Una piscina, Pantani e il giorno che conoscemmo Borra

15.05.2025
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Iniziava il lockdown, l’Italia si stava chiudendo e Matteo Moschetti era ancora nel piccolo appartamento che un amico di Fabrizio Borra gli aveva messo a disposizione per la riabilitazione dal secondo incidente.

«Mio figlio e mia moglie lo accompagnavano avanti e indietro – raccontò Fabrizio – e anche a fare la spesa. E’ un peccato non essere riusciti a finire il lavoro perché a un certo punto è dovuto andare a casa, ma credo che anche quel poco gli abbia permesso di abbreviare la ripresa».

Eccome se glielo permise! Il Moschetti che quest’anno ha già vinto quattro corse e sta lottando al Giro è figlio di quel lavoro. Tanti corridori sono passati dal suo centro e tanti hanno continuato a farlo, trovando in lui la chiave per rieducazioni anche estreme e un amico capace di immensa empatia. Fabrizio aveva gli occhi buoni, spesso stanchi per il tanto lavoro, con lo stesso guizzo sul fondo quando trovava la via migliore. E allora diventava un vulcano. Un’intelligenza inquieta, di quelle che servono per fare la differenza.

Pantani e la piscina

La prima volta fu nel vecchio centro, quello in città, al piano terra di un palazzo con il parcheggio alle spalle. Ci aveva invitato Marco, perché eravamo curiosi di seguire il suo recupero. Lo trovammo che nuotava contro una corrente piuttosto energica, con la smorfia di quando in salita metteva in croce gli avversari.

Fabrizio Borra, così si chiamava il suo rieducatore, lo conoscemmo in quel giorno di fine 1995. Spiegò le fasi del lavoro e solo dopo che Pantani ebbe terminato la seduta, ci accolse nel suo ufficio. La nostra storia con lui iniziò quel giorno e non si è più fermata. Anche quando si parlò di offrire a Marco un ultimo appiglio, il viaggio in una sperduta comunità sudamericana, al tavolo di don Gelmini era seduto anche lui.

Trent’anni di chiamate e incontri. Certamente con un diverso grado di intimità rispetto a quello che di volta in volta riusciva a stabilire con i suoi atleti, ma sempre con presenza e voglia di aiutare. Perché questo faceva Fabrizio: aiutava e trasmetteva la sensazione che nessun risultato fosse impossibile. Era una persona buona: non puoi fare quel mestiere se non lo sei.

Da anni, Borra era l’anima gemella di Fernando Alonso. Con lui e Bettini tentò anche di costruire un team (immagine Instagram)
Da anni, Borra era l’anima gemella di Fernando Alonso. Con lui e Bettini tentò anche di costruire un team (immagine Instagram)

Un precursore assoluto

«Ci sei?». Non c’era discorso di Fabrizio Borra, soprattutto quando spiegava qualche concetto legato al suo mestiere, che con fosse frammentato da quell’intercalare. Voleva essere certo che capissimo e in certi giorni effettivamente la seconda domanda era necessaria. E anche la terza.

Si era formato alla scuola dello sport americano e aveva portato in Italia la concezione del corpo come un sistema unico e l’uso dell’acqua per la rieducazione, che inizialmente sparigliò le carte. Non ha mai smesso di studiare Fabrizio, né di rimboccarsi le maniche. Anche quando l’alluvione entrò nel suo nuovo studio e fece marcire anni di ricordi e impegno. Ripartì anche quella volta.

Per chi come noi visse la vicenda di Pantani, resterà sempre un eroe. Lo guardò. Lo guardò impegnarsi. E disse: «Può tornare quello di prima, non ho dubbi». C’era lui quando Marco entrò nella clinica del professor Terragnoli a Ome, in provincia di Brescia, e tolse i ferri dalla gamba. Era già risalito in bici senza dirlo a nessuno, anche con quel fissatore esterno. Il miracolo si era già compiuto.

«Avevamo già provato a mettere la cyclette in acqua – raccontò un giorno Borra, ridendo – ma desistemmo perché il grasso sporcava l’acqua. Allora nuotava, ma bisognava stare attenti che non entrasse acqua. Una volta trovammo la protezione piena fino all’orlo, ma al medico non dicemmo nulla…».

L’idea di Bernal

Una delle ultime situazioni di cui parlammo con lui in modo approfondito fu l’incidente di Bernal. Eravamo certi che se Egan fosse passato fra le sue mani, il recupero sarebbe stato ben più rapido e incisivo. Invece la Ineos decise di seguire la strada colombiana e di fatto sono passati tre anni prima di poter rivedere Egan vicino ai suoi livelli.

«Non è tanto il fatto di rimetterlo prima o dopo sulla bici – disse Borra nell’interessante intervistace lo puoi mettere anche dopo 30 giorni, l’accortezza è che sia dritto. Quando hai tante fratture e così tanti traumi di quel tipo, che coinvolgono anche gli organi interni, bisogna guardare l’equilibrio muscolo-funzionale. Non so come stiano lavorando in Colombia, mi auguro che non abbiano guardato solamente l’aspetto osseo o l’aspetto della medicina interna, ma che abbiano misurato e valutato gli equilibri muscolo-funzionali. Cioè che la muscolatura abbia ripreso a lavorare in modo corretto. Penso che la Ineos Grenadiers, avendo creato un nuovo modello del ciclismo, sia attenta a questo aspetto».

Fabrizio Borra se ne è andato a 64 anni. Ha collaborato con un numero immenso di atleti, il mondo dello sport lo ricorderà a lungo
Fabrizio Borra se ne è andato a 64 anni. Ha collaborato con un numero immenso di atleti, il mondo dello sport lo ricorderà a lungo

Che fortuna averti incontrato

Lo avrete già letto e sentito. Fabrizio Borra non c’è più, portato via da un tumore scoperto un anno fa. La notizia è caduta dall’alto e si è propagata attraverso il mondo del ciclismo come uno tsunami per il quale nessuno era preparato. E siccome Fabrizio non era uno che chiamasse e preferiva starsene in disparte, soltanto ora adesso tanti guardano l’ultimo messaggio senza risposta e ne capiscono il perché.

Sono decine gli atleti che gli hanno detto grazie e continueranno a farlo. Campioni, personaggi e persone comuni che hanno perso un punto di riferimento. Non conosciamo direttamente la sua famiglia, come i corridori che in questi giorni lo hanno ricordato. Ma nell’esprimere ovviamente vicinanza, perché il vero riferimento l’hanno perso soprattutto loro, ci teniamo stretta una frase pronunciata da suo figlio Daniele.

«Ci hai insegnato la lealtà, l’onestà e l’amicizia e in famiglia c’eri sempre anche quando non c’eri. Alla mamma penseremo noi e l’ameremo come tu ci hai insegnato a fare. Che fortuna averti avuto, papà».

Che fortuna, Fabrizio, averti incontrato sulla nostra strada.

«Sempre con noi». Il ricordo di Benedetta per la sua amica Sara

25.01.2025
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Non ci abitueremo mai a certe notizie. Non ci abitueremo mai a certe notizie, specialmente quando parlano di tragedie che potevano essere tranquillamente evitate. Morire in bici mentre ti stai allenando, facendo il tuo lavoro, sta diventando una routine nazionalpopolare che mette i brividi. Mentre era fuori in allenamento col fratello Christian, la diciannovenne Sara Piffer ieri è stata travolta e uccisa da un automobilista in sorpasso che arrivava in senso opposto. Basta solo questo per far capire l’assurdità di questa ennesima morte.

Ieri tutto il mondo del ciclismo e non solo – letteralmente visto che la notizia è rimbalzata in ogni sito anche estero – si è stretto attorno alla famiglia di Sara e della Mendelspeck, la sua formazione. Ogni persona che ha conosciuto Sara si è sentita devastata. Ogni persona che ama il ciclismo si è sentita tirata in causa, insicura e impaurita. Per chi come noi scrive di ciclismo o lo vive profondamente in ogni sua declinazione, sta diventando un esercizio assai complicato parlare di fatti simili. Nello specifico, la lista dei ragazzi morti investiti in allenamento si sta allungando in maniera incontrollabile.

Sara Piffer a maggio 2024 vince a Corridonia e dedica la vittoria allo juniores Lorenzi morto in allenamento (foto Ciclomarche)
Sara Piffer a maggio 2024 vince a Corridonia e dedica la vittoria allo juniores Lorenzi morto in allenamento (foto Ciclomarche)

Lo choc di Benedetta

La Mendelspeck di Renato Pirrone è sempre stata una grande famiglia fin da quando era una formazione giovanile prima di diventare un team continental. Non appena è circolata la notizia della morte di Sara Piffer, sono partiti i primi messaggi di commozione e condoglianze. Difficile trovare qualcosa da dire in più. Il giorno dopo ti concede di affrontare la situazione con una parvenza di maggiore lucidità. Benedetta Della Corte, compagna di squadra di Sara, è ancora comprensibilmente scossa.

«Non ho dormito – ci racconta con la voce calma – ho pianto tutta la notte pensando a lei che era la nostra luce. Ieri ero fuori in allenamento quando ho ricevuto la telefonata di mio padre (Antonello è un dirigente della squadra, ndr). Mi sono bloccata sul momento e non riuscivo più a pedalare. E’ stato un choc fortissimo. Mi sono dovuta far venire a prendere perché non sono stata in grado di ripartire in bici.

«Quello che è successo a Sara – prosegue Benedetta – poteva capitare a me o chiunque altro ragazzo. E non è giusto che si continui a morire in bici. Noi occupiamo lo spazio di uno scooter anche se andiamo più piano, bastano davvero pochissimi secondi per superarci. Pochi secondi tra la vita e la morte. Non ho ancora metabolizzato la sua scomparsa perché proprio pochi giorni fa ci eravamo date appuntamento per oggi e domani per fare distanza assieme. E’ incredibile».

Benedetta Della Corte e Sara Piffer (a sinistra) sono diventate grandissime amiche fin dal primo giorno assieme alla Mendespeck
Benedetta Della Corte e Sara Piffer (a sinistra) sono diventate grandissime amiche fin dal primo giorno assieme alla Mendespeck

Correre per Sara

Il sentimento di papà Antonello è quello di ogni padre che ha un figlio o figlia che corre in bici. Sapendo Benedetta fuori in allenamento per 3-4 ore, lui si tranquillizza solo quando gli arriva un messaggio sul cellulare dal suo computerino della sessione finita. Vivere con questa tensione non è giusto, però la spinta arriva proprio da lei.

«Oggi avevo in programma quella famosa distanza con Sara – riprende Benedetta – e non so se la farò. Per fortuna oggi uscirà con me una ragazza di un’altra squadra che però deve fare solo due ore e mezza. Probabilmente farò anch’io così perché al momento ho paura a restare da sola in strada. Tuttavia voglio pedalare nel ricordo di Sara, perché lei avrebbe voluto così. E perché lei aveva fatto così lo scorso maggio quando era morto investito in allenamento Matteo Lorenzi, lo juniores del Montecorona che aveva corso con suo fratello. Pochissimi giorni dopo avevamo corso a Corridonia e lei voleva vincere per dedicargli la vittoria. Ed è stato così, aveva vinto lei. Il primo successo della Mendelspeck. Che gioia quel giorno».

Sara Piffer era nata il 7 ottobre 2005. Da juniores aveva corso il mondiale di Glasgow e altre gare con la nazionale
Sara Piffer era nata il 7 ottobre 2005. Da juniores aveva corso il mondiale di Glasgow e altre gare con la nazionale

Tra paura e futuro

«Sara ed io – chiude Benedetta trattenendo a stento le lacrime – avevamo legato subito fin dal primo giorno di ritiro un anno fa. Eravamo entrambe celiache ed è stato un ulteriore motivo del nostro forte rapporto di amicizia. Ci aiutavamo portando il nostro cibo alle gare. Sara era sempre sorridente e con una grande passione per il ciclismo. Mi spronava sempre. Era forte, motivata, attenta ai dettagli e ho sempre pensato che sarebbe andata in squadre di categoria superiore nel giro di qualche anno.

«In passato ho continuato a pedalare nel ricordo di un amico morto in bici che non faceva questo sport. Da ieri lo farò pensando anche a Sara, sperando di onorarla con buone gare. Adesso noi ragazze della Mendelspeck dobbiamo diventare il riferimento l’una dell’altra, sapendo che Sara è sempre con noi».

Non ci abitueremo mai a queste notizie e a dover sentire parole del genere. Qualcosa deve cambiare in fretta e radicalmente. La morte di Sara e di tanti altri come lei non può e non deve restare vana.