C’è tanta bellezza nelle ragazze e nei ragazzi azzurri che nelle ultime due settimane a Parigi hanno lottato per dare corpo ai loro sogni. Ci commuove vederli sul podio mentre cantano l’inno e anche quando non ce la fanno e osservano attoniti la vittoria di altri, immaginando di rifarsi la prossima volta. Ci dispiace anche per “Gimbo” Tamberi, anche se nella sua platealità non riconosciamo nulla di quello che ci fa amare lo sport.
Ascoltiamo le parole di Velasco dopo l’oro nel volley femminile (in apertura foto Simone Ferraro, Coni) e ci alziamo in piedi per applaudirlo, quando con grande calma interiore risponde che le sconfitte vanno accettate e non trasformate in ossessioni, perché altrimenti ne rimani prigioniero e non ne vieni fuori. Proviamo orgoglio nel veder sventolare quei tricolori, perché per un attimo crediamo davvero di essere parte di un popolo che ci crede. Funziona così, almeno fino al momento in cui la fiaccola si spegne, Tom Cruise se la porta in America e ti svegli il giorno dopo e capisci che è stato un sogno.
Il 28 agosto a Parigi inizieranno le Paralimpiadi e non avranno la stessa fiaccola degli altri perché è in volo per Los Angeles. Non è una discriminazione? Perché non dovrebbero godere della magia dei cinque cerchi e di quella fiamma a suo modo sacra?
Tutti al Quirinale
I campioni stanno tornando a casa e saranno accolti come eroi. Roncadelle, paesino bresciano di 9.000 anime, abbraccerà i suoi tre ori olimpici. A casa Consonni faranno ritorno due fratelli che da Parigi hanno portato un oro, un argento e un bronzo. Il presidente Mattarella ha esteso l’invito al Quirinale agli atleti arrivati al quarto posto, per cui ci sarà posto anche per il quartetto delle ragazze. E loro andranno, tutti quanti. Sentiranno le belle parole, restituiranno il tricolore ricevuto il 13 giugno e si concederanno le vacanze che meritano. Mentre noi per allora saremo già tornati alla normalità.
La normalità
Ritroveremo i cori razzisti negli stadi (il calcio preme con le sue assurdità dal fondo dei giornali). I social volgari. Il colore della pelle usato come un insulto. L’indignazione ipocrita quando Fiona May o Paola Egonu ci indicano come un popolo razzista e noi, che per larga parte lo siamo davvero, non abbiamo le palle per emarginare chi di quell’odio si nutre.
Torneremo al Nord contro il Sud. All’immondizia nelle strade. All’arroganza del traffico. Ai femminicidi. Alla disuguaglianza di genere come regola generale. Ai ciclisti ammazzati. Agli youtuber che insultano. Ai politici che abbiamo eletto e che, con lo stesso tricolore sulle spalle, riscrivono regole che rendono tutto incomprensibile.
Finché arrivi a dirti che forse sia normale e che il mondo dello sport, come l’isola che non c’è, sia un regno a parte, in cui vive chi crede ancora nelle fate. Non sarà invece che questa normalità fa decisamente schifo, almeno quanto la nostra incapacità di combatterla?
I cugini d’Oltralpe
Ci assale il ricordo dei giorni francesi del Tour e i pensieri che facciamo ogni volta su quel popolo che non è perfetto e che con il suo sciovinismo certi giorni ci sta sui nervi. Ogni volta però notiamo anche che hanno la bandiera sul tetto e un diverso senso della Repubblica. Scendono nelle piazze e bloccano le strade se il carburante costa troppo o se qualsiasi categoria subisce un torto. Si fermano tutti, ma proprio tutti, anche quando i trattori gli impediscono di arrivare puntuali al lavoro. E alla fine, rovesciano il cartello con il nome del paese per far capire che loro sono contro. Non sono perfetti, non vogliamo farne dei santi. Anche le loro periferie sono nel degrado. Eppure i francesi sanno che ci si può opporre ai soprusi di Stato e che, facendolo tutti insieme, si ottengono risultati.
A noi questo manca e oggi la consapevolezza ci ha portato a uscire dal seminato del mondo del ciclismo. Non che qui manchino i problemi, ma a forza di ragionare per compartimenti stagni si perde di vista il quadro generale e la necessità di fare qualcosa.
Non amici, ma compagni di squadra
Riprendiamoci l’Italia, prima che sia tardi. Cancelliamo dai nostri contatti i portatori di odio. Suoniamo come pazzi il clacson quando l’auto davanti getta un rifiuto in strada o qualcuno si libera di una cicca di sigaretta. Andiamo a votare. Non lasciamo tutto in mano a chi pensa a sé e non al nostro bene. Siamo noi a pagare i loro stipendi e lasciamo che ci comandino come se fossero i pastori e noi le pecore. Non dobbiamo essere amici, ma compagni di squadra.
«Ho detto alle ragazze – ha spiegato ieri Julio Velasco dopo l’oro nel volley femminile – che non c’era bisogno di essere tutte amiche. Anzi, ho fatto il contrario. Ho detto: “Se siamo amiche bene, se no va bene lo stesso. L’importante è che giochiamo insieme perché nello sport, l’aiuto che si danno i giocatori non è per amicizia, è perché il gioco è così”. Se una giocatrice va a coprire una compagna, non è che ci va perché ha un buon rapporto fuori del campo, ma perché serve alla squadra».
Il tricolore sulle spalle
Proviamo a tenere quel tricolore sulle spalle, non restituiamolo a Mattarella (siamo certi che capirebbe). Alcune delle ragazze che applaudimmo in giorni come questi sono state vittime di abusi. Tanti ciclisti e cicliste sono morti sulle strade. Tanti atleti, probabilmente tutti, sono stati feriti per il colore della pelle. Se ci sta bene tutto questo, rinunciamo a rendere questo posto un po’ meglio di come l’abbiamo trovato, torniamo pure agli ombrelloni e riponiamo il tricolore nel cassetto. Potremo tirarlo fuori al prossimo mondiale o alla prossima Olimpiade. Oppure comprarne uno al semaforo da uno dei tanti stranieri di cui altrimenti non ci accorgeremmo neppure.