Chiusura in Polonia, poi Benedetti salirà sull’ammiraglia

21.06.2024
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Appena compiuti 37 anni, Cesare Benedetti appenderà la bici al chiodo. Lo farà in Polonia, la sua patria d’adozione, al termine del Tour of Pologne, ma subito dopo entrerà nel nuovo ambito della sua vita ciclistica, salendo sull’ammiraglia della Bora Hansgrohe, squadra nella quale ha militato sin dai suoi albori nel 2010. Un destino già segnato che ha avuto i suoi prodromi nelle ultime battute della sua carriera.

Il legame così profondo e antico con la squadra tedesca lo ha portato a questa decisione: «Me lo hanno proposto loro. Io pensavo di tirare avanti un’altra stagione, ma obiettivamente era solo perché non mi ero ancora mentalizzato sulla fine della mia carriera agonistica. I dirigenti mi hanno prospettato quest’eventualità e ho detto subito di sì, anche perché era mio grande obiettivo rimanere nel mondo delle due ruote».

Cesare Benedetti è passato professionista del 2010 con l’allora NetApp, dopo uno stage con la Liquigas nel 2009
Cesare Benedetti è passato professionista del 2010 con l’allora NetApp, dopo uno stage con la Liquigas nel 2009
Un passaggio quasi naturale, considerando che nelle ultime stagioni eri diventato un po’ un regista in corsa più che un semplice gregario…

Effettivamente era un ruolo a me congeniale, soprattutto perché i più giovani si avvicinavano sempre per chiedere consigli, per capire come muoversi in corsa. La cosa non è sfuggita ai responsabili del team che infatti mi hanno chiesto di mettermi a lavorare con gli under 23, per indirizzarli meglio verso l’attività maggiore.

L’idea ti piace?

Non nascondo che mi interessa molto. La Bora Hansgrohe è sempre stata strutturata come una filiera, anzi è stata una delle prime a capire che per alimentare la prima squadra non bastava muoversi sul mercato, ma serviva avere un vivaio, come in altri sport. Ora vogliono dare maggior impulso al settore under 23 avendo capito che non è così semplice passare da juniores e fare un salto così precipitoso, è meglio procedere per gradi. Ormai i devo team danno a tutti la possibilità di fare esperienze con la squadra maggiore nelle prove al di fuori del WorldTour, è la strada giusta per imparare, ma bisogna arrivarci pronti.

Il polacco con il danese Wandahl, uno dei giovani che ha introdotto nel team
Il polacco con il danese Wandahl, uno dei giovani che ha introdotto nel team
Arrivando al termine della carriera è il momento di fare un consuntivo, che cosa vedi guardandoti indietro?

Credo di aver fatto anche più di quello che pensavo quando iniziai questa lunga avventura. Sapevo già da under 23 che non sarei stato un vincente e già allora avevo l’idea che senza grandi chance di vittoria sarebbe stato difficile durare. Non è stato così, ho trovato la mia dimensione. Ho fatto bene il mio lavoro, questo è stato riconosciuto da tutti. Ho seguito la mia carriera aiutando tanti leader a centrare il proprio obiettivo e la cosa che mi piace è che chiudo essendo sempre rimasto a un livello altissimo, in un team della massima serie affrontando corse che anno dopo anno sono diventate sempre più dure.

In questi anni hai mai pensato di cambiare team? Tu sei stato una delle ultime bandiere, di quei corridori fedeli a una scelta fatta quasi a inizio carriera…

Ogni tanto qualche pensiero mi è venuto, più che altro per la curiosità di verificare un’altra scelta, ma servivano motivazioni profonde che non avevo. Ragionandoci era giusto rimanere in un ambiente che ha sempre creduto in me e in quello che potevo dare. Il fisico in questi anni ha dato sicuramente tanto, per questo non ho rimpianti guardandomi indietro, so che i giovani che ci sono ora vanno decisamente più forte di me.

Con Sagan in maglia iridata, una lunga esperienza che ha segnato la carriera di Benedetti
Con Sagan in maglia iridata, una lunga esperienza che ha segnato la carriera di Benedetti
Tu hai lavorato con tanti leader al tuo fianco. Chi ti è rimasto più impresso?

Sicuramente Peter Sagan, è stato lui a farmi fare un vero salto di qualità. Correndo al suo fianco, in maglia iridata, sapevo che non potevo sbagliare e questo mi ha fatto andare anche oltre i miei limiti e mi ha fatto capire che avevo dentro di me qualcosa in più di quanto fatto fino allora. Le sue vittorie sono state per me emozionanti, ma devo molto anche a Majka e ai grandi giri corsi al suo fianco.

La tua più grande soddisfazione?

Il Giro d’Italia conquistato da Hindley, tutta quell’edizione è stata il mio apice come uomo squadra, centrando un grandissimo obiettivo. Il momento più bello però è stato al Giro 2023, quando siamo passati per Rovereto, la mia città, con il gruppo tutto alle mie spalle transitando per le mie strade, davanti alla mia gente pronta ad accogliermi. Avrei potuto chiudere la mia carriera anche allora…

L’unica vittoria di Benedetti da pro’, al Giro d’Italia 2019, nella mitica tappa Cuneo-Pinerolo
L’unica vittoria di Benedetti da pro’, al Giro d’Italia 2019, nella mitica tappa Cuneo-Pinerolo
Come finirai invece?

Un paio di corse a tappe in Romania e Repubblica Ceka e poi il Giro di Polonia. E’ la settima volta nella mia patria d’adozione e mi sembra giusto chiudere lì anche perché in squadra vogliono che sfrutti le settimane successive per fare un po’ di tirocinio in vista della prossima stagione sull’ammiraglia.

A proposito della Polonia, ti sei mai pentito di non aver fatto il passaggio prima del 2021? Se non altro, avresti potuto partecipare a più campionati mondiali…

Ho iniziato la procedura nel 2018, ma i tempi burocratici sono stati lunghi. Non posso negare però che partecipare ai mondiali in Belgio nel 2021 è stata un’emozione forte, esordire a un mondiale a 34 anni. Ora che non dovrò più allenarmi con assiduità, quando sarò libero dal lavoro vivrò maggiormente con la mia famiglia in Polonia. Il Trentino è nel cuore, ma quella è ora casa mia…

Quattro chiacchiere con Robert Spinazzè, una vita tra i filari del ciclismo

09.06.2024
7 min
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Robert Spinazzè è molte cose. Patron della Spinazzè Group SPA di San Michele di Piave in provincia di Treviso, azienda che produce pali in cemento per la vigne (e non solo). Ex corridore. Ma forse, soprattutto, grande appassionato di ciclismo, tanto da essere partner di squadre WorldTour da ormai diversi anni.

L’abbiamo raggiunto al telefono per farci raccontare com’è nata questa passione e come la sta portando avanti, da Peter Sagan fino alla nuova formazione che avrà come main sponsor Red Bull.

La bottiglia per la vittoria del Giro 2022 di Hindley, celebrato anche in apertura
La bottiglia per la vittoria del Giro 2022 di Hindley, celebrato anche in apertura
Robert, com’è nata la tua passione per il ciclismo?

Il ciclismo è sempre stata una passione di famiglia. Mio papà ha avuto la prima squadra dilettantistica, la TiEsse-Spinazzè, a inizio anni ‘80 ed è stata una rivoluzione per l’epoca. Siamo stati i primi ad impostare una squadra giovanile seguendo gli stessi standard dei professionisti, con i ritiri, grande attenzione a figure dello staff impensabili all’epoca, come per esempio i cuochi. Abbiamo anticipato quelli che sono venuti dopo, subito dopo di noi ha seguito il nostro esempio la Zalf. Se non sbaglio siamo ancora la squadra dilettantistica plurivittoriosa in un anno, con 82 vittorie in una sola stagione. Io poi, cresciuto in un ambiente del genere, mi sono fatto influenzare in prima persona e ho corso fino al primo anno dilettanti, da junior gareggiavo con Cipollini.

Da qui però in grande salto nel ciclismo WorldTour. Com’è andata?

Abbiamo deciso di fare il grande salto nel 2014 con la Cannondale. Erano gli anni d’oro di Sagan, che conoscevo da tempo perché al suo primo anno da pro’ abitava qui, a meno di un chilometro dall’azienda. Poi siamo stati due anni al fianco della Tinkoff di Sagan e Contador. E lì, al fianco di Oleg Tinkov, ho capito come muovermi in quel mondo, capendo dove e come investire. L’esperienza maturata in quei primi anni mi ha permesso di affrontare meglio i successivi 10 in Bora-Hansgrohe. Come in tutto, anche in questo lavoro occorre maturare esperienza che arriva dopo un po’ di tempo.

Come vanno le cose con la Bora?

Da loro ho trovato una forte apertura nei nostri confronti, fin dall’inizio mi hanno detto: «Si cresce assieme. Se cresci tu, cresco anch’io». E questo atteggiamento mi ha dato grande fiducia. Con loro si è creata una sinergia che va al di là della singola gara e mi ha fatto intraprendere ancora con più passione la sponsorizzazione. Ho imparato per esempio che io, come piccolo sponsor, magari non posso pretendere di vedere il nome nelle gare più importanti della stagione, ma ho altri 11 mesi a disposizione per farmi notare meglio. Decine di altre gare o occasioni dove invece sono molto più visibile.

Cos’altro?

Ho capito anche che non serve voler stare vicini solo ai grandi campioni, anzi. Voglio dire, personaggi come Sagan e Contador sono sempre pieni di gente attorno, invece è giusto cercare l’interazione con gli atleti del team magari meno noti. I gregari, i giovani, come anche con lo staff, i meccanici, i cuochi eccetera. Ho capito che io potevo trovare il mio spazio avendo un occhio di riguardo lì dove c’è molta meno attenzione. E questo mi ha dato moltissime soddisfazioni, perché da lì partono le sinergie lavorative che poi ti portano dove magari non immaginavi neanche.

Bottiglie personalizzate per Ralf Denk, manager della Bora-Hansgrohe, e Willi Bruckbauer, fondatore di Bora
Bottiglie personalizzate per Ralf Denk, manager della Bora-Hansgrohe, e Willi Bruckbauer, fondatore di Bora
Si sente spesso dire che sponsorizzare le squadre di ciclismo è un investimento a perdere. Nel tuo caso c’è solo passione o hai anche dei ritorni effettivi in termini di business?

La passione è la molla che ti permette di entrare più facilmente in quel mondo, per me che mastico ciclismo da tantissimi anni è qualcosa di immediato. Nella sponsorizzazione con Bora portiamo avanti due brand, che sono l’azienda principale Spinazzè e la cantina Terre di Ger. Le strade del ciclismo passano spessissimo per i miei impianti, per le vigne dei miei clienti, e per me questo è importantissimo. Negli ultimi anni abbiamo realizzato due opuscoli in cui parliamo del nostro lavoro attraverso le corse.

Due opuscoli?

Uno che riguarda le corse del Nord e che abbiamo chiamato “Inside Cobbles”, immaginando i nostri pali di cemento come fossero fatti di pavè. Abbiamo seguito un mese di campagna ciclistica raccontando i corridori, i contadini, il territorio e gli ambienti in cui lavoriamo, perché abbiamo tantissimi clienti nella campagna tra Belgio e Olanda. La stessa cosa abbiamo fatto al seguito del Giro d’Italia, alternando figure del ciclismo e vittorie della squadra con interviste ai nostri contadini. A ben vedere fanno una vita molto simile a quella dei corridori, sempre all’aria aperta con ogni tipo di meteo facendo sacrifici per ottenere un risultato. Questo ci ha dato un grande riscontro sul mercato, perché adesso tutti ci riconoscono come “quelli del ciclismo.”

E la cantina?

Con Terre di Ger produciamo l’olio di oliva che diamo ai corridori e il vino usato per tutti gli eventi della squadra. Tutto questo nell’arco di diversi anni porta a consolidare la nostra posizione. E ora posso dire che tutto quello che investo poi mi rientra in diverse forme.

Non è più un segreto che tra poco la squadra cambierà main sponsor, come sono stati i primi contatti con Red Bull?

Sì, a inizio luglio entrerà ufficialmente Red Bull, ma devo dire che si sono mossi in modo molto intelligente, in punta di piedi. E’ un’azienda incredibile per l’organizzazione, certamente c’è molto da imparare. Comunque il concetto di crescere assieme che c’è stato in Bora rimane. Sono alla ricerca di situazioni durature e stabili anche tra i partner, vogliono continuità che è quello che vogliamo anche noi. Sicuramente la nuova squadra avrà una costruzione dal basso, senza nomi altisonanti, ma puntando di più sul vivaio a cominciare dagli juniores e U23. L’obiettivo è far crescere in casa atleti che possano garantire una prospettiva futura, com’è giusto che sia. Noi abbiamo il contratto fino al 2027 per terminare il decennio della squadra WorldTour, poi si vedrà.

I corridori della Bora-Hansgorhe sono parte della famiglia
I corridori della Bora-Hansgorhe sono parte della famiglia
In tutti questi avrai sicuramente molti aneddoti da raccontare…

Aneddoti moltissimi, ma quello che più mi è rimasto è l’aver fatto amicizia con quasi tutti i corridori che ho incontrato. In particolare con Maciej Bodnar col quale ancora ci sentiamo spesso e poi, certo, non posso non citare Sagan. Lui è nato ciclisticamente qui a 500 metri dalla fabbrica, l’ho visto fin dai suoi primissimi giorni in Italia. Conoscevo molto bene Bruseghin e altri che si allenavano con lui. Mi raccontavano che quando facevano le sfide durante le uscite, tipo fare una salita col 53, lui vinceva sempre, anche se aveva 6-7 anni meno di loro. Da lì ho capito subito che aveva qualcosa in più. Sono stato anche per due anni sponsor della sua academy, la squadra giovanile che ha fondato a Žilina, la sua città natale.

Altri episodi?

Un altro bellissimo ricordo che ho è quando durante il Giro del 2017 ho ospitato una ventina di quei ragazzi con i genitori nella mia cantina, li ho portati prima a vedere il passaggio della corsa a Ca ’del Poggio poi in hotel a conoscere i corridori e tutto lo staff. Sono sicuro che per loro è stato un fine settimana indimenticabile.

Le immagini di questo articolo provengono tutte dalla gallery Facebook di Robert Spinazzé e della sua azienda.

Facciamo un salto nei piani di Sagan. Uboldi apre l’agenda…

07.01.2024
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Peter Sagan avrà anche smesso di essere uno stradista, ma la bici al chiodo ancora non l’ha appesa. E, consentiteci di dire, per fortuna… Lo slovacco non sta fermo un attimo e per questo 2024 molte cose aspettano lui e il suo storico staff, al vertice del quale c’è l’amico, addetto stampa e molto di più, Gabriele Uboldi: per tutti Ubo.

Mentre Sagan è intento a spostarsi da una location ad un altra, Uboldi ci spiega più o meno i piani di Peter. La carne al fuoco è davvero tanta, ma lo è anche la gioia nel “cuocerla”. Lui stesso, del resto ce lo aveva detto, nella giornata Sportful che passammo insieme nel feltrino: «Voglio divertirmi».

Sagan con Uboldi, il suo braccio destro. “Ubo” cura gli aspetti logistici e mediatici… dello slovacco
Sagan con Uboldi, il suo braccio destro. “Ubo” cura gli aspetti logistici e mediatici… dello slovacco
Gabriele, come stanno passando queste giornate del primo anno senza che Peter sia un professionista su strada?

Tutto sommato per ora sono uguali a quelle degli altri anni. Ma proprio uguali! 

Anche il tuo lavoro?

Assolutamente sì, poi ci sarà molto da scoprire. Peter è andato in montagna al Passo Pordoi con tutta la sua famiglia: fratelli, figlio, cognate… Da lì, lo scorso 3 gennaio è tornato a Montecarlo dove vive. Lì va in bici tutti giorni, ma presto ripartiremo.

Quali mete vi attendono?

Dal 10 gennaio saremo in Sud Africa con Specialized. Ci sarà anche il team manager del team di Specy e anche Patxi Vila che, oltre ad essere uno dei tecnici della Bora-Hansgrohe, è anche con noi. Alla fine siamo la squadra di sempre: dal meccanico a Peter. La stessa squadra che cerca e vuole divertirsi e finalmente ha l’occasione per farlo. Eravamo già stati insieme in Cile a dicembre. Quindi sì, ci sarà qualche cambio, ma il calendario è pieno. Quello che forse cambierà è che dovremo fare tanti viaggi, ma cambiando meno hotel. E’ tutto da scoprire, dai: almeno per me, sicuro!

Alla kermesse Beking a Montecarlo Sagan ha vinto davanti ad un sorridente Pogacar. Il gruppo dei colleghi ha voluto salutarlo così
Alla kermesse Beking a Montecarlo Sagan ha vinto davanti ad un sorridente Pogacar
Calendario fitto, hai già una traccia, una bozza?

Come detto a breve si va in Sud Africa e ci resteremo fino al 6 febbraio. Poi andremo ad Abu Dhabi, sempre per la mountain bike. Poi ci sposteremo in Spagna per due gare: Chelva e Banyoles. Dovremmo quindi fare un gara di Coppa di Francia a Marsiglia e poi a marzo Peter farà qualcosa su strada.

Ecco, proprio di questo volevamo chiederti. Abbiamo visto che era in programma qualche evento su strada. Ma in che ottica verrà affrontato?

Saranno gare di un giorno in Francia e saranno funzionali alla MTB. Nessuna velleità di risultato o ambizioni particolari. Queste gare le faremo, o dovremmo farle, con la squadra di suo fratello Juraj (la RRK Group – Pierre Baguette, ndr). 

Perché hai usato il condizionale?

Perché bisogna vedere se… ci stiamo dentro. Mi spiego, la continental di Juraj è davvero piccolina, non c’è uno staff strutturato e Peter, comunque sia, riscuote sempre un certo movimento, attenzioni mediatiche. Alla fine ci sarà un minimo di pressione attorno e bisogna vedere quale contorno riusciremo a mettere su. Che “budget” avremo. Diciamo che questi eventi su strada sono stati fissati nel nostro calendario, ma poi dovremmo riportarli nella realtà.

Che fatica per Sagan ai mondiali di Glasgow. Peter è giunto 67° a 7’14” da Pidcock
Che fatica per Sagan ai mondiali di Glasgow. Peter è giunto 67° a 7’14” da Pidcock
E si va avanti. Siamo a marzo…

Poi sarà la volta del Brasile, ancora in Mtb. Laggiù ci saranno la Brasil Ride e una prova di Coppa. Da qui seguiranno altre prove di Coppa del mondo in Europa: Nove Mesto, Val di Sole e Les Gets. Quindi un evento molto importante per noi: il Giro di Slovacchia su strada (26-30 giugno, ndr).

Il saluto di Sagan alla sua gente…

Esatto. E lì sarà una cosa un po’ più grande. Non nego che quelle gare di un giorno in Francia servono o servirebbero proprio per vedere se si sarà pronti per il grande movimento che ci sarà al Giro di Slovacchia. La sua presenza in questa corsa ci sembra una bella iniziativa.

Ubo, abbiamo parlato un po’ di tutto, ma non delle Olimpiadi in mtb: quello resta il grande goal giusto?

Sì, assolutamente è così, ma siamo anche consapevoli che qualificarsi non è difficile, bensì difficilissimo. Né Peter, né la Slovacchia hanno punti. Si parte totalmente da zero e il livello è alto, ce ne siamo accorti al mondiale di Glasgow. Peter ci proverà al 100 per cento, farà il massimo per andare a Parigi, ma è consapevole che è tosta.

In effetti è molto dura. Ma Sagan ha classe e sarebbe un bel colpo per tutto il movimento…

Sapete, il messaggio che vogliamo far passare è che noi vogliamo fare il meglio possibile, ma divertendoci. Questo è un aspetto fondamentale di tutto questo progetto. Se manca il divertimento viene meno tutto il resto. Se manca il divertimento sarebbe rimasto su strada o non avrebbe fatto nulla. Alla fine un corridore come Peter Sagan ha vinto e guadagnato abbastanza e di certo non gli serve correre in mtb. Se lo fa è per pura passione.

La nuova avventura di Fabbro, finalmente non più gregario

28.11.2023
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La vita a volte è questione di scelte che vanno lette in base al momento, alle contingenze, alle prospettive. Chi frequenta gli ambienti ciclistici da un po’ di tempo, ha visto il passaggio di Matteo Fabbro dalla Bora Hangrohe alla Polti Kometa non come una retrocessione (da un team WT a una professional), ma come una liberazione. Un rilancio per la carriera di uno che, quand’era agli albori, era considerato una delle grandi speranze del ciclismo italiano. Ora ha 28 anni e può dare ancora tanto.

Fabbro ha vissuto gli ultimi 4 anni della squadra tedesca, quindi è stato protagonista della sua progressiva trasformazione, contribuendo al suo inserimento nel ristrettissimo novero delle formazioni di riferimento. Un cambio che forse ha anche contribuito alla fine del rapporto.

Matteo Fabbro quest’anno ha fatto 43 giorni di gara con cinque Top 10
Matteo Fabbro quest’anno ha fatto 43 giorni di gara con cinque Top 10

«Quando sono arrivato nel team – spiega il corridore udinese – il leader era Peter Sagan e si lavorava per lui. Quando è andato via sono cambiate molte cose, la squadra è stata rivoluzionata e io ho iniziato a sentirmi sempre meno adatto alla causa. Inoltre gli ultimi anni dal punto di vista della salute non sono stati semplici per me e progressivamente le nostre strade si sono allontanate. Loro non erano propensi a continuare, ma neanche io: avevo bisogno di un’aria nuova. Voglio però sottolineare il fatto che ci siamo lasciati in ottimi rapporti, tanto è vero che magari nel futuro le nostre strade potrebbero anche tornare a incrociarsi».

A quali problemi di salute ti riferisci?

Il Covid per me è stato una mannaia… Gli strascichi che mi ha lasciato sono stati molto pesanti, sotto forma di problemi respiratori e due nuove allergie e per un ciclista non respirare bene è un problema di non poco conto. Abbiamo provato tante soluzioni, senza essere fortunati. Ora però le cose vanno un po’ meglio e questo mi rende ottimista.

L’esordio di Fabbro fra i pro’, nel 2018 sotto, l’occhio esperto di Pellizotti. Passava con tante speranze di emergere
L’esordio di Fabbro fra i pro’, nel 2018 sotto, l’occhio esperto di Pellizotti. Passava con tante speranze di emergere
La sensazione, analizzando però la tua carriera, è che tu sia rimasto quasi prigioniero del tuo ruolo di gregario, ma non erano queste le prospettive con le quali eri passato pro’…

E’ vero, infatti voglio tornare a esprimere quello che valevo anni fa. Che cosa è successo nel frattempo? Quello che spesso succede nel ciclismo: i problemi portano mancanza di risultati e da questi di fiducia e quindi di spazio. Se guardo indietro, solo una volta mi è stata concessa libertà, per la Tirreno-Adriatico del 2021 e il quinto posto finale mi sembra sia stato una bella risposta. Ma altre occasioni per potermi esprimere non ci sono state, in compenso ho sempre lavorato per i capitani con l’abnegazione che mi è sempre stata riconosciuta.

La tua storia recente è suonata anche come un monito per i tanti ragazzi italiani che approdano nelle squadre estere del WorldTour. Molti dicono che vanno a fare i gregari, pur avendo stoffa e risultati per poter ambire ad altro.

Il rischio c’è, ma bisogna stare molto attenti nel dare giudizi. Partiamo dal fatto che se capiti fra le 5 grandi squadre del WT – tra cui la Bora – vieni inizialmente chiamato a svolgere ruoli di gregariato. Lo spazio te lo devi guadagnare, ma con i campioni che ci sono è difficile. E’ anche vero però che se vali davvero ci riesci: guardate gli esempi di Ganna e Milan, sono in grandissimi team, ma hanno saputo guadagnarsi i loro spazi. Se invece capiti in formazioni un po’ meno forti, con capitani che non accentrano tutte le attenzioni, hai più possibilità. Devi comunque metterti a disposizione, ma le occasioni per emergere ci saranno e dovrai essere bravo a sfruttarle.

Quattro anni di militanza nel team tedesco, ma ben poche occasioni per emergere, come alla Tirreno-Adriatico 2021
Quattro anni di militanza nel team tedesco, ma ben poche occasioni per emergere, come alla Tirreno-Adriatico 2021
Nel tuo caso?

Nel mio caso le contingenze hanno portato a vedere quello spiraglio stringersi sempre di più. Per questo avevo bisogno di aria nuova e l’ho trovata grazie a Ivan Basso, che ha fortemente insistito per avermi nel team. Ho trovato un ambiente familiare, che mi ha subito convinto della scelta.

Inoltre il fatto di correre in una professional può garantirti maggiori occasioni anche a livello di calendario…

Sì, mettendoci i 7 anni di esperienza accumulata in questo mondo. E’ come se fino ad ora avessi seminato, ora è venuto il tempo di raccogliere, quindi aver fatto un passo indietro è un fatto che reputo positivo, considerando anche che non ho molto da perdere. Sarà una bella sfida.

Per la Bora Hansgrohe il ciclista udinese è sempre stato prezioso supporto ai capitani in salita
Per la Bora Hansgrohe il ciclista udinese è sempre stato prezioso supporto ai capitani in salita
Sai già come sarà impostata la tua stagione?

Per grandi linee sì, il mio grande obiettivo sarà il Giro d’Italia, da correre finalmente pensando alla classifica. Ricordo l’edizione del 2020: avevamo in squadra Sagan per le tappe e Majka per la classifica, questo significa che tirai per 17 frazioni su 21… Eppure alla fine fui 23°, neanche male. Se potrò concentrare le energie sulla classifica e le tappe di montagna, sicuramente farò il mio. Correrò Ruta del Sol e Tirreno-Adriatico, il resto vedremo come svilupparlo in base alle condizioni di forma e alla situazione del momento. Io intanto sono già tornato ad allenarmi, non vedo l’ora che si cominci…

L’addio di Van Avermaet, un uomo comune in cima al mondo

22.10.2023
6 min
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«Quando diventi professionista, è un punto di partenza, è come se tutti partissero alla pari, devi semplicemente metterti alla prova e capire dove puoi arrivare. E io sono stupito di dove sono arrivato». In queste parole è racchiusa l’essenza della carriera di Greg Van Avermaet, che alla Parigi-Tours ha chiuso la carriera durata 16 anni e contraddistinta da 42 vittorie. Alcune di peso specifico enorme, come l’oro olimpico di Rio 2016 che gli ha ritagliato un posto fra i grandi del ciclismo belga. Per questo il suo ritiro non poteva passare inosservato.

«Quando ho iniziato – racconta – ero uno dei tanti. Avevo ambizioni, certo, volevo incidere, chi non lo vuole? Pian piano ho sentito che in certe gare come le classiche mi sentivo di essere migliore di tanti. Ma non avrei mai pensato di arrivare in cima, al numero 1 del ranking. Eppure è successo».

Greg con la figlia Fleur. Ora avrà la possibilità di godersi di più la famiglia, cosa che gli è mancata
Greg con la figlia Fleur. Ora avrà la possibilità di godersi di più la famiglia, cosa che gli è mancata

Un portiere mancato

D’altronde non potrebbe essere altrimenti, considerando le sue origini sportive. Da ragazzino, Greg non sognava di essere un ciclista, lui che pure veniva dalle Fiandre, che aveva avuto un nonno corridore professionista e un padre buon dilettante. Lui non guardava a Merckx o De Vlaeminck, Museeuw o Boonen, i suoi idoli erano Pfaff e Preud’homme. Greg voleva fare il calciatore o meglio il portiere. Era arrivato proprio alle soglie del grande calcio, a 17 anni militava nel Beveren, squadra di prima divisione belga avversaria tante volte dei nostri club nelle Coppe. Quel sogno s’infranse un giorno, con un grave infortunio. La riabilitazione passò per la bicicletta e Greg scoprì che nella sua vita era pronto un piano B.

«Quando ho iniziato – ricorda – c’era gente come Armstrong, Hincapie, Museeuw, Cancellara. E’ stato meraviglioso misurarsi con loro e crescere attraverso di loro».

Uno in particolare è stato il suo mentore, quasi senza saperlo: «Per me Hincapie era un’ispirazione, aveva un’atmosfera particolare intorno a sé e tanti anni dopo ho capito che io lo ero diventato per gli altri. Era bello vedere ragazzi come Florian Vermeesch venire in corsa vicino a me a chiedere consigli. Anche questo significa aver fatto la propria parte».

La storia di Van Avermaet è fatta anche di cadute, soprattutto al Giro delle Fiandre (foto Velo Online)
La storia di Van Avermaet è fatta anche di cadute, soprattutto al Giro delle Fiandre (foto Velo Online)

Il ritratto… ripetuto

Sedici anni di carriera sono contraddistinti da tanti episodi. Ma per descrivere l’uomo oltre il campione, può bastarne uno, quasi avulso dalle corse, dalle vittorie e sconfitte. Lo raccontava James Startt, fotografo americano alla rivista Velo Outside.

«Ogni anno Greg ha preso parte alla trasferta canadese – ha detto – per preparare al meglio i mondiali. Alloggiava sempre allo Chateau Frontenac, storico hotel nel cuore di Quebec City. Nel 2018, dopo l’allenamento, gli dissi che avevo trovato un angolo nella reception molto particolare, con una sedia del XVIII secolo circondata da dipinti storici con cornici in foglia d’oro, dove fare un ritratto, lui vestito da ciclista in un contesto completamente diverso.

«Lui, con la divisa BMC, assunse pose che mi piacevano molto per il contrasto che esprimevano e al contempo per quel che dicevano del personaggio. Quand’era tutto fatto, mi arrivò un messaggio dall’addetto stampa: le foto non si potevano usare, non aveva usato le scarpe da ginnastica del team perché aveva fastidi a un piede. Entrai nel panico, la foto era già stata spedita, ma a risolvere le mie difficoltà e i miei timori intervenne lo stesso Greg, disposto a rivestirsi di tutto punto e rifare tutto. Provate a chiedere oggi la stessa cosa…».

Il particolare ritratto scattato da James Statts nel 2018. Una storia dietro questo scatto
Il particolare ritratto scattato da James Statts nel 2018. Una storia dietro questo scatto

Talento e buon fiuto

Van Avermaet può essere considerato l’esempio di come si possa arrivare lontano attraverso due ingredienti specifici: talento e un buon fiuto, che ti consentono di stravolgere anche quelle regole che sembravano scritte. La sua vittoria più grande è figlia di questa regola, il titolo olimpico di Rio 2016: non era una gara per lui, alla vigilia nessuno avrebbe scommesso sulle sue possibilità, lui splendido passista in una gara che sembrava disegnata apposta per chi sapeva andare in salita.

La corsa si era messa esattamente come si prevedeva. Anzi, il suo epilogo sembrava segnato quando Vincenzo Nibali lanciò l’attacco in compagnia del colombiano Henao. In discesa lo Squalo stava costruendo il suo capolavoro, ma una malefica curva lo tradì. Van Avermaet era dietro, ma era sopravvissuto, fra crisi e cadute altrui, fino ad approdare alla gloria eterna.

Van Avermaet con l’oro di Rio 2016, secondo belga a conquistarlo alle Olimpiadi
Van Avermaet con l’oro di Rio 2016, secondo belga a conquistarlo alle Olimpiadi

La maledizione del Fiandre

La sua è stata una carriera di vittorie e fallimenti, anche nei suoi due anni più ricchi: il biennio 2016-17. Nel 2016 era partito fortissimo con le vittorie all’Omloop Het Nieuwsblad e alla Tirreno-Adriatico, era stato 5° alla Sanremo e prometteva sconquassi alle classiche, ma una rovinosa caduta al Fiandre gli costò la frattura della clavicola. Sembrava che la stagione fosse ormai persa, invece risorse dalle sue ceneri approdando alla vestizione della maglia gialla al Tour e all’apoteosi di Rio. Nel 2017 la caduta sull’Oude Kwaremont al Fiandre, quando davanti Gilbert era ancora raggiungibile: quel giorno la classica che più amava sfuggì ancora una volta, la definitiva. Ma sette giorni dopo, Greg sbaragliò la concorrenza a Roubaix.

La carriera di Van Avermaet ha sempre avuto in Sagan un punto di riferimento, il suo contraltare ed è curioso che i loro ritiri siano avvenuti a una settimana di distanza, quasi un segno del cambio generazionale. Due personaggi molto diversi fra loro, caratteri opposti. Molti rivedono nella loro rivalità quella attuale fra Van Der Poel e Van Aert, dimenticando probabilmente che quest’ultima non è però scaturita dal ciclismo su strada, ma è figlia di un processo più lungo e passato attraverso il ciclocross.

Van Avermaet e Sagan al mondiale 2017. La loro rivalità è stata il sale del ciclismo per anni
Van Avermaet e Sagan al mondiale 2017. La loro rivalità è stata il sale del ciclismo per anni

Fermarsi in tempo

Van Avermaet, nel suo passo d’addio, ha rivolto un particolare pensiero al suo rivale slovacco: «Peter ha vinto molto più di me, ma quand’eravamo sul mio terreno ho potuto batterlo alcune volte e questo rende le cose più belle. Lo rispetto molto, ha reso la mia carriera ancor più bella».

Probabilmente “Golden Greg”, come viene chiamato da quel giorno di Rio, avrebbe potuto ancora continuare, ma del suo ritiro si sapeva già dalla primavera.

«Io mi diverto ancora, mi piace pedalare – ha raccontato – ma sento che quel livello, quello del ciclismo di oggi, non mi appartiene più. Le classiche non sono state un granché, così ho deciso che poteva bastare, mi scadeva il contratto con l’AG2R Citroen Team e non mi sono neanche messo a cercarne un altro. E’ meglio fermarsi quando ancora si esprime qualcosa. Io sono ancora preparato, ma non ho più lo scatto di prima e così anche una top 10 diventa proibitiva. Allora mi chiedo, a cosa servirebbe? Sono contento di quel che ho fatto».

Oss: «Vi racconto la mia amicizia con Sagan»

06.10.2023
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Una carriera vissuta insieme. Non solo per le strade del mondo, pedalando, perché quando condividi un lavoro che è anche una passione, si sviluppano connessioni strette, quasi inaspettate che vanno al di là e allora condividi confidenze, speranze, illusioni, gioie alternate a delusioni. Peter Sagan ha deciso di lasciare il ciclismo professionistico (non l’agonismo perché il suo sogno olimpico lo ha riportato verso le radici della mountain bike) e Daniel Oss è un po’ orfano. Il trentino continua, va avanti per la sua strada portando con sé un grande bagaglio di ricordi.

La loro amicizia è di lunga data: «Ci siamo conosciuti in Liquigas, lui è arrivato nel 2010, io ero già lì da un anno. Poi ci perdemmo quando io passai alla Bmc mentre lui continuò nel team che era diventato Cannondale, ma le strade che frequentavamo erano le stesse, alle partenze non mancava mai qualche parola, poi ci siamo ritrovati insieme nel 2018 e abbiamo continuato. Non capita spesso che due carriere procedano spedite di pari passo con l’amicizia, è qualche cosa che il ciclismo ha saputo regalarci».

Lo slovacco ai mondiali di Mtb 2023. Ora si dedicherà alla mountain bike puntando ai Giochi di Parigi
Lo slovacco ai mondiali di Mtb 2023. Ora si dedicherà alla mountain bike puntando ai Giochi di Parigi
Che cosa vi unisce?

Tanto. Diciamo che siamo ciclisticamente compatibili: ci piacevano le classiche prima di tutto, poi avevamo le stesse idee sulla gestione delle gare, anche fisicamente essendo entrambi abbastanza possenti ci trovavamo bene a collaborare, io potevo tirarlo nelle volate evitandogli di prendere aria, potevo risolvere alcune situazioni in gruppo per fargli trovare la posizione più favorevole.

Ma ciclismo a parte?

Siamo simili anche nella vita, abbiamo una mentalità da velocisti. Io dico sempre che un velocista e uno scalatore sono molto diversi non solo in gara, ma anche come approccio alla stessa quotidianità. A me e Peter piace la stessa musica, cii troviamo d’accordo su molte cose. Non su tutto, abbiamo avuto anche noi i nostri confronti, ma in un’amicizia ci stanno. Un amico è anche chi al momento che serve ti mette davanti alla realtà nuda e cruda e noi l’abbiamo sempre fatto. Ma c’è anche altro…

Lo slovacco con Oss, suo compagno per tanti anni, cementando un’amicizia profonda
Lo slovacco con Oss, suo compagno per tanti anni, cementando un’amicizia profonda
Che cosa?

Abbiamo sempre cercato di sdrammatizzare. Il ciclismo è importante, è il nostro lavoro, ma in fin dei conti è una gara, finita quella ce ne sarà un’altra, quindi diamo il giusto valore a vittorie e sconfitte. Questo non significa non essere professionali, anzi. C’era il momento per scherzare e il momento per applicarsi con tutto se stesso, su questo Peter è sempre stato molto intransigente, ma cercavamo di affrontare tutto col sorriso, non per niente il suo motto è sempre stato “why so serious?”.

La sensazione è che il suo modo di essere, forse anche guascone in certi frangenti, sia servito a cambiare il ciclismo, che oggi è profondamente diverso da quello dei vostri inizi…

La sua filosofia positiva è sicuramente servita. Prima si parlava solo di ciclismo eroico, con stereotipi vecchi e che non erano più legati così strettamente all’attualità. Noi abbiamo dato un segno di cambiamento. Sagan ha capito che si poteva essere al top dando un’immagine diversa, d’altro canto ha subito intuito di essere un personaggio che faceva breccia, sia esteticamente che con il suo fare. Questo ha contribuito a dare una svolta, a mostrare l’immagine di gente che non solo fatica, ma si diverte anche.

Sagan è stato iridato junior di mtb, disciplina nella quale meglio esprime la sua estrosità
Sagan è stato iridato junior di mtb, disciplina nella quale meglio esprime la sua estrosità
Quanto hanno contribuito i social in tutto ciò?

Enormemente, sono stati lo strumento, ma è stato bravo lui a saperli usare nel modo giusto. La gente vedeva gli spot, i suoi passaggi in tv mai banali, magari sempre con qualche battuta. E’ sempre stato una star, ma Sagan ha anche saputo usare i social per dare risalto a chi era con lui: sponsor, collaboratori, compagni, anche particolari vicende. Poi però il ciclismo ha preso una via sua, diversa da quella che intendiamo noi.

In che senso?

Molti uniscono Sagan alle generazioni attuali, ma non è così. Oggi c’è una concentrazione massima, una pressione enorme, quel disincanto è andato un po’ perdendosi nei campioni di oggi, quasi meccanici nel loro agire. E’ una metodica portata allo stremo a scapito di quella goliardia che faceva bene a questo sport. Forse Pogacar con la sua leggerezza nell’affrontare ogni gara, magari anche col proposito di vincere sempre è quello più vicino al suo e nostro modo di essere.

L’ultimo dei mondiali vinti da Sagan, nel 2017 battendo in volata Kristoff
L’ultimo dei mondiali vinti da Sagan, nel 2017 battendo in volata Kristoff
C’è però da chiedersi se questi suoi ultimi anni, soprattutto il periodo alla TotalEnegies, li abbia vissuti con la consapevolezza di un lento tramonto agonistico…

Tutti sappiamo che prima o poi si va verso la fine di questa bellissima parentesi che però è sempre tale. Sagan è stato per almeno una dozzina d’anni sulla cresta dell’onda, i campioni di oggi, i Van Aert e Van Der Poel li ha battuti. E’ attraverso di lui che il ciclismo ha vissuto un cambio generazionale. E’ un decorso naturale, che porta il fisico a non dare più le risposte di prima ma anche al venir meno delle motivazioni. Peter non si è mai tirato indietro, non ha mai smesso di onorare i contratti che firmava, l’impegno è sempre stato massimo, ma certamente non poteva più garantire i risultati di prima.

Fa un certo effetto vedere che nella sua ultima gara, il Tour de Vendée, abbia tirato la volata a Dujardin…

Io ci vedo qualcosa di romantico, è una bella immagine. Sagan si è sempre fatto in quattro per gli altri, il suo gesto è un po’ un passaggio di consegne verso le nuove generazioni, ma fa parte del suo essere. Non potrò mai dimenticare il mondiale del 2018, quando si presentò sul palco davanti a Valverde che aveva vinto per stringergli la mano: «Te la presto – riferendosi alla maglia – ricordati che la rivoglio indietro». E’ un personaggio sempre, che sa anche darsi alla gente. Non ricordo un posto dove siamo stati, nel mondo intero, dove qualcuno non sia venuto per un autografo, un selfie, un semplice saluto e lui non dice mai di no.

L’immagine del bellissimo post che l’Uci ha pubblicato per riassumere la lunga carriera di Sagan
L’immagine del bellissimo post che l’Uci ha pubblicato per riassumere la lunga carriera di Sagan
La vostra è un’amicizia che va al di là del ciclismo?

Sicuramente, conosco tutti i suoi fratelli, la famiglia. Abitiamo molto lontani, lui si divide fra Montecarlo e Zilina, la sua città. Poi sinceramente quando condividi una stagione intera, stesse strade, stesse camere d’hotel, quando stacchi vuoi stare con la tua famiglia. Ora magari avremo occasione per vederci fuori corsa, magari condividere qualche vacanza con le nostre famiglie. La nostra amicizia rimarrà al di fuori del ciclismo e magari neanche ne parleremo più.

Zanatta sicuro: Sagan fenomeno 10 anni prima di Remco

05.10.2023
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Come Evenepoel e forse anche meglio, ma dieci anni prima, Peter Sagan è stato l’esempio della carriera di un giovane fenomeno cresciuto con regole meno affrettate rispetto ad altri. Lo slovacco, che al Tour de Vendee di domenica scorsa ha disputato l’ultima gara da pro’, probabilmente non era consapevole di poter diventare così importante. Quando si è affacciato sul mondo del ciclismo professionistico, forse non sapeva neppure dove fosse.

Zanatta e Sagan, qui alla partenza del Tour 2013, hanno lavorato assieme sin dal passaggio di Peter nel 2010
Zanatta e Sagan, qui alla partenza del Tour 2013, hanno lavorato assieme sin dal passaggio di Peter nel 2010

Parola a Zanatta

Ciascuno di noi abbia avuto la fortuna di vivere Peter da vicino può raccontare aneddoti a non finire. Ma se c’è uno che l’ha visto arrivare e crescere e si è stupito per il portento, quello è Stefano Zanatta, che di giovani se ne intende e della Liquigas di allora era il direttore sportivo. Il trevigiano è a casa con una punta di influenza, ma non si sottrae al racconto.

«Peter arrivò come un fulmine a ciel sereno – racconta – lo prendemmo perché aveva fatto bene nel cross e poi nel 2008 aveva vinto i mondiali juniores di mountain bike in Val di Sole. Su strada sembrava quasi che non corresse, però cominciai a prendere informazioni. Venti giorni dopo quel mondiale, andò al Lunigiana e vinse l’ultima tappa. Allora chiesi se per tornare vero la Slovacchia sarebbe passato di qui. Mi dissero che sarebbe andato a una corsa in Istria e lì vinse due tappe e la classifica. La settimana dopo, ai mondiali di Varese, mi incontrai con il suo manager. Gli proposi di venire con noi, inizialmente fra i dilettanti, perché era un bel corridorino, ma non sembrava che avesse tutte queste potenzialità…».

In pista a Montichiari per lavorare sulla posizione. Sembra un bimbo al luna park
In pista a Montichiari per lavorare sulla posizione. Sembra un bimbo al luna park
Invece?

Arrivò al primo ritiro con gli under 23, eravamo a Cecina alla Buca del Gatto. Li seguiva Biagio Conte e Peter in teoria a casa non aveva la bici da strada. Gliela avevamo data tre giorni prima e dopo i primi due giorni andarono a fare distanza. C’erano Viviani e Cimolai, entrambi neoprofessionisti, che dovevano partire forte. Era gente che da noi vinceva le corse e tornarono dicendo che questo qui a un certo punto aveva accelerato e li aveva lasciati lì. Biagio era convinto che a casa si fosse allenato, così andai a chiederglielo, ma lui confermò di aver fatto solo un po’ di cross e di mountain bike e tante camminate in montagna. Così ci rendemmo conto che fosse uno fuori dal comune.

Basso raccontò che la sua molla erano le difficoltà economiche della famiglia.

Lui era forte, ma sicuramente viveva in un paese dove la situazione familiare era un po’ incerta. Aveva quattro fratelli e questi ragazzini si divertivano ad andare fuori in bicicletta. Quel primo anno, ero al Giro di Polonia e un giorno me lo vidi arrivare in hotel. Era a casa e si presentò la sera alle sei avendo fatto 100 chilometri per arrivare e altri 100 ne avrebbe fatti per tornare. Era venuto con suo fratello e due amici per vedere la tappa. Non conosceva il ciclismo, quello era uno dei primi contatti.

Prima vittoria da pro’ nel 2010: 3ª tappa della Parigi-Nizza ad Aurillac. Batte Rodriguez e Roche
Prima vittoria da pro’ nel 2010: 3ª tappa della Parigi-Nizza ad Aurillac. Batte Rodriguez e Roche
In che senso non lo conosceva?

A parte il Tour e la Parigi-Roubaix, perché la nazionale l’aveva portato a fare la Roubaix juniores e lui era arrivato secondo, non sapeva nulla. Le altre corse gliele abbiamo insegnate noi. L’episodio al Tour Down Under del 2010 la dice lunga sul personaggio, anche se io non c’ero e il racconto di Dario Mariuzzo (uno dei tecnici della Liquigas, ndr) è da sbellicarsi dalle risate.

Cosa successe?

Il secondo giorno finì a terra e si fece male a un gomito, con un grosso taglio provocato da una corona, per cui gli misero 20 punti. Non era il Peter brillante di adesso, quando parlava alzava appena gli occhi. Il dottor Magni lo portò in ospedale e rimase con lui per tre ore. E quando ne uscirono, Peter gli disse: «Domani, io start». Magni cercava di farlo ragionare, dicendogli di dormirci sopra e il giorno dopo avrebbero valutato. Ma lui fu irremovibile: «Dottore, io domani start». E infatti ripartì e dopo tre giorni andò in fuga con Armstrong, Valverde e Cadel Evans. Tirò alla pari per tutto il tempo. E quando gli chiedemmo perché mai lo avesse fatto, visto il livello degli avversari, rispose: «Perché ero in fuga e chi va in fuga deve tirare». Era tutto da costruire, anche quando cominciammo a spiegargli che la Parigi-Nizza non era la Coppi e Bartali e ci sembrava strano dirglielo…

L’amicizia con Oss non si discute: qui dominano il Giro del Veneto 2010 e vince il trentino
L’amicizia con Oss non si discute: qui dominano il Giro del Veneto 2010 e vince il trentino
Però intanto alla Parigi-Nizza lo portaste e lui vinse la prima corsa da pro’…

In Francia ci andavamo tutti gli anni dal 2005 e avevamo vinto una sola tappa con Pellizotti, arriva questo e ne vince due: capite perché eravamo sorpresi? A quel punto cominciammo a tutelarci perché non ce lo portassero via e insieme pensammo a come fare per farlo crescere gradualmente. Ci eravamo resi conto che poteva veramente andare tanto in alto: la fortuna di avere una squadra forte alle spalle, gli avrebbe permesso di lavorare con calma. Altrimenti già quell’anno avremmo avuto la tentazione di portarlo alla Sanremo. Invece avevamo la squadra fatta per Bennati e a lui dicemmo che semmai l’avrebbe corsa l’anno dopo.

E’ stato difficile gestirlo così? Oggi si tende a buttarli subito dentro…

A noi sembrava logico fare così, perché la scuola che ho avuto era questa. Farli crescere un po’ alla volta, mentre adesso le teorie sono un po’ cambiate e quindi magari qualcuno preferisce avere tutto subito. Non so se sia meglio o peggio, dico che quella era la logica del momento: seguimmo lo stesso metodo di lavoro usato con Vincenzo (Nibali, ndr). Cioè portare i giovani a fare corse buone dove potessero esprimersi. Che senso aveva portarlo alla Sanremo perché tirasse per il Benna?

Nel 2010 aveva 20 anni tondi, ma non ha mai avuto le dichiarazioni altisonanti di Evenepoel…

Peter non ha mai avuto la mania, tra virgolette, di pensare di essere il più forte. Però ha sempre corso per vincere e il suo fisico gli permetteva di farlo, anche se gli allenamenti non erano perfetti e mangiava di tutto. Bastava che buttasse dentro, secondo lui il cibo era cibo. Poi ha cominciato a capire che ci sono delle regole, ma in quegli anni mi diceva che poteva vincere anche se mangiava solo una brioche. Era vero, ma non si potevano riscrivere le regole dell’allenamento perché lui era un’eccezione.

Si rendeva conto di essere così forte?

Secondo me nei primi anni no. Almeno fino al 2014, quando è andato via e ha cominciato a capire la gestione delle corse per spendere meno energie. Lui andava. Gli bastava salire in bici, pedalare, stare davanti e fare bagarre quando c’era da lottare. Non ti chiedeva mai quale fosse il punto giusto per attaccare, anche se ascoltava molto quello che gli consigliavamo.

Giocava anche nelle famose tappe del Tour vinte con un pizzico di… arroganza?

Quell’anno, era il 2012, si divertiva tanto. Andava veramente forte, ma è un fatto che dopo quella prima Parigi-Nizza ci dicemmo con gli altri tecnici che non avremmo più dovuto pensare di andare alle corse come facevamo prima. Bisognava cambiare modo di approccio alle gare e la disposizione in corsa. Perché Sagan ha portato la possibilità di fare nel ciclismo quello che nessuno aveva immaginato. Peter era avanti a tutti per il suo modo di pensare e di fare. Lo dicevamo nelle riunioni con Scirea, Volpi e Mariuzzo: «Ragazzi, non pensate di ragionare con Peter come per gli altri». Non aveva limiti. Per come andava in salita, avrebbe potuto vincere anche le corse a tappe più leggere, però mentalmente non riusciva a stare troppi giorni concentrato.

Peter ha sempre voluto attorno un gruppo solido di amici, da Oss a Viviani, Da Dalto e gli altri di quella Liquigas.

Quando è arrivato, non parlava tanto, magari per la lingua. Era più riservato, più cupo, ti guardava un po’ così. Invece dopo un po’ ha scoperto di far parte di un bel gruppo. Ha avuto un ottimo rapporto anche con Da Dalto, che nei primi anni lo andava a prendere, lo aiutava a fargli trovare i posti dove fare la spesa. L’ha fatto vivere come uno del posto. Poi con ragazzi come Oss e Viviani ha tirato fuori il suo spirito goliardico ed è nato il Peter che tutti conosciamo. Uno che in allenamento non stava mai fermo, era sempre fuori dalla sella anche quando facevamo 150 chilometri ed era sempre lì a fare scherzi e toccarli. Forse all’inizio si è sentito un po’ isolato in una squadra di italiani, quando poi è arrivato anche suo fratello, si è sciolto.

Ti è dispiaciuto che quel gruppo si sia sciolto?

Quando decise di andare via, mi aveva chiesto da gennaio se avessi piacere di andare con loro, seguendo il suo gruppo. Io però non me la sentii, perché comunque era la Liquigas e avevo un ottimo rapporto Roberto Amadio. Insomma, a gennaio non avrei mai pensato che ci lasciassero per strada, per cui ci siamo salutati come si fece con Vincenzo e con tanti altri. Peter ha fatto la sua strada e la mia indole non è mai stata quella di seguire un atleta, anche se a lui ero molto legato. E’ il corridore che sono andato a prendere quando aveva 18 anni e che è diventato grande davvero. Però è rimasto un ottimo rapporto. Se c’è qualcosa, risponde subito.

Quando ti sei accorto che la sua stella si stava offuscando, fermo restando che ha fatto 13 anni da pro’?

Non pensavo che avrebbe fatto una carriera così lunga. Uno che corre come lui anche per divertirsi, a un certo punto non trova più gli stimoli. Invece lui è stato bravo a tener ancora bene, a parte questi ultimi due anni. Il suo modo di correre è stato dispendioso, bisogna fare sempre più sacrifici e intanto arrivano i giovani. Dopo dieci anni di carriera, ti ritrovi in una situazione che non riconosci più. Secondo me, Peter ha smesso di divertirsi dopo il terzo mondiale consecutivo, quando arrivava uno e gli chiedeva una cosa, arrivava un altro e gliene chiedeva un’altra. E a quel punto ha un po’ mollato. Fisicamente ne aveva ancora far bene, però non era più Peter con la cattiveria di prima.

Pidcock folletto iridato, Van der Poel si ferma subito

13.08.2023
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GLASGOW – Sugli sterrati di Glentress Forest, delle polemiche e dei regolamenti su misura, la maglia iridata va a Tom Pidcock, che passa sul mondiale di cross country da specialista e non certo da stradista in gita premio, come purtroppo sono parsi Van der Poel e Sagan.

C’era così tanta attesa per la prova dell’olandese iridato su strada, da aver dimenticato che in questo ciclismo così specializzato, la mountain bike non fa certo eccezione. E se Ganna potrebbe aver avuto problemi nel passare dall’inseguimento alla crono, figurarsi se in sei giorni e senza una preparazione specifica, Van der Poel avrebbe potuto lottare ai massimi livelli nel fuoristrada.

Al via non hanno guardato in faccia più nessuno: la partenza è stata data ieri alle 15,30
Al via non hanno guardato in faccia più nessuno: la partenza è stata data ieri alle 15,30

Dalla quinta fila

La norma “salva star” che ha consentito a Pidcock, Van der Poel e Sagan di partire dalla quinta fila, ben più avanti di quanto il loro ranking avrebbe consentito, è servita quindi soltanto al britannico, che comunque ha dovuto inseguire per un bel po’ prima di arrivare in testa alla gara. Pensando ai tentativi della Ineos Grenadiers di farne un uomo da Tour e a quanto questo gli pesi, si capisce che il luogo della spensieratezza per Pidcock sia questo e nessun altro.

«I primi 4-5 giri sono stati velocissimi – ha commentato il fresco vincitore – è stato difficile tornare davanti dalla posizione mi trovavo. Un percorso super duro. Ma lo sapevo dall’anno scorso: il mondiale ha un livello diverso rispetto alle gare di Coppa del Mondo».

Sagan non ha fatto mancare le sue acrobazie, ma alla resa dei fatti ha pagato il conto in salita
Sagan non ha fatto mancare le sue acrobazie, ma alla resa dei fatti ha pagato il conto in salita

La regola riscritta

Il fatto, in breve. Per agevolare la partecipazione delle tre star della strada, l’UCI ha modificato il regolamento, consentendo loro di partire a ridosso delle prime file. Un bel vantaggio, se ricordiamo ad esempio la rimonta cui fu costretto Sagan alle Olimpiadi di Rio, quando partì dall’ultima fila. Uno strappo alla regola piuttosto evidente: basti pensare che nei giorni scorsi Viviani non ha potuto partecipare all’individuale a punti al posto dell’infortunato Consonni, perché non aveva i punti per farlo. Nella mountain bike hanno fatto finta di niente.

E così in un giorno luminoso e polveroso a due ore e mezza da Glasgow (dove non ha fatto che piovere), i nostri eroi sono partiti con grande enfasi. E mentre Sagan si è prudentemente defilato (chiuderà al 63° posto, a 7’14” da Pidcock), Tom ha dimostrato di sapere il fatto suo, mentre Van der Poel è caduto a una delle prime curve.

Vam der Poel è partito come Sagan e Pidcock dalla quinta fila, ma ha sbagliato per la foga di rimontare
Vam der Poel è partito come Sagan e Pidcock dalla quinta fila, ma ha sbagliato per la foga di rimontare

Imbarazzo Van der Poel 

Seduto davanti al camper della squadra olandese, l’iridato della strada è parso piuttosto scocciato e anche in imbarazzo. Dopo aver dichiarato per giorni di non avere un reale interesse per la mountain bike, la sua reazione e le sue parole hanno fatto pensare all’esatto opposto.

«La vittoria di domenica scorsa – ha detto, con una ferita sul viso e una sul ginocchio – è una bella consolazione, ma questa caduta toglie l’euforia e penso che sia la vergogna più grande. Ho battuto sulla stessa parte della gara su strada, quindi la ferita si è riaperta. Tuttavia questo è secondario: penso che la delusione superi il danno fisico. Mi è scivolata la ruota anteriore e ho fatto tutto da me. Sono piuttosto incavolato con me stesso, è stato uno stupido errore in una delle parti più facili del percorso. Continuare non era un’opzione, la botta è stata troppo forte. Parigi 2024? Sicuramente non smetterò di andare in mountain bike, ho notato in questa settimana quanto mi piaccia. E se andrò alle Olimpiadi, devo ringraziare Tom Schellekens, che sabato ha conquistato un posto per l’Olanda. Quindi sono stato fortunato».

La sicurezza di Van der Poel non trova grande corrispondenza nelle parole del tecnico olandese Gerben de Knegt: «Abbiamo visto che se Mathieu vuole trovare il tempo – ha detto a Het Nieuwsblad – può farcela. Ma deve essere in grado di dedicare del tempo al suo programma e questo è il più grande punto interrogativo. Non andremo a Parigi per finire decimi, sia chiaro. E un risultato migliore qui avrebbe comunque aiutato».

Guai per Pidcock

Intanto Pidcock, che alla fine di tutto ha dato un abbraccio di grande complicità alla compagna di club Ferrand-Prevot che si è ripetuta fra le donne, tira un sospiro di sollievo e sta alla larga da polemiche e rimostranze. Anche perché lui è il meno alieno fra gli ammessi in extremis, avendo già vinto due mondiali, gli ultimi campionati europei a Monaco ed essedo campione olimpico in gara.

«Alla fine della gara – ha detto visibilmente sollevato – si deve essere allentato qualcosa nel cambio, tanto che se forzavo, avevo continui salti di rapporto. Non sapevo se fermarmi e stringerlo di nuovo, perché temevo che la mia gara potesse finire da un momento all’altro. Non potevo andare a tutto gas per non sollecitare troppo la trasmissione, devo dire che gli ultimi giri sono stati parecchio stressanti».

Braidot si è piazzato settimo all’arrivo: lui è poco soddisfatto, ma alla base ci sono stati problemi tecnici
Braidot si è piazzato settimo all’arrivo: lui è poco soddisfatto, ma alla base ci sono stati problemi tecnici

L’onestà di Braidot

Migliore degli italiani è stato Luca Braidot, settimo all’arrivo, con un distacco di 1’41” che fa pensare comunque a una condizione molto buona.

«Sono un po’ deluso – ha detto – ma la gara è andata così, molto veloce. Ho avuto un piccolo problema tecnico al secondo giro e ho dovuto gestirla sino alla fine. Sono rimasto nel secondo gruppetto e nell’ultimo giro sono riuscito a staccare i 3-4 che erano con me e a guadagnarmi la 7° posizione.

«Riguardo la polemica sull’ordine di partenza dei tre stradisti, non trovo corretto che l’UCI abbia cambiato le regole all’ultimo giorno, però è un onore correre con questi atleti. E’ importante che vengano a correre da noi e sono felice della loro presenza. Pidcock è rientrato su di me veramente forte, aveva la gamba per vincere e l’ha dimostrato».

Sagan e Alaphilippe: Boucle anonima, destini diversi

16.07.2023
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In questo Tour de France, al di là di chi lotta per la maglia gialla o compete comunque da protagonista, ci sono due figure già storiche per il ciclismo, che hanno vestito a ripetizione la maglia iridata, ma che hanno perso parte dello smalto che avevano. Ci sono molti punti in comune fra Peter Sagan e Julian Alaphilippe, dato da un passato fatto di grandi vittorie nelle classiche e nelle edizioni iridate. Il presente li vede un po’ ai margini, anche se lo stanno vivendo in maniera diversa perché anche il futuro si prospetta differente.

Due corridori posti su binari diversi, che Gianni Bugno, altro corridore capace di conquistare due titoli mondiali a distanza di un anno (Sagan a dir la verità ne ha vinti addirittura tre) guarda con la sua lente d’ingrandimento.

Peter Sagan chiuderà a fine stagione, per dedicarsi alla mountain bike, con il sogno delle Olimpiadi
Peter Sagan chiuderà a fine stagione, per dedicarsi alla mountain bike, con il sogno delle Olimpiadi

«E’ chiaro che non sono più i campioni di qualche anno fa – inizia Bugno – anche se la gente vedo che li guarda sempre con grande affetto, quando arrivano alla partenza. Questo Tour però lo stanno vivendo in maniera diversa, mi colpisce soprattutto Sagan, che vedo molto al di sotto dei suoi standard. Credo che il fatto di aver già annunciato l’intenzione di smettere a fine anno gli precluda molte possibilità».

Pensi che influisca mentalmente?

Sì, ho come l’impressione che abbia mollato, che non ci creda più. E quando sei tu il primo a non crederci, è difficile che i risultati arrivino. Non so neanche quale sia la sua reale condizione, mi pare sia un po’ a terra moralmente e non abbia la spinta giusta per provarci. Si accorge che in volata non può tenere testa a Philipsen, anche sui percorsi misti che una volta erano il suo forte non emerge, è un po’ alla deriva.

Nonostante gli scarsi risultati, la passione per Sagan non accenna a diminuire
Nonostante gli scarsi risultati, la passione per Sagan non accenna a diminuire
E’ uno stato che emerge in questo Tour o lo avevi notato già prima?

No, è un po’ tutta la stagione che va così. L’ultima vittoria è stata il titolo nazionale dello scorso anno, sono 12 mesi che non vince. Ogni tanto riesce a cogliere qualche piazzamento e nulla più. Per questo dico che è una questione soprattutto di testa. Ha bisogno di nuovi stimoli.

Poteva averli dal team, in quanto a supporto diverso?

E’ un discorso più personale. Io credo che ormai sia proiettato verso nuove dimensioni, non è un caso se ha detto che vorrebbe riprovare la mountain bike per tentare di andare alle Olimpiadi oppure se sia sempre molto interessato al gravel. Ha bisogno di una nuova dimensione, che in questo ciclismo su strada non trova più.

Alaphilippe è spesso in fuga e vuole centrare una tappa. La Soudal lo sta supportando?
Alaphilippe è spesso in fuga e vuole centrare una tappa. La Soudal lo sta supportando?
Veniamo ad Alaphilippe: stesso discorso?

Il francese non è sicuramente quello dello scorso anno, si vede anche quando prova a entrare nelle fughe, ma nel suo caso ci sono ragionamenti diversi da fare. Non ha dalla sua un team che lo supporta e questo mi dispiace, perché si ci è dimenticati un po’ troppo in fretta di come con i suoi titoli mondiali abbia tenuto su la squadra, di quanto sia stato importante anche come immagine. Il fatto di essere visto dai vertici del team con un po’ di sufficienza lo condiziona. Però…

Continua…

Io guardandolo bene noto che in questo Tour, pur non ottenendo risultati, sta impegnandosi e la sua condizione è in crescendo. Secondo me uscirà dal Tour con una gamba notevole e non dimentichiamo che subito dopo ci sono i mondiali…

Il francese inseguito da Van Aert, una sfida che potrebbe ripetersi al mondiale in agosto
Il francese inseguito da Van Aert, una sfida che potrebbe ripetersi al mondiale in agosto
Secondo te il francese può essere un fattore a Glasgow?

Io penso di sì, perché il percorso è abbastanza adatto al suo modo di correre. Io non lo sottovaluterei, potrebbe anche dire la sua in quel contesto, considerando che altri, quelli che stanno lottando nei quartieri alti della classifica, saranno comunque un po’ stanchi, anche mentalmente.

Il suo futuro come lo vedi?

Sarà importante per lui scegliere una giusta squadra per il 2024. Può fare ancora molto, ha solo 31 anni e tutte le qualità per emergere nelle corse a lui più adatte. Anche nel suo caso servono nuovi stimoli, ma può trovarli tranquillamente nel “suo” mondo.

Bugno nel 1998, l’ultimo suo anno chiuso con un’importante vittoria alla Vuelta
Bugno nel 1998, l’ultimo suo anno chiuso con un’importante vittoria alla Vuelta
Le loro storie hanno qualcosa che ti riporta al tuo passato?

Io ho chiuso a 34 anni, ma anche nella mia ultima stagione vinsi, il mio ultimo successo è stato una tappa alla Vuelta. So però che alla fine comincia a mancarti il morale e quando non c’è quello, tutto diventa più difficile. E’ successo anche a me. Molto però dipenderà da quel che vorranno fare, credo che le loro strade andranno diversificandosi sempre più.