Una foto su Instagram. Garofoli è piegato sulla bicicletta, sfatto dalla fatica sull’arrivo di Villablino alla Vuelta. Alle sue spalle c’è il padre, che gli poggia appena la mano sulla schiena, quasi con la paura di fargli male. Il commento accanto recita: «Sempre al mio fianco. Daddy».
Che cosa spinge un padre a seguire il figlio in un posto così lontano? Perché Gianluca Garofoli ha sentito il bisogno di raggiungere il Nord della Spagna per stare accanto a suo figlio? Glielo abbiamo chiesto. Perché la carriera di Gianmarco di colpo si è fermata e di colpo lo sguardo guascone di quel ragazzino tutto scatti e nervi ha cambiato sfumature. Lo vedi che si è fatto uomo, ma capisci anche che manca qualcosa. La fiducia. La continuità. E anche un contratto per il prossimo anno. Perché un padre parte dall’Italia e suo figlio gli riconosce a questo modo la presenza?
«Da due mesi a questa parte – racconta – lo vediamo veramente in sofferenza per il discorso della squadra. Si sente in crescendo, sente che non ha avuto fiducia. Si sente in un vicolo stretto e vuole liberarsi, ma ancora non ce la fa. Purtroppo negli ultimi due anni ha avuto parecchia sfortuna e per questo ha perso quasi un anno di allenamenti. Di fatto sta un anno indietro con la preparazione. Si è visto qui alla Vuelta che più corre e più le sue prestazioni migliorano. Avrebbe potuto farlo prima un Grande Giro. Penso che quella foto l’abbia messa per ringraziarmi».
Il cuore e la paura
Ripilogando, Gianmarco Garofoli fa parte dell’infornata di Milesi, Germani, Piganzoli, Moro e tutti i 2002 che nelle categorie giovanili si dividevano le vittorie. Trascorre il primo anno alla DSM Development. Vince al Val d’Aosta, ma non si trova bene e nel secondo anno da under 23 approda alla Astana Development, guidato da Orlando Maini e fortemente voluto da Giuseppe Martinelli cui lo aveva consigliato Michele Scarponi in tempi non sospetti. E’ il 2022 e il marchigiano fa appena in tempo a partire, quando gli viene diagnosticata una miocardite, per la quale deve stare fermo a lungo. E’ l’inizio dei problemi.
«Fu un periodo di grande apprensione – racconta Gianluca – e quando di recente con mia moglie abbiamo sentito la notizia della morte del povero Roganti, ci siamo guardati con le lacrime agli occhi. E’ stato come smuovere una cosa molto dura, perché noi quella situazione l’abbiamo vissuta da vicino. La miocardite fu un grandissimo spavento. Fortunatamente il malore che ebbe fu preso per tempo. Il giorno dopo andammo all’ospedale e trovarono un principio di infarto. Fu preso in tempo e trattato. Da lì è stato tutto un buio, fino alla ripresa. Abbiamo vissuto con lui tutte le sue paure e le ansie. Anche se da papà, devo ammetterlo, per certi versi fu pure bello. In quel periodo era fermo con la bici, quindi non sapeva cosa fare e si dedicò a starmi dietro. Venne al lavoro in azienda, andammo in fiera, venne in giro per clienti. Fu pure bello, perché sennò questo spazio con il suo lavoro non sarebbe stato possibile…».
Dopo il cuore, tutto ha ripreso il giusto corso?
Neanche per sogno, sono continuate ad accadere una dietro l’altra. Anche quest’anno ha avuto la bronchite prima del Giro Italia e ha fatto due settimane di antibiotici. Alla prima corsa, ha iniziato ad avere i crampi allo stomaco. Fatti gli accertamenti, si è scoperto che c’era l’helicobacter in corso, quindi altre due settimane di antibiotico. E insomma alla fine ha perso un sacco di tempo per cause di questo tipo.
Adesso le cose sembrano andare meglio, perché allora la sua presenza alla Vuelta?
Ho seguito la corsa nei weekend, avevo piacere che mi sentisse vicino. Certo il pensiero della squadra non aiuta. Non c’è niente di ufficiale, ma da quando è entrato lo sponsor cinese, vogliono fare giustamente lo squadrone e gli hanno fatto capire che per lui non c’è più posto.
Suo figlio ha sempre avuto l’atteggiamento da guascone, forse le botte prese lo hanno cambiato, perché sembra molto più riflessivo…
In realtà, vivendolo da vicino e seguendolo alle corse anche con sua madre, lo studiamo. Gianmarco è sempre stato molto autonomo e indipendente, infatti noi molto spesso stiamo in disparte. Mi ricordo che da allievo di primo anno vinse il campionato regionale e ordinò da sé la maglia con la scritta della sua squadra. Tanto è vero che l’azienda da cui l’aveva ordinata mi chiamò per farmi complimenti. Non gli capitava spesso che un ragazzino di 15 anni fosse in grado di cavarsela da sé. Addirittura in quel periodo ebbe un incidente e si ruppe la clavicola e il titolare di quell’azienda, venne all’ospedale per conoscerlo. Non era guasconeria, era gioia esplosiva per i risultati che aveva. Però per contro è stato sempre molto altruista.
Ad esempio?
Noi abbiamo un altro figlio che ha la sindrome di down. E questo ha fatto sì che Gianmarco sia sempre stato con i piedi per terra e aiuti le persone più deboli vicine a lui o all’interno delle varie squadre in cui è cresciuto. La svolta ce l’ha avuta quando è andato alla DSM, lì è cresciuto moltissimo sotto tutti i punti di vista. La lontananza da casa e dagli amici. Fu uno dei primi a partire per una devo team straniera. Rimase su per sei mesi, tornando una sola volta e lassù maturò molto in tutti i sensi.
Con la DSM vinse delle belle corse: come la prendeste quando decise di cambiare squadra?
Anche sul piano delle squadre, ha sempre fatto da sé le sue scelte. L’ambiente DSM era particolare, ma non mi chiese consiglio, semplicemente a un certo punto disse che sarebbe andato via. C’ero anche io in Olanda quando ruppe il contratto. Loro dissero di non volere più un corridore che non riusciva a osservare pedissequamente le loro regole e che ogni volta che qualcosa non lo convinceva chiedeva spiegazioni. Lui rispose in inglese di non voler stare un solo giorno di più nella squadra che lo aveva inserito nel gruppo del Giro di Sicilia e poi lo aveva tolto dalla lista senza chiamarlo o dargli una spiegazione.
Non ha chiesto consiglio?
Credo che abbia preso una buona decisione. Mia moglie è stata bravissima sin da piccolino a renderlo indipendente nelle sue decisioni, per cui di solito va che lo assecondiamo, cercando però di stargli vicino nei momenti più difficili.
Si è sempre saputo che il nome suo alla Astana lo fece Michele Scarponi, che per Gianmarco è sempre stato un riferimento…
Michele era venuto alla sua comunione e alla cresima. Veniva a prenderlo a casa per portarlo ad allenarsi. Due giorni prima del suo incidente, si erano allenati insieme. Eppure la conoscenza venne per caso.
In che modo?
Mi pare che Gianmarco fosse ancora nei giovanissimi quando andammo allo Scarponi Day, che Michele organizzava a fine anno, con un pranzo e prima una pedalata da Filottrano a Sirolo, facendo la salita da Numana. Quella volta Gianmarco prese e scattò davanti al gruppo, avrà avuto 12 anni. Michele lo seguì e fecero insieme tutta la salita da Numana a Sirolo. Si conobbero così. Quando durante il pranzo venne il momento della lotteria per vincere le maglie che aveva messo in palio, Michele prese il microfono e disse che il body da gara non sarebbe stato estratto, perché lo avrebbe regalato al migliore di giornata. Chiamò Gianmarco e lo regalò a lui e fu così che nacque l’amicizia. Dopo un po’ che Michele era morto, Gianmarco ebbe un incidente e si ruppe una clavicola. Martinelli chiamò e ci invitò su, perché ci avrebbe pensato lui.
Lo conoscevate bene?
Non ci avevo mai parlato, ma ci raccontò che Michele gli parlava sempre di lui e diceva che avrebbero dovuto prenderlo. E anzi gli aveva detto che quando avesse smesso, si sarebbe dedicato a coltivare le sue grosse potenzialità. Era il lavoro che Michele si era prefissato per il dopo carriera.
Ci sono consigli che gli date in questo momento difficile oppure, visto che è così autonomo, lo osservate e non dite niente?
Il consiglio che gli diamo è di stare tranquillo, perché se c’è valore, viene fuori da solo. Secondo me la tranquillità paga sempre su tutto. Se uno deve andare, andrà di certo. Altrimenti vorrà dire che farà altro. E lui ogni cosa ha dovuto meritarsela. Mi ricordo dei mondiali del 2019, quando era campione italiano juniores e non volevano portarlo perché era troppo piccolino. Finché mio figlio andò ad affrontare il cittì e gli diede un ultimatum: «Dimmi cosa devo fare perché mi porti al mondiale».
Che cosa gli rispose?
Che lo avrebbe portato se avesse vinto il Trofeo Buffoni.
E lui?
Venne a casa e disse che lo avrebbe fatto. Infatti vinse il Buffoni, andò ai mondiali di Harrogate e si piazzò quinto. Stessa cosa al tricolore juniores. Prima di partire mi disse: «Papà, oggi vinco». E’ partito e ha vinto. Due sole volte mi ha parlato così e in entrambe ha vinto. Quindi sono convinto che la sua tranquillità porterà ai risultati. Sembra in crescita, capace di stare accanto a quelli più forti. Se avesse potuto fare prima un Grande Giro, forse oggi staremmo parlando di un altro corridore. Ha 21 anni, mi sembra strano che si ragioni di lui come di un vecchio. I procuratori gli dicono che deve fare punti sennò è difficile trovare squadra, ma io spero che la squadra venga fuori ugualmente. Stasera torniamo a casa insieme, sperando che i manager guardino i corridori non solo per i punti che portano.