Quanto pesa il ritiro in altura? Risponde coach Mazzoleni

17.06.2024
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Quanto pesa un ritiro, specie se in quota, in termini di fatica e di rendimento nell’insieme di una preparazione? Domanda da un milione di dollari che inevitabilmente non può avere una risposta netta, ma di certo apre un punto di dibattito importante.

Diversi atleti, l’ultimo dei quali Lorenzo Fortunato, hanno parlato di questo aspetto, di quanto oggi si arrivi prontissimi alle corse. «Adesso si fa più lavoro al training camp in altura che al Giro. E quindi quando vai in corsa, vai a raccogliere i frutti di quel lavoro», le testuali parole di Fortunato.

Ebbene noi abbiamo analizzato il tutto con Maurizio Mazzoleni, coach dell’Astana-Qazaqstan.

Mazzoleni (secondo da destra) durante un ritiro, utile anche per fare gruppo: aspetto da non trascurare
Mazzoleni (secondo da destra) durante un ritiro, utile anche per fare gruppo: aspetto da non trascurare
Maurizio, dunque, quanto pesa il training camp nella preparazione e quindi nella prestazione?

Molto, perché specie se il camp è in altura, si mette in atto un metodo di lavoro a 360°. Tu preparatore hai gli atleti direttamente sul campo. Ci sei a contatto. Due sport: il ciclismo e gli atleti della lunghe distanze dell’atletica leggera non hanno un luogo fisso di allenamento, ma ogni volta un campo di lavoro diverso e non è facile seguire gli atleti. 

Certo, nuotatori in piscina, tennisti, calciatori, pallavolisti… al campo.

Esatto. Il preparatore non può essere presente. I lavori che inviamo a casa li vedi giornalmente, ma non abbiamo gli stessi feedback, non vediamo l’atleta dal vivo. Ed eventuali aggiustamenti si fanno il giorno dopo. In altura, in ritiro, certe correzioni le fai sul momento. Poi secondo me quello della preparazione da professionisti è un salto importante.

Cioè?

Finché sono juniores o under 23 bene o male hanno quasi sempre dietro il tecnico che li segue, tra i pro’ non è così. Non può essere così. I ragazzi hanno abitazioni differenti, vengono da più Nazioni. E la presenza del tecnico, del referente va a diminuire drasticamente. 

Cosa significa che in ritiro si lavora a 360°? Oltre agli adattamenti fisiologici come i punti ematici che può dare l’altura c’è dell’altro?

Che oltre alla bici ci sono tutte quelle attività extra: il risveglio muscolare, lo yoga, lo stretching, il massaggio, eventuali trattamenti per recuperare prima da un infortunio… Tutta la giornata è finalizzata alla bici, ed è un tipo di lavoro che a casa ovviamente non si può fare. Quindi oltre agli adattamenti fisiologici l’altura ha un prezzo, ma anche un vantaggio in questo senso.

Oggi in quota si insiste anche sull’intensità elevata. E spesso si lavora anche a crono (foto Instagram)
Oggi in quota si insiste anche sull’intensità elevata. E spesso si lavora anche a crono (foto Instagram)
Spesso vediamo che scendono e vanno forte: il ritiro è centrale dunque?

Oggi siamo abituati a preparare gli atleti affinché arrivino subito pronti alle gare anche dopo l’altura. Calibriamo ogni aspetto tra allenamenti e gare. Se prima in altura si lavorava soprattutto a bassa intensità, oggi si fa anche l’alta intensità. E se prima servivano dieci giorni per avere gli effetti dell’altura, oggi possono bastarne 3-4. Basta mollare un po’ prima quando si è in quota. Sono nuove metodologie che portano appunto l’atleta ad essere subito pronto.

Facciamo un esempio, Maurizio: avvicinamento classico al Giro d’Italia. Il corridore lo sa da dicembre: quanto incide in percentuale il ritiro in quota?

Non è tanto una questione di percentuale, ma di un insieme. Esclusi i velocisti, di solito quasi tutti fanno almeno due cicli di altura, ma in questi cicli e anche nell’allenamento a casa deve andare tutto bene. Deve filare tutto liscio.

Giriamo la domanda: quanto pesa il ritiro in quota in termini di fatica?

Posto che dipende da atleta ad atleta, la fatica è difficilmente misurabile. Questa, in un ritiro, è data dallo stress dell’allenamento, che seppur positivo è sempre uno stress, e dal conseguente adattamento. Questo è l’aspetto fisiologico, poi c’è l’aspetto mentale della fatica. Questo va incluso nel costo e non va sottovalutato.

Dopo il Giro, Lorenzo Fortunato è andato direttamente al Delfinato
Dopo il Giro, Lorenzo Fortunato è andato direttamente al Delfinato
Chiaro…

Anche per questo motivo ci sono tuti quegli extra di cui dicevamo. Il rilassamento con lo yoga al pomeriggio… sono tutti modi per agevolare il periodo in altura. E’ comunque stressante stare lontano da casa, dalla famiglia, magari arrivarci prima o dopo una corsa. Poi è anche vero che l’atleta sa sin dall’inizio della stagione che dovrà fare dei ritiri, che avrà i periodi delle corse, dell’altura, del recupero. Per fortuna solitamente questi camp si svolgono in luoghi molto belli. Penso al Teide che è un immenso Parco Nazionale riconosciuto dall’Unesco, alle Dolomiti, all’Etna… E quando chiedi ai ragazzi dei ricordi di questi ritiri sono tutti belli. Magari sul momento gli pesa di più, ma alla lunga hanno ricordi positivi. E questo è importante.

Se il clima è buono, pesano meno insomma…

E poi non va dimenticato un altro aspetto. I ritiri servono a formare il gruppo di lavoro, non solo per gli atleti ma anche per i tecnici. Ormai le squadre sono formate da 30 corridori e tanto personale e non capita poi spesso che si ritrovano tutti insieme. Avere i 6-8 corridori che dovranno andare al Giro insieme per due, tre settimane aiuta molto. Cementa il gruppo. In corsa poi si aiuteranno di più. Tra i tecnici c’è più confronto.

Il tuo Lorenzo Fortunato parlava giusto dell’incidenza del ritiro, della sua importanza, ma viene da chiedersi se poi questi ragazzi oggi a casa si allenano forte, se fanno intensità o ”solo” mantenimento.

No, no… a casa si allenano ancora molto. Alla fine in un anno i cicli in quota sono 2, massimo 3, e durano due, tre settimane… quindi a casa svolgono il resto del lavoro anche ad alta intensità, fanno il dietro motore. Pertanto ha un peso anche il lavoro a casa.

Pozzovivo diventa “maggiorenne” ed è pronto per il suo 18º Giro

24.04.2024
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Domenico Pozzovivo, mentre scriviamo, è in ritiro con la Vf Group Bardiani-CSF-Faizanè sull’Etna. Il lucano si appresta a correre il suo diciottesimo Giro d’Italia, anche questo rincorso e conquistato con un approdo tardivo nella formazione dei Reverberi. A differenza di altre volte, Pozzovivo è arrivato davvero in extremis alla Vf Group-Bardiani, iniziando la sua stagione a marzo. 

«Innanzitutto – racconta “Pozzo” – non avrei mai pensato di correre 18 Giri d’Italia, è un traguardo che più ci penso e più mi sembra considerevole. Però lo affronterò con la stessa attenzione ed entusiasmo del primo, negli anni ho mantenuto questa mentalità e ne sono felice. Uno dei motivi nel voler correre anche nel 2024 era la grande voglia che mi spingeva a farlo».

Pozzovivo ha già corso sei Giri d’Italia guidato dai Reverberi, dal 2005 al 2012 (saltando 2006 e 2009)
Pozzovivo ha già corso sei Giri d’Italia guidato dai Reverberi, dal 2005 al 2012 (saltando 2006 e 2009)
In questo avvicinamento qual è stata la fase più dura?

La biomeccanica. Ogni volta che cambio materiale – bici, scarpe, sella e tutto il resto – devo fare i miei adattamenti. Dopo l’incidente del 2019 è diventata una fase fondamentale e molto difficile, ma ne sono pienamente consapevole. Arrivare in una squadra nuova e correre subito è stata una scelta rischiosa, ma giusta. Il processo di avvicinamento al Giro è esattamente come me lo ero immaginato. 

Su cosa ti sei concentrato di più?

Sul ritrovare le giuste sensazioni in sella. Ogni anno sono riuscito a costruire un buon feeling con la bici e i materiali, era importante farlo anche quest’anno. L’aspetto su cui devo riporre maggiore attenzione è il fatto di avere il braccio sinistro meno mobile. Di conseguenza, ho meno forza e ciò condiziona l’anca destra in fase di appoggio. Ma devo dire che ho trovato il giusto equilibrio.

La 20ª stagione da pro’ di Pozzo è iniziata dalla Tirreno-Adriatico
La 20ª stagione da pro’ di Pozzo è iniziata dalla Tirreno-Adriatico
Sei partito dalla Tirreno, corsa non semplice…

Ero l’unico che esordiva in quella gara. Tutti gli altri atleti in gruppo erano al settimo giorno di corsa, come minimo. Però è stata la cosa migliore da fare. Ho ritrovato il colpo d’occhio nel pedalare in gara. In quei giorni la mia principale preoccupazione era la sicurezza, quindi evitare cadute. Ero spesso, più del solito (dice con una risata, ndr) in fondo al gruppo, cosa che mi ha penalizzato.

In che senso?

Dal punto di vista della prestazione correre in fondo non aiuta, si fa molta più fatica, soprattutto nel ciclismo di oggi. A me questa fatica maggiore è servita per migliorare.

L’obiettivo primario al debutto era trovare la giusta posizione in bici e il feeling con i materiali
L’obiettivo primario al debutto era trovare la giusta posizione in bici e il feeling con i materiali
La condizione a che livello era?

Mi sono allenato a casa, in autonomia, fino alla firma del contratto con i Reverberi. Mi sentivo bene, il mio livello di condizione l’ho ritenuto soddisfacente. Ho cambiato un po’ programma rispetto a quanto fatto negli ultimi anni. Non sono passato dal Tour of the Alps e dalla Liegi ma ho preferito correre il Giro di Abruzzo. La scelta è dovuta al fatto che l’Abruzzo si è corso prima e ho avuto più tempo per venire in altura a preparare il Giro. 

Come sta andando?

Le sensazioni crescono giorno dopo giorno. Il periodo di altura è di due settimane, tranne che per Pellizzari, Covili e Fiorelli che sono arrivati dopo. Personalmente è cambiato un po’ il modo di lavorare, nel senso che con TotA e Liegi prima del Giro si facevano pochi allenamenti specifici. Ora che l’ultima gara è terminata il 12 aprile, ho avuto più tempo, così mi sono trovato a fare più lavori dedicati al ritmo gara. Poi prima di venire sull’Etna avevo comunque fatto dell’altura, ad una quota più alta, 3.200 metri. Sono stato una settimana e mi ha fatto bene. 

La condizione è in crescita, l’ultima gara è stato il Giro d’Abruzzo: ora “Pozzo” è in altura con la squadra
La condizione è in crescita, l’ultima gara è stato il Giro d’Abruzzo: ora “Pozzo” è in altura con la squadra
Al Giro quale sarà il tuo obiettivo?

Sarebbe bello centrare la top 10, un risultato che alla mia età farebbe un gran piacere. In più una presenza in quella parte di classifica sarebbe un motivo di orgoglio e di visibilità per la squadra. Avrò al mio fianco tanti compagni giovani, penso che durante le tre settimane sarò un punto di riferimento per loro. In particolare penso di poter insegnare tanto a Pellizzari, sulla strada saremo spesso vicini vista la caratura fisica. 

Tu sei al diciottesimo Giro, lui al primo: che effetto ti fa?

E’ al suo primo Giro d’Italia, ma in un ciclismo molto diverso rispetto a quello del mio esordio nella Corsa Rosa. Io dovevo preoccuparmi di stare in piedi e di terminare le tre settimane di gara. Pellizzari, invece, arriva già pronto e con tutte le possibilità di puntare ad una vittoria di tappa. Avere me al suo fianco gli potrà togliere delle pressioni e riuscirà a correre più leggero. Sarò anche un po’ il suo parafulmine.

L’ascesa e la caduta di Dombrowski. In tempi troppo brevi

03.02.2024
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Tra coloro che hanno chiuso la propria carriera quest’anno, Joe Dombrowski rappresenta un caso a parte. Il perché è presto detto: non più tardi di un paio di stagioni fa l’americano aveva vinto una tappa al Giro e sfiorato il successo alla Vuelta, sembrava davvero un corridore quantomeno da classifica per corse a tappe medio-brevi, insomma un riferimento sicuro per ogni team che cercasse risultati e quindi punti. Un atleta ormai maturo per risultati importanti. La sua parabola è declinata rapidamente, fino a portarlo a 32 anni alla dolorosa decisione.

Dopo il suo annuncio, molti sono rimasti con la curiosità di sapere che cosa è successo e l’unica risposta poteva venire dalla sua stessa voce, per capire che cosa l’ha portato al ritiro: «In realtà il mio piano era quello di continuare, ma non ho trovato una squadra per la nuova stagione. È semplice ma è proprio così che è andata a finire».

L’americano ha cercato fino all’ultimo un ingaggio. All’Astana non c’era più posto
L’americano ha cercato fino all’ultimo un ingaggio. All’Astana non c’era più posto
Nel 2021 hai vinto una tappa al Giro e ci sei andato vicino alla Vuelta. Pensi che il passaggio all’Astana ti abbia penalizzato?

Non voglio dare la colpa alla squadra dicendo che non ho reso per questa o quella ragione, ma penso che per me l’ambiente era un po’ complicato. Qualcosa mi è mancato, in particolare nel mio secondo anno. Io sono approdato all’Astana con due grandi corridori per corse a tappe come Nibali e Lopez. E in realtà, mi è piaciuto molto correre il Giro nel 2022, stavo andando davvero forte. Forse dai risultati non sembra così tanto, ma in tutti i momenti chiave della gara ero lì con i migliori. Poi Vincenzo si è ritirato, Lopez ha avuto i suoi problemi come tutti sanno. Risultato, l’anno scorso non c’era più un vero leader per i grandi giri e la squadra era un po’ più concentrata sugli sprint con Cavendish. Io non sono un corridore che poteva aiutarlo, ero un pesce fuor d’acqua.

Nel senso che non avevi un ruolo?

Sì, ma c’è anche altro. Non controllavamo la gara all’inizio, dove molte volte vedi le squadre dei velocisti mettere un ragazzo davanti per tirare. All’Astana non lo facevamo. Sembrava una caccia al palcoscenico, dovevo cercare la fuga ma essa deve arrivare fino al traguardo. Io poi ero abituato a lavorare per qualcuno, ma chi? Non avevo più un ruolo.

Alla Sky due anni d’esordio difficili per Dombrowski, a causa di incidenti e problemi fisici
Alla Sky due anni d’esordio difficili per Dombrowski, a causa di incidenti e problemi fisici
Dopo la vittoria al Giro Under 23 con quali speranze eri passato professionista?

Potevo andare in quasi tutte le squadre perché ero giovane. E quando vinci qualcosa come il Girobio o il Tour de l’Avenir, hai un bel biglietto da visita. Il ciclismo è sempre alla ricerca di giovani talenti. Quindi avevo molte opzioni diverse e alla fine ho scelto Sky perché all’epoca era la squadra migliore e sembrava essere la più all’avanguardia o la più organizzata. Penso che all’epoca fossero un gradino sopra tutti gli altri.

Mentre oggi?

Ancora oggi la reputo come la squadra più grande nella quale ho corso. La combinazione tra l’essere neopro’ e la giovane età rendeva tutto magico. Sono stati un paio d’anni difficili. Ho lottato con un infortunio. Avevo un’endofibrosi dell’arteria iliaca e non ho fatto l’operazione fino al secondo anno, perché c’è voluto molto tempo per trovare il problema. Sono stato fermo tre mesi e anche questo ha reso le cose un po’ complicate.

In casa Cannondale (oggi EF Education EasyPost) il corridore di Marshall ha vissuto una grande maturazione
In casa Cannondale (oggi EF Education EasyPost) il corridore di Marshall ha vissuto una grande maturazione
Alla Cannondale sei stato 5 anni, che ambiente era e come ti sei trovato?

Credo che sia stata la squadra più divertente che ho avuto tra tutte le squadre del WorldTour in cui ho corso, forse perché a quel tempo era in fase di transizione. Quando era Garmin, forse era una delle squadre più americane del gruppo. Quindi con molti corridori americani, un po’ come la Movistar così spagnola o l’Astana kazaka per licenza, ma molto italiana. Avere tanti connazionali rende tutto più facile. Sentivo che molti corridori della squadra erano miei amici. Ho anche amici di tutte le squadre in cui ho corso, ma lì di più…

Alla Uae hai vissuto l’esplosione di Pogacar: quanto spazio avevi per le tue personali ambizioni?

Era già prima una super squadra. Un team con molti campioni dove c’era meno spazio per le ambizioni personali. Se vai a ogni gara e i tuoi compagni di squadra sono tra i migliori al mondo, è normale che in molti casi sia necessario lavorare per gli altri. Penso di avere avuto il mio spazio e penso che abbiano cercato di gestirlo bene come avviene per ogni corridore. Ad esempio, nei grandi Giri, hai una possibilità quando è il tuo giorno di andare in fuga, puoi puntare alle tappe. Se non ti concentri sulla classifica generale, è davvero un bel modo di correre se hai un leader e puoi essere lì intorno a lui, ma poi hai anche la libertà per scegliere i giorni in cui vuoi giocarti le tue chance. Sai che gran parte del tuo lavoro è supportare qualcun altro e i diesse vedono quando sei qualcuno che può essere un buon compagno di squadra.

La vittoria di Sestola al Giro 2021, un’azione imperiosa che l’ha portato alle soglie della maglia rosa
La vittoria di Sestola al Giro 2021, un’azione imperiosa che l’ha portato alle soglie della maglia rosa
Qual è stata per te la vittoria più importante?

Direi che la vittoria di tappa nel Giro è stata bella. Forse è stato un po’ agrodolce perché il giorno dopo sono caduto, quindi non l’ho potuta davvero assaporare, anche perché puntavo a vestire la maglia rosa. In testa c’era De Marchi e nella successiva tappa di montagna, dato che avevamo un buon distacco dai favoriti della classifica generale, avrei avuto un davvero un’ottima occasione per conquistare la maglia rosa. Credo comunque che sia stata davvero una bella vittoria.

Tu sei stato fra i più grandi talenti americani di questo secolo: il ciclismo americano di oggi è più o meno forte di quando sei passato professionista?

Direi che è più forte adesso. Ci sono così tanti bravi corridori americani. Guarda cos’ha fatto Kuss, ma anche Matteo Jorgenson ora suo compagno di squadra oppure Powless o McNulty. Ma ne dimentico sicuramente qualcuno, perché in realtà ce ne sono molti e anche molto giovani.

Vuelta 2021: lo statunitense insieme a Taaramae, che lo staccherà togliendogli il successo a Picòn Blanco
Vuelta 2021: lo statunitense insieme a Taaramae, che lo staccherà togliendogli il successo a Picòn Blanco
Tu hai vissuto per anni a Nizza: intendi tornare a casa o rimarrai in Francia?

Sto bene adesso, per ora abbiamo intenzione di restare qui. Non ho davvero intenzione di tornare negli Stati Uniti. Non ho un piano immediato per quello che farò. Amo il ciclismo e amo lo sport nel profondo. Ma ho interessi anche in altre cose. E penso che nei prossimi mesi vorrò prendermi del tempo per esplorare tutte le diverse cose che sono interessanti per me e poi sapere dove mi portano. Quello che ho imparato dal ciclismo è che amo il ciclismo. Vedremo cosa sto facendo e anche dove vivremo. Per ora continuo ad andare in bici, ma mi prendo del tempo anche per sciare…

Damiano Caruso: parole da veterano, voglia da ragazzino

11.12.2023
6 min
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ALTEA (Spagna) – Un sole, che non diresti proprio essere di metà dicembre, scalda i lettini e la piscina dell’hotel dove alloggia la Bahrain-Victorious. Il riverbero è forte e spesso mentre Damiano Caruso parla dobbiamo chiudere gli occhi. Semmai ce ne fosse stato il bisogno, è facile capire perché le squadre vengono qui in ritiro.

Anche se proprio il siciliano, come vedremo, ci dirà che dalle sue parti, Ragusa, non è che le cose siano peggiori. Anzi…

Damiano Caruso, 37 anni, parlotta con il nuovo direttore sportivo, Sonny Colbrelli che, ironia della sorte, è anche più giovane di lui. Ma sappiamo come è andata. Sul volto e nel tono di Caruso quel che regna è la serenità. Lo stato di grazia di chi è qui e apprezza il fatto di esserci.

Caruso (classe 1987), si appresta ad affrontare la sua 16ª stagione da professionista
Caruso (classe 1987), si appresta ad affrontare la sua 16ª stagione da professionista
Damiano sedicesima stagione da pro’, se non erriamo…

No, non sbagliate. E’ proprio così!

Dal tuo primo ritiro nel dicembre 2008 ad oggi cosa è cambiato?

L’approccio. Ai miei inizi, il primo ritiro era più un incontro per conoscere i compagni, i nuovi membri dello staff. Adesso è un ritiro più curato, anche dal punto di vista atletico. E infatti ci si arriva più preparati. Ma questo è normale, è conseguenza del fatto che bisogna arrivare alle gare se non proprio competitivi, con una base più che buona. Una base che ti permetta di crescere durante la stagione, altrimenti il rischio è di dover inseguire per tutto l’anno.

Per esempio tu arrivi qui ad Altea con quanti chilometri e quanti giorni di allenamento?

I chilometri precisi non li so. Ho chiuso la stagione praticamente subito dopo la Vuelta. Ho continuato a pedalare per 15 giorni, poi mi sono fermato tre settimane del tutto. Avevo bisogno di staccare, di rigenerarmi perché ho finito con 30.000 chilometri. Ora sono di nuovo in preparazione e quindi chiuderò l’anno solare con 33-34.000 chilometri.

Che di questi tempi non sono pochi…

Ho cominciato a riprendere seriamente a metà novembre, anche aiutato dal fatto che abito in un posto che non ha niente da invidiare alla Spagna. Di maltempo, per esempio, non ne ho mai preso. Esco con la divisa primaverile e in salita, quando salgo verso Ragusa, metto le maniche corte. Ho lo smanicato per le discese perché si suda. La scorsa settimana è stato incredibile: soffiava scirocco pieno e mi sono dovuto fermare 2-3 volte a prendere l’acqua. Era veramente caldo.

I quasi 70 chilometri a crono del prossimo Giro non dispiacciono affatto al siciliano…
I quasi 70 chilometri a crono del prossimo Giro non dispiacciono affatto al siciliano…
Insomma procede tutto bene?

Sì, ho fatto anche un po’ di palestra quest’anno per mantenere il fisico più tonico. Sin qui tutto sereno e senza particolari intoppi. In questo periodo basta un banale raffreddore, che perdi delle settimane importanti. E il rischio è di ritrovarsi ad inseguire a lungo.

E che stagione sarà quella di Damiano Caruso?

Una stagione che voglio vivere con la massima serenità. Chiaro, comincia una fase della mia carriera in cui bisogna navigare un po’ a vista. Ho già in mente dei periodi in cui mi piacerebbe essere competitivo. E non è un segreto, se dico che voglio farli corrispondere al Giro d’Italia. Ma  devo fare i conti anche con la mia età. Insomma, prima o poi il fisico chiederà il conto. Però di questa stagione mi piace anche il ruolo che sto avendo con i compagni giovani. Non tanto per insegnargli qualcosa, non sono un maestro, ma magari per trasmettergli la mia esperienza. Se qualcuno ha voglia di ascoltare o di avere punti di vista differenti, lo faccio volentieri.

Hai parlato di Giro. Noi l’abbiamo già scritto: Tiberi – Caruso è una è una gran bella coppia per la corsa rosa…

Ho avuto modo di conoscere Antonio durante l’estate e questo inverno abbiamo ricominciato. Ha tutte le carte per ambire a traguardi importanti. Non dobbiamo dimenticare però una cosa fondamentale: ha solo 22 anni. Qualche giorno fa ho letto un articolo così titolato: “Antonio, lo vedremo al Giro, ci dirà se è un campione o meno”. Questo non va bene. Perché mettere così tanta pressione a un ragazzo? Magari in quell’appuntamento dove tutti lo aspettano, per un motivo o per un altro, non va bene e cosa facciamo? Lo demoralizziamo.

Caruso in testa alla “sua” Bahrain (con le nuove divise e le nuove bici) e al suo fianco c’è già Antonio Tiberi (foto Instagram Bahrain)
Caruso in testa alla “sua” Bahrain (con le nuove divise e le nuove bici) e al suo fianco c’è già Antonio Tiberi (foto Instagram Bahrain)
Chiaro, serve il giusto equilibrio.

E noi abbiamo trovato un buon feeling. Ho cercato di spiegargli che il percorso di crescita, a meno che non sei Pogacar, più è regolare e meglio è. Gli servirà per la carriera, nel lungo periodo. Non deve avere l’assillo del risultato. Pensiamo a fare le cose per bene, poi eventualmente analizziamo gli errori e tutto il resto.

Damiano, parli proprio come un veterano e soprattutto con naturalezza. E allora ritorniamo al punto di partenza: chi era il Caruso di 16 anni fa al primo raduno? Come si sentiva dentro quel ragazzino?

Anch’io, come oggi tanti giovani, arrivavo al primo ritiro un po’ teso, ansioso, in punta di piedi. Ma anche con la voglia di far vedere che se ero lì, era perché avevo le qualità. Il mio primo ritiro da pro’ fu con la Lpr di Bordonali a Terracina. La sensazione era quella di un bambino che va al Luna Park. Cercavo di rubare con gli occhi. Oggi per me questo effetto sorpresa va a scemare. Però la voglia di venire al primo ritiro, di ricominciare, di conoscere i compagni… quella è identica. E poi anche perché questo primo ritiro ti lascia margine per fare due battute più del del normale. Questo fa sì che si senta meno il fatto che è il nostro lavoro. 

Capitolo Giro d’Italia. Si profila una gran bella occasione. Hai dato uno sguardo al percorso?

Mi piace. Per il corridore che sono, che ha sempre pagato nelle salite estreme, è un Giro che mi si addice e mi stuzzica. E infatti questo inverno ero indeciso col Tour. Sapete che a me piacerebbe entrare nel club dei corridori che hanno vinto al Giro, al Tour e alla Vuelta. Mi manca appunto la tappa in Francia. Ma sono consapevole del fatto che non posso andare al Tour avendo corso il Giro: non sarei abbastanza competitivo. Pertanto mi sono trovato a scegliere. La squadra è stata super onesta con me. Mi ha detto: «Damiano è una tua decisione, sentiti libero di prenderla». Alla fine ho optato per il Giro perché sento che il progetto che c’è mi può dare di più sia a livello personale che di crescita delle nuove leve.

Al Giro 2021 Caruso fu secondo alle spalle di Bernal e davanti a Simon Yates
Al Giro 2021 Caruso fu secondo alle spalle di Bernal e davanti a Simon Yates
E poi comunque sei il nostro miglior uomo per le corse a tappe…

Col Giro c’è un feeling speciale. E’ la corsa di casa e riesco a tirare fuori il meglio di me. Ad avere la giusta motivazione e la giusta cattiveria. Vedremo se la mia scelta pagherà. Ma a prescindere dal risultato, torno a dire che a 37 anni quello che verrà, sarà tutto di guadagnato. Per esempio quest’anno ho fatto ancora quarto e per me è stato un ottimo risultato. Non potevo chiedere di più, anche perché i tre corridori davanti a me erano palesemente più forti.

Discorso chiaro…

Non è una scusa, ecco. E’ consapevolezza. Io darò il massimo. Sono nella situazione che se Caruso va forte, bene. Se Caruso va piano, io in primis magari sarò dispiaciuto, però è una cosa che devo accettare, perché prima o poi la parabola comincia. Ma questo non significa che mi senta già battuto o appagato. Fosse così, smetterei subito. E invece sento che ho ancora qualche cartuccia da sparare.

Perché la gente vuole così bene a Caruso?

Forse perché ho questo brutto vizio di dire sempre quello che penso. La gente non è scema, la gente percepisce quando una persona mente o parla col cuore. Quindi immagino sia per questa franchezza. Ed è così nelle interviste e nel quotidiano con chi mi sta attorno. Raramente in questi 15-16 anni ho avuto qualche problema con qualche compagno. Mi piace vivere sereno e mi piace pensare che riesco a trasmettere questa serenità.

La forma per il primo ritiro? Almeno al 50 per cento…

02.12.2023
5 min
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Nel ciclismo della continua evoluzione, cambia anche l’approccio al primo ritiro. Tra pochi giorni cominceranno i training camp. Atleti, staff, preparatori si ritroveranno e di fatto daranno vita alla nuova stagione. Ma se una volta il ritiro di dicembre era davvero quello della ripresa, adesso è già un momento piuttosto impegnativo.

Ma quanto più impegnativo? E soprattutto, come si arriva a questo primo ritiro? Ne abbiamo parlato con coach Claudio Cucinotta, uno dei preparatori ormai storici dell’Astana Qazaqstan.

Claudio Cucinotta, classe 1982, è uno dei preparatori dell’Astana
Claudio Cucinotta, classe 1982, è uno dei preparatori dell’Astana
Claudio, sentendo gli stessi corridori sembra che oggi bisogna arrivare pronti anche al ritiro. Si va forte anche lì. E’ davvero così?

In un mondo che va forte, in cui nella vita di tutti i giorni si corre, anche nel ciclismo è così. In effetti il periodo di vacanza degli atleti si è ridotto e con esso anche quello di transizione, cioè delle attività alternative, come le camminate, le nuotate, la mtb…. Ormai s’inizia a gennaio e soprattutto chi deve andare in Australia non può arrivarci al 70 per cento. Se oggi ti presenti così, ti lasciano in mezzo alla strada. Anche se sei un campione. Senza contare che prendi delle gran tirate d’orecchie, fuorigiri talmente grandi che diventano controproducenti.

Quindi come si arriva al primo ritiro? Com’è questo approccio?

Un po’ tutti i team iniziano nella prima settimana di dicembre e finiscono poco prima di Natale. Noi in Astana Qazaqstan, per esempio, andiamo in Spagna dal 6 al 20 dicembre. Io credo che un atleta oggi debba arrivare al primo ritiro al 50 per cento della forma almeno. Deve avere una buona base. Deve presentarsi con le tre ore e mezza, anche quattro, nelle gambe. Qualche anno bastava un’ora di meno, circa.

Definisci “qualche anno fa”.

Prima del Covid, quindi 2019. Ormai il Covid ha segnato una sorta di “prima e Dopo Cristo”, un cambio epocale. E si vede dalle prestazioni. Devi essere sempre sul pezzo.

Quindi se prima era un ritiro dove partire da zero o quasi, adesso è più avanzato. Viene dunque da chiedersi: cosa si fa in ritiro?

Sostanzialmente si lavora sulla base, la base aerobica, Z2 o Z3, ma affiancandoci anche dei lavori, la forza, anche in palestra.

Specie nel primo ritiro la palestra è un punto fisso. I bilancieri non mancano mai
Specie nel primo ritiro la palestra è un punto fisso. I bilancieri non mancano mai
Palestra?

Sì, sì… si presuppone che il corridore stia facendo palestra già da un po’ e in questa fase della preparazione sospenderla per due settimane (tanto dura il ritiro) non avrebbe senso. Durante il camp si fanno almeno due sedute di palestra a settimana. E infatti i team oggi scelgono hotel attrezzati o in alternativa si attrezzano essi stessi, portando dei bilancieri.

Claudio, prima hai detto che si riducono i tempi del riposo. Spiegaci meglio…

Il riposo assoluto oggi è mediamente di due settimane, qualcuno che ha avuto una stagione più intensa o un finale lungo può arrivare a tre. Poi si riprende e il periodo di transizione, cioè delle attività alternative ormai è davvero breve, una settimana, dieci giorni al massimo. Poi si inizia a pedalare. 

Facciamo un esempio concreto di un corridore dell’Astana che sa che il 6 dicembre deve presentarsi in ritiro. Quando riprende?

Ai primi di novembre ha ripreso ad allenarsi in bici, pertanto arriva a fine mese che quelle tre ore e mezza, quattro, le tiene benone. Quindi arriva in ritiro con già 4-5 settimane di pedalate e palestra. Io farei fare anche la mtb come attività alternativa in questo contesto: è pur sempre il gesto della pedalata e si richiama la tecnica. Per quel che mi riguarda la mtb la farei fare un paio di volte anche nel pieno della stagione. Poi ci può stare qualcuno sia un po’ in ritardo. Questo infatti è il periodo per sistemare eventuali problemi: rimovere qualche placca da una clavicola, un intervento ai denti… e allora è un po’ più indietro.

In chilometri ci sono differenze? Oggi con quanti chilometri si presentano?

Sono 15 ore di allenamento in sella a settimana mediamente, quindi direi almeno 1.500 chilometri, forse anche 2.000. In passato erano 500-600 di meno, cioè un 30 per cento in meno. 

Avere un buon peso già al primo ritiro è molto importante. Qui il dottor Borja della Green Project-Bardiani controlla uno dei suoi corridori
Avere un buon peso già al primo ritiro è molto importante. Qui il dottor Borja della Green Project-Bardiani controlla uno dei suoi corridori
E il 30 per cento in meno di chilometri corrisponde anche al livello di forma generale?

Direi proprio di sì. Chiaro che sono numeri grossolani, ma pur sempre indicativi.

E questo vale anche per il peso?

Certamente. Anche il peso deve essere buono. Però è anche vero che essendosi ridotti i tempi del riposo, gli atleti hanno anche meno tempo per ingrassare. Prima i 5-6 chili in più erano la norma, adesso si oscilla fra i 2 e i 4 chili. Se sono di più è un problema, specie per chi deve andare in Australia. Alla fine dall’inizio del ritiro alla prima gara c’è poco più di un mese e perdere tutti quei chili in un mese è un problema su cui intervenire.

Prima abbiamo accennato a cosa si fa in ritiro, si può dare anche una stima dei chilometri?

Posto che dipende anche dal meteo, direi sui 1.200-1.500 chilometri. In questa fase i ragazzi vanno abbastanza tranquilli, anche se qualche lavoro non manca e non solo in Z2 o Z3, magari si fanno lavori di forza o anche ad altissime intensità, come gli sprint, ma sono molto brevi. Insomma non si va ad intaccare la soglia o il fuorisoglia. Non c’è ancora una base abbastanza ampia e solida per supportare quei lavori. Lavori che invece vengono fatti nel secondo ritiro, quello di gennaio. Magari in questo primo camp i ragazzi possono “giocare” per un momento, e ci sta anche bene, ma non devono fare tutto l’allenamento tirato.

Boaro: il tempo di dire addio, poi quella telefonata…

29.10.2023
6 min
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Neanche il tempo di appendere la bici al chiodo, di assimilare un totale cambio di vita che Manuele Boaro si è subito rituffato nel mondo del ciclismo. «Il giorno dopo la mia ultima corsa, la Veneto Classic, è squillato il telefono. Dall’altra parte c’era Alberto Volpi che mi ha chiesto se me la sentissi di affiancarlo nella guida del JCL Team Ukyo, il team giapponese del quale è diventato manager. Non ci ho pensato un attimo, gli ho detto subito sì. Mi sono tuffato in una nuova avventura con lo stesso entusiasmo di quando 13 anni fa ho iniziato il mio cammino fra i pro’».

Boaro ha chiuso a 36 anni con convinzione. Non perché il fisico gli dicesse di smettere, anche se le varie stagioni passate in giro per il mondo si facevano sentire. Questo ciclismo però non riusciva più a gestirlo dal di dentro.

«Sapendo che avevo il contratto in scadenza – spiega – ho provato a muovermi. Dopo anni i manager li conosco tutti, li ho contattati personalmente. Ma al di là di un po’ di “vediamo, ti faccio sapere” non avevo avuto nulla. Qualcosa magari sarebbe anche saltato fuori, ma mi sono chiesto se avrebbe avuto un senso. Poi ho saputo che la Veneto Classic passava proprio per il mio paese, davanti casa mia. Allora ho pensato che sarebbe stata la maniera migliore per chiudere».

La grande festa per il suo ritiro all’ultima Veneto Classic, con il fans club schierato al completo
La grande festa per il suo ritiro all’ultima Veneto Classic, con il fans club schierato al completo

L’ultimo dei veri gregari?

Una decisione presa proprio qualche giorno prima, ma il poco tempo è bastato per allestire una grande festa per salutarlo come si conveniva: «Sono venuti in tanti, il fans club si è mobilitato alla grande e quel giorno è stato un turbinio di emozioni. Posso dire di aver chiuso in bellezza, credevo che la mia storia ciclistica si sarebbe chiusa lì. Invece neanche poche ore dopo rieccomi coinvolto, ma in maniera completamente diversa».

L’addio di Boaro è anche l’addio di uno degli ultimi veri gregari. Il suo racconto della ricerca vana di un contratto non fa che confermare la sensazione che questa figura stia ormai sparendo: «In questo ciclismo, fatto di numeri, siamo noi quelli che vengono penalizzati. Le squadre chiedono corridori che portino punti, il principio del “siamo tutti capitani” è ormai imperante. Ma attenzione: chi lavora per la squadra nella prima parte di gara, quando non ci sono le telecamere, quando si gettano le basi della corsa e bisogna proteggere e stare vicino al capitano di turno?

«Il risultato è che le corse professionistiche stanno diventando come quelle dei dilettanti – prosegue Boaro – pronti via ed è subito bagarre. Ma a lungo andare questo modo di correre logora, bisognerà vedere come l’intero ambiente reagirà quando corridori come me o come Puccio non ci saranno più».

L’esempio di Rijs

Boaro è sempre stato molto convinto della sua scelta: «Non ero un campione quando sono passato professionista e ho capito presto che dovevo trovare una mia dimensione. Ho avuto la fortuna di correre insieme a grandi campioni come Contador, Nibali, Sagan e posso dire di aver contribuito ai loro successi. Il che mi ha permesso di vivere una carriera densa di bei momenti e di soddisfazioni, ma anche di contatti umani, il che è fondamentale».

Ripercorriamo allora la sua carriera, fatta di poche squadre perché quando Manuele era nel team, ne diventava una colonna: «Ho iniziato con la Saxo Bank diventata poi Tinkoff, ben 6 anni in quel gruppo. Avevo Bjarne Riis come manager ed è stato preziosissimo, mi ha insegnato tanto su come vivere questo ambiente, tutte nozioni che mi saranno ancora utili ora che passo dall’altra parte… Era davvero un numero 1 nel ciclismo, ma anche fuori sapeva far gruppo. Alla sera ad esempio, se si poteva ci faceva anche andare in discoteca, oggi quando mai? Mi dispiace che non sia più nell’ambiente. Poi le cose con la Tinkoff non sono cambiate: era un gruppo bellissimo, andare in ritiro era un piacere».

Nel 2017 Boaro approda alla Bahrain-Merida, per due anni, ma quella era una squadra ben diversa da quella di oggi: «Stava nascendo allora, dal niente. Mi ritrovai in una squadra tutta da impostare, non fu facile. Di quegli anni ricordo il primo Giro al fianco di Nibali: mamma mia quanta gente, quanto entusiasmo. Peccato che finimmo terzi e uso il plurale volutamente perché con Vincenzo era davvero un lavoro di gruppo e mi dispiacque tanto che non riuscì a cogliere il risultato pieno, la gente l’avrebbe meritato. Con lo Squalo siamo rimasti sempre in contatto, ritrovandoci all’Astana e ancora adesso ci sentiamo spesso».

Sul palco con le piccole Matilde e Sofia. Ora inizia la sua nuova carriera da diesse
Sul palco con le piccole Matilde e Sofia. Ora inizia la sua nuova carriera da diesse

Lopez, talento cristallino

Astana, un’avventura iniziata nel 2019 e portata avanti fino a qualche giorno fa: «E’ una squadra in forte cambiamento. Io arrivai che avevano Fuglsang che era uno dei grandi per le classiche e Lopez per le corse a tappe e a proposito del colombiano devo dire che è un corridore fortissimo. Abbiamo condiviso anche la camera insieme, io ho provato a consigliarlo, a stargli vicino, può ancora fare tanto. Purtroppo ha cambiato numero e ci siamo persi di vista, ma io non posso dirne che bene».

Torniamo però al cambiamento: «L’Astana è un team in cerca d’identità, era nato per i grandi Giri ma ora sta progressivamente diventando una squadra per le corse d’un giorno. Anche per questo non avevo più molto spazio. Io però le sono ancora molto legato».

Boaro ha sempre avuto grande predisposizione per le cronometro, finendo 2° ai tricolori 2012
Boaro ha sempre avuto grande predisposizione per le cronometro, finendo 2° ai tricolori 2012

In Giappone per imparare

Ora comincia una nuova avventura: «E’ la dimensione giusta, una squadra piccola, ma che ha una lunga storia alle spalle. Io devo imparare tutto, farlo in un team continental che ha però prestigio e ambizioni è la cosa giusta. Starò al fianco di Alberto per imparare ma lo farò in prima linea. Avrei potuto farlo anche all’Astana, ma sarei stato il nono diesse, in fondo alla gerarchia, non era giusto per loro e per me».

Chiudendo c’è qualche rammarico? «Se mi guardo indietro no, sono contento di come sono andate le cose. Forse l’unica che mi manca è una maglia tricolore nella cronometro, perché quando ho iniziato da pro’ andavo piuttosto bene, ma nel 2012 persi con Malori per soli 7”. Vestire il tricolore sarebbe stato bellissimo. Ma va bene così: molti mi dicono che nessuno farà più quello che ho fatto e forse, visto il ciclismo di oggi, sarà proprio così».

L’addio di Van Avermaet, un uomo comune in cima al mondo

22.10.2023
6 min
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«Quando diventi professionista, è un punto di partenza, è come se tutti partissero alla pari, devi semplicemente metterti alla prova e capire dove puoi arrivare. E io sono stupito di dove sono arrivato». In queste parole è racchiusa l’essenza della carriera di Greg Van Avermaet, che alla Parigi-Tours ha chiuso la carriera durata 16 anni e contraddistinta da 42 vittorie. Alcune di peso specifico enorme, come l’oro olimpico di Rio 2016 che gli ha ritagliato un posto fra i grandi del ciclismo belga. Per questo il suo ritiro non poteva passare inosservato.

«Quando ho iniziato – racconta – ero uno dei tanti. Avevo ambizioni, certo, volevo incidere, chi non lo vuole? Pian piano ho sentito che in certe gare come le classiche mi sentivo di essere migliore di tanti. Ma non avrei mai pensato di arrivare in cima, al numero 1 del ranking. Eppure è successo».

Greg con la figlia Fleur. Ora avrà la possibilità di godersi di più la famiglia, cosa che gli è mancata
Greg con la figlia Fleur. Ora avrà la possibilità di godersi di più la famiglia, cosa che gli è mancata

Un portiere mancato

D’altronde non potrebbe essere altrimenti, considerando le sue origini sportive. Da ragazzino, Greg non sognava di essere un ciclista, lui che pure veniva dalle Fiandre, che aveva avuto un nonno corridore professionista e un padre buon dilettante. Lui non guardava a Merckx o De Vlaeminck, Museeuw o Boonen, i suoi idoli erano Pfaff e Preud’homme. Greg voleva fare il calciatore o meglio il portiere. Era arrivato proprio alle soglie del grande calcio, a 17 anni militava nel Beveren, squadra di prima divisione belga avversaria tante volte dei nostri club nelle Coppe. Quel sogno s’infranse un giorno, con un grave infortunio. La riabilitazione passò per la bicicletta e Greg scoprì che nella sua vita era pronto un piano B.

«Quando ho iniziato – ricorda – c’era gente come Armstrong, Hincapie, Museeuw, Cancellara. E’ stato meraviglioso misurarsi con loro e crescere attraverso di loro».

Uno in particolare è stato il suo mentore, quasi senza saperlo: «Per me Hincapie era un’ispirazione, aveva un’atmosfera particolare intorno a sé e tanti anni dopo ho capito che io lo ero diventato per gli altri. Era bello vedere ragazzi come Florian Vermeesch venire in corsa vicino a me a chiedere consigli. Anche questo significa aver fatto la propria parte».

La storia di Van Avermaet è fatta anche di cadute, soprattutto al Giro delle Fiandre (foto Velo Online)
La storia di Van Avermaet è fatta anche di cadute, soprattutto al Giro delle Fiandre (foto Velo Online)

Il ritratto… ripetuto

Sedici anni di carriera sono contraddistinti da tanti episodi. Ma per descrivere l’uomo oltre il campione, può bastarne uno, quasi avulso dalle corse, dalle vittorie e sconfitte. Lo raccontava James Startt, fotografo americano alla rivista Velo Outside.

«Ogni anno Greg ha preso parte alla trasferta canadese – ha detto – per preparare al meglio i mondiali. Alloggiava sempre allo Chateau Frontenac, storico hotel nel cuore di Quebec City. Nel 2018, dopo l’allenamento, gli dissi che avevo trovato un angolo nella reception molto particolare, con una sedia del XVIII secolo circondata da dipinti storici con cornici in foglia d’oro, dove fare un ritratto, lui vestito da ciclista in un contesto completamente diverso.

«Lui, con la divisa BMC, assunse pose che mi piacevano molto per il contrasto che esprimevano e al contempo per quel che dicevano del personaggio. Quand’era tutto fatto, mi arrivò un messaggio dall’addetto stampa: le foto non si potevano usare, non aveva usato le scarpe da ginnastica del team perché aveva fastidi a un piede. Entrai nel panico, la foto era già stata spedita, ma a risolvere le mie difficoltà e i miei timori intervenne lo stesso Greg, disposto a rivestirsi di tutto punto e rifare tutto. Provate a chiedere oggi la stessa cosa…».

Il particolare ritratto scattato da James Statts nel 2018. Una storia dietro questo scatto
Il particolare ritratto scattato da James Statts nel 2018. Una storia dietro questo scatto

Talento e buon fiuto

Van Avermaet può essere considerato l’esempio di come si possa arrivare lontano attraverso due ingredienti specifici: talento e un buon fiuto, che ti consentono di stravolgere anche quelle regole che sembravano scritte. La sua vittoria più grande è figlia di questa regola, il titolo olimpico di Rio 2016: non era una gara per lui, alla vigilia nessuno avrebbe scommesso sulle sue possibilità, lui splendido passista in una gara che sembrava disegnata apposta per chi sapeva andare in salita.

La corsa si era messa esattamente come si prevedeva. Anzi, il suo epilogo sembrava segnato quando Vincenzo Nibali lanciò l’attacco in compagnia del colombiano Henao. In discesa lo Squalo stava costruendo il suo capolavoro, ma una malefica curva lo tradì. Van Avermaet era dietro, ma era sopravvissuto, fra crisi e cadute altrui, fino ad approdare alla gloria eterna.

Van Avermaet con l’oro di Rio 2016, secondo belga a conquistarlo alle Olimpiadi
Van Avermaet con l’oro di Rio 2016, secondo belga a conquistarlo alle Olimpiadi

La maledizione del Fiandre

La sua è stata una carriera di vittorie e fallimenti, anche nei suoi due anni più ricchi: il biennio 2016-17. Nel 2016 era partito fortissimo con le vittorie all’Omloop Het Nieuwsblad e alla Tirreno-Adriatico, era stato 5° alla Sanremo e prometteva sconquassi alle classiche, ma una rovinosa caduta al Fiandre gli costò la frattura della clavicola. Sembrava che la stagione fosse ormai persa, invece risorse dalle sue ceneri approdando alla vestizione della maglia gialla al Tour e all’apoteosi di Rio. Nel 2017 la caduta sull’Oude Kwaremont al Fiandre, quando davanti Gilbert era ancora raggiungibile: quel giorno la classica che più amava sfuggì ancora una volta, la definitiva. Ma sette giorni dopo, Greg sbaragliò la concorrenza a Roubaix.

La carriera di Van Avermaet ha sempre avuto in Sagan un punto di riferimento, il suo contraltare ed è curioso che i loro ritiri siano avvenuti a una settimana di distanza, quasi un segno del cambio generazionale. Due personaggi molto diversi fra loro, caratteri opposti. Molti rivedono nella loro rivalità quella attuale fra Van Der Poel e Van Aert, dimenticando probabilmente che quest’ultima non è però scaturita dal ciclismo su strada, ma è figlia di un processo più lungo e passato attraverso il ciclocross.

Van Avermaet e Sagan al mondiale 2017. La loro rivalità è stata il sale del ciclismo per anni
Van Avermaet e Sagan al mondiale 2017. La loro rivalità è stata il sale del ciclismo per anni

Fermarsi in tempo

Van Avermaet, nel suo passo d’addio, ha rivolto un particolare pensiero al suo rivale slovacco: «Peter ha vinto molto più di me, ma quand’eravamo sul mio terreno ho potuto batterlo alcune volte e questo rende le cose più belle. Lo rispetto molto, ha reso la mia carriera ancor più bella».

Probabilmente “Golden Greg”, come viene chiamato da quel giorno di Rio, avrebbe potuto ancora continuare, ma del suo ritiro si sapeva già dalla primavera.

«Io mi diverto ancora, mi piace pedalare – ha raccontato – ma sento che quel livello, quello del ciclismo di oggi, non mi appartiene più. Le classiche non sono state un granché, così ho deciso che poteva bastare, mi scadeva il contratto con l’AG2R Citroen Team e non mi sono neanche messo a cercarne un altro. E’ meglio fermarsi quando ancora si esprime qualcosa. Io sono ancora preparato, ma non ho più lo scatto di prima e così anche una top 10 diventa proibitiva. Allora mi chiedo, a cosa servirebbe? Sono contento di quel che ho fatto».

Oss: «Vi racconto la mia amicizia con Sagan»

06.10.2023
6 min
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Una carriera vissuta insieme. Non solo per le strade del mondo, pedalando, perché quando condividi un lavoro che è anche una passione, si sviluppano connessioni strette, quasi inaspettate che vanno al di là e allora condividi confidenze, speranze, illusioni, gioie alternate a delusioni. Peter Sagan ha deciso di lasciare il ciclismo professionistico (non l’agonismo perché il suo sogno olimpico lo ha riportato verso le radici della mountain bike) e Daniel Oss è un po’ orfano. Il trentino continua, va avanti per la sua strada portando con sé un grande bagaglio di ricordi.

La loro amicizia è di lunga data: «Ci siamo conosciuti in Liquigas, lui è arrivato nel 2010, io ero già lì da un anno. Poi ci perdemmo quando io passai alla Bmc mentre lui continuò nel team che era diventato Cannondale, ma le strade che frequentavamo erano le stesse, alle partenze non mancava mai qualche parola, poi ci siamo ritrovati insieme nel 2018 e abbiamo continuato. Non capita spesso che due carriere procedano spedite di pari passo con l’amicizia, è qualche cosa che il ciclismo ha saputo regalarci».

Lo slovacco ai mondiali di Mtb 2023. Ora si dedicherà alla mountain bike puntando ai Giochi di Parigi
Lo slovacco ai mondiali di Mtb 2023. Ora si dedicherà alla mountain bike puntando ai Giochi di Parigi
Che cosa vi unisce?

Tanto. Diciamo che siamo ciclisticamente compatibili: ci piacevano le classiche prima di tutto, poi avevamo le stesse idee sulla gestione delle gare, anche fisicamente essendo entrambi abbastanza possenti ci trovavamo bene a collaborare, io potevo tirarlo nelle volate evitandogli di prendere aria, potevo risolvere alcune situazioni in gruppo per fargli trovare la posizione più favorevole.

Ma ciclismo a parte?

Siamo simili anche nella vita, abbiamo una mentalità da velocisti. Io dico sempre che un velocista e uno scalatore sono molto diversi non solo in gara, ma anche come approccio alla stessa quotidianità. A me e Peter piace la stessa musica, cii troviamo d’accordo su molte cose. Non su tutto, abbiamo avuto anche noi i nostri confronti, ma in un’amicizia ci stanno. Un amico è anche chi al momento che serve ti mette davanti alla realtà nuda e cruda e noi l’abbiamo sempre fatto. Ma c’è anche altro…

Lo slovacco con Oss, suo compagno per tanti anni, cementando un’amicizia profonda
Lo slovacco con Oss, suo compagno per tanti anni, cementando un’amicizia profonda
Che cosa?

Abbiamo sempre cercato di sdrammatizzare. Il ciclismo è importante, è il nostro lavoro, ma in fin dei conti è una gara, finita quella ce ne sarà un’altra, quindi diamo il giusto valore a vittorie e sconfitte. Questo non significa non essere professionali, anzi. C’era il momento per scherzare e il momento per applicarsi con tutto se stesso, su questo Peter è sempre stato molto intransigente, ma cercavamo di affrontare tutto col sorriso, non per niente il suo motto è sempre stato “why so serious?”.

La sensazione è che il suo modo di essere, forse anche guascone in certi frangenti, sia servito a cambiare il ciclismo, che oggi è profondamente diverso da quello dei vostri inizi…

La sua filosofia positiva è sicuramente servita. Prima si parlava solo di ciclismo eroico, con stereotipi vecchi e che non erano più legati così strettamente all’attualità. Noi abbiamo dato un segno di cambiamento. Sagan ha capito che si poteva essere al top dando un’immagine diversa, d’altro canto ha subito intuito di essere un personaggio che faceva breccia, sia esteticamente che con il suo fare. Questo ha contribuito a dare una svolta, a mostrare l’immagine di gente che non solo fatica, ma si diverte anche.

Sagan è stato iridato junior di mtb, disciplina nella quale meglio esprime la sua estrosità
Sagan è stato iridato junior di mtb, disciplina nella quale meglio esprime la sua estrosità
Quanto hanno contribuito i social in tutto ciò?

Enormemente, sono stati lo strumento, ma è stato bravo lui a saperli usare nel modo giusto. La gente vedeva gli spot, i suoi passaggi in tv mai banali, magari sempre con qualche battuta. E’ sempre stato una star, ma Sagan ha anche saputo usare i social per dare risalto a chi era con lui: sponsor, collaboratori, compagni, anche particolari vicende. Poi però il ciclismo ha preso una via sua, diversa da quella che intendiamo noi.

In che senso?

Molti uniscono Sagan alle generazioni attuali, ma non è così. Oggi c’è una concentrazione massima, una pressione enorme, quel disincanto è andato un po’ perdendosi nei campioni di oggi, quasi meccanici nel loro agire. E’ una metodica portata allo stremo a scapito di quella goliardia che faceva bene a questo sport. Forse Pogacar con la sua leggerezza nell’affrontare ogni gara, magari anche col proposito di vincere sempre è quello più vicino al suo e nostro modo di essere.

L’ultimo dei mondiali vinti da Sagan, nel 2017 battendo in volata Kristoff
L’ultimo dei mondiali vinti da Sagan, nel 2017 battendo in volata Kristoff
C’è però da chiedersi se questi suoi ultimi anni, soprattutto il periodo alla TotalEnegies, li abbia vissuti con la consapevolezza di un lento tramonto agonistico…

Tutti sappiamo che prima o poi si va verso la fine di questa bellissima parentesi che però è sempre tale. Sagan è stato per almeno una dozzina d’anni sulla cresta dell’onda, i campioni di oggi, i Van Aert e Van Der Poel li ha battuti. E’ attraverso di lui che il ciclismo ha vissuto un cambio generazionale. E’ un decorso naturale, che porta il fisico a non dare più le risposte di prima ma anche al venir meno delle motivazioni. Peter non si è mai tirato indietro, non ha mai smesso di onorare i contratti che firmava, l’impegno è sempre stato massimo, ma certamente non poteva più garantire i risultati di prima.

Fa un certo effetto vedere che nella sua ultima gara, il Tour de Vendée, abbia tirato la volata a Dujardin…

Io ci vedo qualcosa di romantico, è una bella immagine. Sagan si è sempre fatto in quattro per gli altri, il suo gesto è un po’ un passaggio di consegne verso le nuove generazioni, ma fa parte del suo essere. Non potrò mai dimenticare il mondiale del 2018, quando si presentò sul palco davanti a Valverde che aveva vinto per stringergli la mano: «Te la presto – riferendosi alla maglia – ricordati che la rivoglio indietro». E’ un personaggio sempre, che sa anche darsi alla gente. Non ricordo un posto dove siamo stati, nel mondo intero, dove qualcuno non sia venuto per un autografo, un selfie, un semplice saluto e lui non dice mai di no.

L’immagine del bellissimo post che l’Uci ha pubblicato per riassumere la lunga carriera di Sagan
L’immagine del bellissimo post che l’Uci ha pubblicato per riassumere la lunga carriera di Sagan
La vostra è un’amicizia che va al di là del ciclismo?

Sicuramente, conosco tutti i suoi fratelli, la famiglia. Abitiamo molto lontani, lui si divide fra Montecarlo e Zilina, la sua città. Poi sinceramente quando condividi una stagione intera, stesse strade, stesse camere d’hotel, quando stacchi vuoi stare con la tua famiglia. Ora magari avremo occasione per vederci fuori corsa, magari condividere qualche vacanza con le nostre famiglie. La nostra amicizia rimarrà al di fuori del ciclismo e magari neanche ne parleremo più.

Sanchez ha detto basta: ultimo, ma da vincitore

25.09.2023
5 min
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Vuelta, tappa con arrivo a Bejes. Vingegaard, il vincitore è arrivato da 19 minuti, i Jumbo-Visma hanno sistemato la loro classifica, ma la gente non è andata via. E’ lì. Aspetta. Aspetta che Luis Leon Sanchez arrivi al traguardo. E’ caduto, i dolori gli fanno compagnia nelle faticose pedalate verso il traguardo. E’ ultimo, ma la gente gli tributa un’ovazione come se fosse il primo. Perché sa che non lo vedrà più correre.

L’arrivo a Rejes, ultimo e staccato, con i segni della caduta. La folla lo acclama come se avesse vinto
L’arrivo a Rejes, ultimo e staccato, con i segni della caduta. La folla lo acclama come se avesse vinto

20 anni da professionista

Sanchez ha deciso di chiudere. «Avevo già detto che lo avrei fatto a Madrid, chiudendo la mia ultima Vuelta – afferma ai giornalisti presenti – e neanche l’ultima, ennesima caduta della mia carriera me lo impedirà. E’ un atto dovuto a tutti i miei tifosi, per ringraziarli del sostegno che non mi hanno mai fatto mancare. Il mio sogno era di fare anche un solo anno da professionista: ne ho fatti 20…».

Sanchez è uno che ha vinto, tanto: 47 successi in carriera, fra cui 4 tappe al Tour de France e 2 Clasica di San Sebastian, oltre a 5 titoli spagnoli di cui 4 a cronometro. Ma non è con queste che è riuscito a essere più popolare anche di suo fratello Pedro Leon, calciatore del Murcia passato anche nelle fila del Real Madrid di Mourinho e ricordato con poco piacere dai tifosi del Milan per quel gol al 93° in Champions League 2011 costato la vittoria. Non è con queste che è riuscito a far passare sotto traccia la sospensione per doping che lo ha coinvolto nel 2015, quand’era nelle file dell’olandese Blanco/Belkin per essere legato al famigerato dottor Fuentes, quello dell’Operation Puerto. Sospetti costatigli tutta la stagione ma mai effettivamente affluiti verso una vera squalifica.

Sanchez premiato a Madrid, dopo la conclusione della sua ultima Vuelta, la tredicesima
Sanchez premiato a Madrid, dopo la conclusione della sua ultima Vuelta, la tredicesima

La perfetta vita da atleta

La grande forza di Sanchez è stata la sua simpatia, la sua disponibilità. Stefano Zanini ha vissuto parte della sua vita ciclistica insieme allo spagnolo, dal 2015 a oggi all’Astana con la parentesi del 2022 alla Bahrain Victorious e lo conosce bene: «Lo conoscevo già, nei miei ultimi anni da corridore lui iniziava la sua avventura e si vedeva il suo talento. Sanchez è quello che si chiama uomo-squadra, quell’elemento che tutti vorrebbero avere all’interno del proprio team perché fa gruppo ed è di esempio ed è su questo aspetto che voglio mettere l’accento.

«Lo spagnolo è sempre stato un corridore vecchio stampo. Uno attentissimo a ogni aspetto della propria vita d’atleta, guardava all’alimentazione, alla preparazione con un’attenzione pari a quella di oggi, ma quando lui iniziò non era così. E’ stato un antesignano. Un professionista vero, che non ha mai mollato neanche un secondo.

La vittoria nella tappa del Tour del 2008, battendo il tedesco Schumacher poi squalificato e Pozzato
La vittoria nella tappa del Tour del 2008, battendo il tedesco Schumacher poi squalificato e Pozzato

Gli esercizi per la schiena malandata

«Tanto per fare un esempio, Luis ha sempre avuto una particolare attenzione per la schiena, sentendo col passare degli anni i naturali problemi di postura e di risentimento che l’attività può comportare. Ebbene, non ha mai rinunciato agli esercizi specifici, neanche a fine carriera. Un altro avrebbe potuto mollare, lui no, fino all’ultimo giorno è stato un professionista serissimo».

Tra le vittorie, quali pensi siano quelle che tiene nel cuore? «Si sarebbe portati a dire le due prove di San Sebastian perché per uno spagnolo vincere in casa è il massimo, ma so che tiene particolarmente ai successi al Tour perché è l’espressione ciclistica per eccellenza. Ad esempio quella del 2012, quando dopo la lunga fuga è ancora in testa con 4 uomini fra cui Sagan ma approfitta della distrazione dello slovacco per allungare senza essere più ripreso».

Il momento dello scatto decisivo nella tappa di Foix al Tour 2012. Beffati i compagni di fuga
Il momento dello scatto decisivo nella tappa di Foix al Tour 2012. Beffati i compagni di fuga

Al servizio di Cavendish

Per Zanini l’essere un uomo-squadra significa anche sapersi mettere in discussione: «Sanchez è stato competitivo fino all’ultimo, ma ha saputo essere utile per il team anche in maniera diversa. Ad esempio all’ultimo Giro d’Italia si è messo al servizio di Cavendish e gli ha tirato la volata verso la vittoria. Ha sempre saputo mettersi a disposizione degli altri quando capiva che la corsa non era per lui e questo è un pregio».

Tecnicamente come può essere identificato? «E’ stato un corridore completo, capace di vincere su diversi percorsi. Non era certamente uno scalatore ma sapeva domare anche le alte montagne altrimenti non finisci nella Top 10 al Tour e alla Vuelta come ha saputo fare. Era fortissimo sul passo, capace di fare la differenza anche su salite non troppo dure come dimostrato a San Sebastian, anche veloce, mai averlo con se in una fuga ristretta…».

Per Sanchez 48 vittorie in carriera, tra cui anche due Clasica di San Sebastian (qui nel 2012)
Per Sanchez 48 vittorie in carriera, tra cui anche due Clasica di San Sebastian (qui nel 2012)

Il dolore per Michele

E al di fuori delle corse? «Uno attaccatissimo alla famiglia, quando ci vivi assieme durante l’anno cogli quel legame, quel bisogno di sentire sempre i propri cari vicino, anche solo con una telefonata. Era uno che dava tutto, ma io ricordo un momento particolarmente doloroso della sua carriera e fu quando morì Michele Scarponi. Luis era stato nella stanza con Michele al Tour of the Alps, la sua ultima corsa. Erano molto legati e la notizia della sua scomparsa fu per lui un colpo duro da assorbire. Io spero che rimanga nell’ambiente, uno così in una squadra è sempre una figura importante, qualsiasi ruolo ricopra».