesa?».

Mito Indurain

Il ricordo è un fiume in piena e le sue parole tratteggiano situazioni e personaggi cui non pensavamo da tempo.

«Ho corso con tanti campioni – dice Fornaciari – Museeuw, Bettini, Bartoli, Ballerini, Tafi, Zanini. Ma per me il più forte al mondo come persona fu Miguel Indurain. Un signore, furbo il giusto. Si è fermato al momento opportuno. Una volta al Tour, un paio d’anni dopo che aveva smesso, era venuto al Villaggio di partenza ed era sotto un gazebo circondato dai giornalisti. Io ero con Fagnini quando mi accorsi che c’era Miguel, ma stavamo in disparte. E sai lui cosa fece? Li lasciò tutti lì, si alzò, venne da noi a salutarci. Quando ero dietro a prendere le borracce e rimontavo, se passavo accanto a lui, mi diceva sempre “Vai Forna, vai Forna!”».

Al Fiandre del 2008 ritrova Bartoli, vincitore nel 1996 e grande amico
Al Fiandre del 2008 ritrova Bartoli, vincitore nel 1996 e grande amico

La scatola dei ricordi

Eppure in casa del suo ciclismo non c’è niente, appena un paio di foto in gelateria.

«A casa ci sono più trofei di gelato che altro – ammette – ma ho uno scatolone in cui tengo tutte le altimetrie dei Giri che ho fatto e i Garibaldi. Ogni tanto mi metto a riguardarli e a ricordare. C’è stato il periodo che facevo i gusti del gelato in onore dei corridori. Il gusto Nibali quando vinse il Tour e anche il giallo Nocentini. Ma ormai vado su quelli classici e altri che inventiamo noi, che portiamo ai concorsi. Quella è una parte bella, ma è più importante seguire la gelateria. Me lo insegnò Carlo Pozzi, il decano dei gelatai, che purtroppo non c’è più. Dopo che vinsi il titolo di miglior gelataio d’Italia, mi disse che i concorsi erano adatti a me perché quando attacco il numero sto meglio, ma la gente vuole vedermi dietro al banco. Quando fermai la Tirreno-Adriatico, mi chiamò per dirmi che era contento di avermi visto con la giacca dell’Accademia».

Gande Wevelgem
Che paura nelle discesa del Kemmel quando cadevano le borracce
Gand Wevelgem
Che paura nelle discesa del Kemmel quando cadevano le borracce

S’è fatto tardi. Ci diamo appuntamento al giorno di Larciano, per rivederci dopo tanto tempo. E poi l’ultima risata, “Forna” ce la strappa augurando la buona notte.

«Devo andare a chiudere le galline – dice – sperando che la volpe non le abbia già mangiate. Di solito le chiudo prima. Le teniamo per le uova di casa. Uguale con le anatre, sai che ci sono nate con l’incubatrice in casa? Ma adesso sapeste che buona la frittata con le uova di anatra…».

Damiano Cunego, Giuseppe Martinelli, Claudio Corti, Giro d'Italia 2020

Martinelli su Cunego: «Smise di ascoltarmi»

26.12.2020
4 min
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Forse Martinelli un po’ se lo aspettava che lo chiamassimo, dopo aver parlato con Andrea Tonti. Nel finale del discorso, infatti, il marchigiano aveva lanciato parole da approfondire sulla gestione di Cunego dopo la vittoria al Giro del 2004, dicendo che lo si volle trasformare per forza in un uomo da corse a tappe, nell’erede di Pantani, compromettendo la sua esplosività in cambio di magri risultati. Per cui con il grande bresciano, che dal 2010 è il riferimento tecnico dell’Astana, si entra alla sua maniera subito nel vivo del discorso.

Gilberto Simoni, Damiano Cunego, Giro d'Italia 2020
Al Giro 2004, il capitano Simoni si convertì in gregario
Gilberto Simoni, Damiano Cunego, Giro d'Italia 2020
Al Giro del 2004, Simoni divenne gregario

«Damiano è passato nel 2002 – inizia Martinelli – nel 2003 ha fatto il primo Giro e lo ha finito dando la sensazione di andare meglio alla fine che all’inizio. Nel 2004 ha vinto quasi tutto, compresa la maglia rosa. Aveva 23 anni e sfido chiunque a dire che sia stato per caso. Nel 2005 andava anche forte, ma ebbe la mononucleosi. Non era come oggi, che la scopri subito e bastano 6 mesi fermo per riprendere. La trovammo che l’aveva quasi finita e ci aveva corso sopra. Perciò rifarei tutto. Compresi gli scontri quando mi accorsi che aveva iniziato a fare di testa sua. Chiedetelo anche a lui se non avrebbe fatto meglio ad ascoltarmi…».

Che cosa significa fare di testa sua?

Non ascoltava, smise di farlo. Dopo quelle vittorie, era il momento di cominciare a fare i sacrifici veri, allenarsi più duramente degli altri. Invece lui non faceva tutto al 100 per cento. Non parlo di abitudini di vita, non era uno che andava in discoteca. Ma in allenamento a volte non dava tutto. Forse avremmo dovuto cambiargli programma, per dargli qualche stimolo in più. Tirava un po’ a campare. Ha fatto vivere per 10 anni la Lampre e la Lampre ha fatto vivere per 10 anni lui.

Paolo Tiralongo, Damiano Cunego, Giro d'Italia 2005
Dopo la stop al Giro del 2005, per Cunego venne il 4° posto nel 2006. Qui è con Tiralongo
Paolo Tiralongo, Damiano Cunego, Giro d'Italia 2005
Dopo la resa del 2005, il 4° posto al Giro 2006
Avevi tra le mani un ragazzino prodigio come quelli di oggi…

Anche se magari non fu il suo caso, negli anni ho avuto tanti giovani che abbiamo tenuto nella bambagia. Oggi li butterei di più nella mischia. Ti diverti. Recuperano meglio. Fanno risultati fuori dal comune. Dureranno meno? Ce lo sapremo dire fra 10 anni se li hanno bruciati. Intanto Pogacar ha vinto il Tour a 21 anni.

Tonti ha parlato per Cunego anche di qualche limite caratteriale.

Da questo punto di vista, anche quando vinceva a mani basse bisognava dirgli cosa fare, forse perché era ancora molto giovane. Quando si decise di staccare il cordone da Martino, secondo me era prematuro. Damiano aveva bisogno di essere aiutato come giovane atleta, che si è sposato e ha avuto una figlia molto presto. Secondo me gli è cambiata la vita troppo in fretta. Glielo dico ancora, perché abbiamo ricominciato a sentirci spesso…

Che cosa gli dici?

Che deve buttarsi di più. «Mi piace che studi, ma se vuoi fare il preparatore in una squadra WorldTour devi anche agganciarti a uno già esperto e imparare da lui, per puntare a venir fuori». Secondo me quando vinse il Giro gli è scoppiata in mano una cosa più grande di lui, anche riguardo alle aspettative.

Forse avreste dovuto tutelarlo voi?

Facemmo di tutto, anche nei confronti dei media, ma sorprese anche noi. Se Simoni fosse andato appena un po’ più forte, il Giro lo avrebbe vinto lui. E giuro che ci abbiamo provato in tutti i modi. Ma davvero non c’era competizione. Sembrava un predestinato e che tutto fosse persino troppo facile. Il Giro del 2005 invece gli fece capire che facile non era. E da quel momento in poi gli è sempre mancato qualcosa.

Damiano Cunego, moglie Margherita, Ludovica
Cunego con la moglie Margherita e la piccola Ludovica nata ad agosto 2005
Damiano Cunego, moglie Margherita, Ludovica
Cunego con Margherita e Ludovica nata nel 2005
Hai detto che avevate smesso di sentirvi.

Nel 2006/2007 avemmo un paio di scontri, come mi capita quando vedo che i corridori cercano di sfuggire senza dare spiegazioni. Gli chiesi ragione di un po’ di cose, anche duramente. E lui si chiuse e chiuse i ponti. Successe poco prima che andassi via dalla Lampre. Ora mi rendo conto che eravamo nell’anticamera di generazioni che fanno veramente fatica a sentire dei discorsi, anche delle prediche. Perché non le sentono più da nessuno.

Sembra di sentire quello che raccontava giorni fa Rino De Candido a proposito degli juniores…

Un tempo nelle famiglie c’erano i nonni che raccontavano storie. Poi sono diventati nonni dei genitori che forse cose da raccontare ne avevano sempre meno. Oggi nessuno parla e tutti hanno in mano il cellulare, pensando di avere ogni cosa sotto controllo. Ci sono corridori che il libro del Tour, il Garibaldi, lo tengono sul pullman. Lo guardano soltanto la mattina andando alla partenza. E quando facciamo la riunione spiegando la tappa, dopo 2 minuti si alzano, vanno a farsi i caffè, si mettono gli scarpini. Non ce la fanno a restare concentrati. Poi la corsa parte e dopo 20 chilometri cominciano a chiedere via radio quello che in realtà gli è già stato spiegato…