Le Olimpiadi sono l’evento sportivo più importante a livello globale e di conseguenza in questa manifestazione emergono numerose storie e racconti su tutti gli angoli del mondo. In questo caso si parla del ciclismo e dell’Africa, un movimento in grande ascesa che nella prova su strada ha mostrato i grandi miglioramenti avvenuti nel corso degli anni.


Abbiamo chiesto il parere di qualcuno che in questo campo opera da tempo: Daniele Nieri, diesse del Team Qhubeka Assos che ha sposato il progetto alla base di questo team: aiutare i ragazzi africani e dare voce in capitolo al ciclismo di laggiù.
Partiamo da lontano, come è nato l’interesse verso questo movimento?
Personalmente ho conosciuto la prima realtà ciclistica di questo continente 9-10 anni fa, ad un Giro di Malesia. Mi colpirono per l’organizzazione, erano avanti per essere all’inizio. Si chiamavano MTN, una squadra continental. Il ciclismo africano ha preso sempre più piede con l’impegno dell’associazione benefica Qhubeka che si è unita alla MTN. Nel 2012 la squadra è diventata WorldTour e questo ha dato uno sprint in più, sono arrivati corridori e tecnici da tutto il mondo.
Aiutaci a conoscere meglio la fondazione Qhubeka.
Il progetto è nato nel 2005, il fondatore è Anthony Fitzhenry, Qhubeka significa “andare avanti” in lingua Nguni, idioma parlato da alcune popolazioni del Sud Africa. E’ nato dalla necessità di migliorare gli spostamenti dei ragazzi verso le scuole, quindi scollegato dal mondo professionistico, anzi è legato allo sviluppo dell’ambiente. L’organizzazione regala delle bici ogni 100 alberi piantati o 100 tonnellate di rifiuti raccolti. Tutti i destinatari di una bici devono poi seguire dei corsi su manutenzione e sicurezza del mezzo.
Il presidente dell’Uci, Lappartient (a sinistra) con gli oraganizzatori del Tour of Rwanda Tanta gente in strada e una corsa ben organizzata: ecco il Tour of Rwanda
Il presidente dell’Uci, Lappartient (a sinistra) con gli oraganizzatori del Tour of Rwanda Tanta gente in strada e una corsa ben organizzata: ecco il Tour of Rwanda
Tu come hai avuto i primi contatti con questo ambiente?
In modo casuale, la squadra cercava un magazzino vicino a Lucca e mi hanno contatto, offrendomi un ruolo di meccanico. Piano piano poi sono diventato direttore sportivo con i giovani, un po’ italiani e un po che arrivano dall’Africa.
Cosa ti entusiasma di più in questo progetto?
La voglia dei ragazzi è incredibile, poi sono proprio delle persone fantastiche, gentili e pronti ad ascoltarti in tutto per tutto. Hanno tanta voglia di imparare perché sono consapevoli che quel che fanno non si riflette solo di loro, ma su tutta la popolazione africana. Sono degli apripista.
Quella degli atleti africani è stata una crescita esponenziale, tu l’hai vissuta in prima persona, raccontacela un po’…
Quando ho iniziato io, l’organizzazione era poca o comunque mal gestita, questi Paesi non avevano una tradizione legata alla bici e quindi è stato complicato entrare nel tessuto sociale.


Cioè?
In Africa i corridori in generale iniziano a correre tardi, quando sono juniores, quindi per loro diventa più difficile emergere perché molti meccanismi li sviluppano dopo. Per esempio, la loro prima difficoltà è stare in gruppo, perché nelle loro corse il divario è così ampio che dopo 10 chilometri rimangono già in 5 o 6.
Dal punto di vista atletico sono molto validi, li vediamo spesso in fuga o in testa al gruppo a tirare…
Sono più che validi – esclama – gli atleti africani sono atleti di fondo, dotati di grande resistenza come si vede nelle gare podistiche. La differenza rispetto alla corsa a piedi sta nel fatto che per correre in bici serve molta tattica e per loro questo è un punto debole. Se notate, nelle corse sono spesso in coda al gruppo o al vento.
Qual è stato l’evento scatenante per la passione verso il ciclismo?
Il 2015 ha fatto conoscere l’Africa ciclistica, Teklehaimanot è stato il primo atleta africano a vincere la maglia a pois al Giro del Delfinato ed ha indossato la medesima maglia al Tour de France al termine della sesta tappa.
L’opera di Qhubeka è dare bici ai bambini perché possano andare a scuola Una bici cambia molto nella quotidianità africana
L’opera di Qhubeka è dare bici ai bambini perché possano andare a scuola Una bici cambia molto nella quotidianità africana
Come si costruisce una tradizione in un continente così vasto e differente in tutte le sue parti?
Non è un lavoro facile, devi pensare a questi atleti come se fossero dei pionieri. Tutti fanno conoscere al loro Paese il ciclismo tramite le proprie gesta. Il materiale, come bici e attrezzatura, viene portato nei Paesi di riferimento dai ragazzi, ma non si è ancora entrati nell’ottica “tecnica”. Per quello Qhubeka si sta impegnando, ma la strada è ancora lunga. Molto dipende dagli investimenti delle federazioni.
Quali sono gli obiettivi presenti e futuri per questo territorio?
Il presente è in continuo crescendo, ora molte squadre hanno in gruppo uno o due corridori africani, l’obiettivo primario è far crescere questo numero (in apertura Amanuel Gebreigzabhier, eritreo della Trek-Segafredo, ndr). Nel futuro, invece, sulla base dei progressi raggiunti fin ora, non nascondo che il sogno sarebbe vedere uno di questi ragazzi che lotta per vincere corse prestigiose, come un Tour. Loro si avvicinano a questo sport grazie a quel poco che riescono a vedere in televisione. La Grande Boucle è la prima corsa che vedono, non conoscono il Giro d’Italia o altre corse, solo il Tour de France.
Un anno da segnare sul calendario è il 2025, quando i mondiali di ciclismo saranno in Africa
Sarà l’anno della svolta, lì ci potrebbe davvero essere la consacrazione definitiva per il ciclismo in questo territorio. Il 24 settembre verrà dato l’annuncio del Paese ospitante (in lista ci sono Rwanda e Marocco ndr). Il Rwanda ospita già una delle poche gare africane di classe 1. Sarebbe davvero speciale se venissero disputati in quest’ultimo paese, si entrerebbe in contatto con il vero spirito africano.