OROPA – Marco c’era. C’è stato anche un grande Pogacar, sia chiaro, ma quando hai vissuto certe storie, quelle emozioni diventano la lente attraverso cui leggi le altre. E Marco da Oropa non se ne è mai andato, solo che oggi, a 25 anni da quella volta, la sensazione è che ci fosse più gente e che nessuno di loro voglia ancora dimenticarlo.
Detto questo, Tadej Pogacar ha fatto quello che tutti si aspettavano facesse: lui per primo. Voleva vincere anche ieri e lo vedi che gli scoccia ammettere di aver commesso qualche errore. L’idea forse era davvero portarsi a casa un Giro rosa dalla prima all’ultima tappa, ma di certo la svista di Torino ha dato allo sloveno la cattiveria giusta per non commettere la minima sbavatura. Anche quando è finito per terra a causa di un cambio bici mal orchestrato.
«Ho preso una buca in quel tratto sulle pietre – spiega – non era certo una buona strada. Stavo arrivando la curva e io avevo pensato di fermarmi prima. Invece dalla macchina mi hanno detto di farlo dopo la curva. Normalmente sarebbe stato meglio, ma stavo già pedalando sulla ruota anteriore con zero pressione, ero sul carbonio. Così sono arrivato alla curva e sono caduto. Ma niente di pazzesco, solo un po’ più di adrenalina. Ero abbastanza fiducioso. C’era tutto il tempo per rientrare con la squadra e lo abbiamo fatto. I ragazzi hanno fatto un ottimo lavoro. Siamo tornati davanti, abbiamo impostato il ritmo che ci stava meglio ed è stato perfetto».
Attacco ai meno 4,3
Marco c’era, anche in quella curva con il muraglione e gli archi da cui la bandiera gigantesca calava sulla terra come un mantello incantato. E poco prima di quel punto, in un tratto dove la strada era più severa, approfittando dell’ultima tirata di Majka, Pogacar ha aperto il gas e ha preso il largo. I tifosi del Pirata lo hanno incoraggiato e lui è sparito dietro la curva con cui il cammino di Oropa si infila nel bosco. Luogo mistico questo Santuario, meta di pellegrinaggi a piedi e ora anche in bicicletta. Un luogo davvero magico.
«Già ieri – spiega Pogacar – il piano era vincere, però nell’ultima parte c’è mancato qualcosa. Oggi per noi era una tappa più adatta e la squadra è stata fantastica. Sono davvero felice di aver vinto, significa molto, come qualsiasi altra vittoria di tappa in cui prendi la maglia di leader. Durante la salita, l’atmosfera era incredibile, quindi è stato davvero un piacere percorrere gli ultimi due chilometri da solo. Il supporto dei fan è stato incredibile».
Attacco programmato
Sull’arrivo, sorridendo, Majka diceva di aver pagato un po’ i 20 chilometri di ieri a tirare su un tratto di strada a lui poco adatto, quindi che questa volta ha potuto fare meno del solito. Però era contento. Si è infilato il fischietto al collo ed è sceso verso Biella, dove a 14 chilometri dall’arrivo hanno fermato i pullman. Anche il quartier tappa è giù a valle e forse per questo attorno allo sloveno siamo stranamente in pochi.
«Non dite che ho fatto la salita senza spendere – va avanti a raccontare – posso confermare che ero abbastanza al massimo. Semplicemente ho tenuto il mio ritmo e quando Rafal ha iniziato a prepararsi per l’attacco, ero già abbastanza al limite. C’era un piano, l’ho detto, ma nel ciclismo non puoi dire che quello fosse il punto prestabilito, non è matematica. Bisogna sempre improvvisare e avere feeling. Con Majka passo molto tempo in allenamento e in corsa, ci conosciamo. Sa come fare.
«E io sapevo che dovevo attaccare con violenza per creare il gap sugli avversari e poi continuare con un ritmo normale verso la vetta. E’ stato un grande sforzo oggi. Vincere era uno dei sogni, il mio obiettivo. Ora ho anche la maglia rosa, che è il mio sogno da tanto tempo. E sono super orgoglioso e super felice. Non molti corridori hanno raggiunto questo obiettivo nella loro carriera, sono contento».
Nulla da festeggiare
Pantani quel Giro non lo finì, lo fermarono prima. E in gruppo nei giorni che portarono a quel momento, erano tutti pronti a lamentarsi per il suo dominio schiacciante. A quel tempo chi vinceva troppo era antipatico, fortunatamente i tempi cambiano. Marco quella sera qui ad Oropa era scuro in viso, stranamente nervoso, Pogacar invece sorride, pur consapevole di avere davanti 19 tappe.
«Se anche perdessi la maglia rosa per qualche giorno – dice – non ne farei un dramma. Quando vinci una classica, penso alla Strade Bianche o la Liegi, sai che dopo l’arrivo è tutto finito. Qui invece siamo ancora agli inizi. Sto ancora pensando alle prossime 19 tappe, non è finito niente e il grande obiettivo è vincere il Giro. Non possiamo andare a festeggiare adesso, liberarci e andare fuori di testa. Domani ci sarà un’altra gara, quindi è ancora tempo di fare sul serio».
Il dubbio delle crono
L’approccio è quello giusto, anche se come diceva scherzando Majka qualche giorno fa, la cosa più difficile è tenerlo a bada quando fiuta un traguardo.
«Penso che la tappa di Rapolano con gli sterrati – dice analizzando la settimana che inizia – più che un momento in cui fare la differenza, dovrebbe essere una tappa in cui non perdere tempo. Il giorno dopo ci sarà la prima cronometro e lì davvero vedremo quali sono i valori in campo. Geraint Thomas è uno specialista e sarà interessante vedere come si muoverà. Nella mia carriera non ho fatto cronometro così lunghe, di solito nei grandi Giri ne facciamo un paio, ma più corte (la crono di Perugia è lunga 40,6 chilometri, quella di Desenzano ne misura 31,2, ndr). Quindi troverò altri avversari con cui confrontarmi. Ma preferisco concentrarmi su me stesso, provando a ottenere il masssimo giorno per giorno. Quella di Perugia sarà una bella crono. Ho fatto la recon e non vedo l’ora che arrivi quel giorno. Tutto qui. Cosa dite se vado a riposarmi un po’? Per oggi ho già fatto abbastanza interviste…».