Iniziava il lockdown, l’Italia si stava chiudendo e Matteo Moschetti era ancora nel piccolo appartamento che un amico di Fabrizio Borra gli aveva messo a disposizione per la riabilitazione dal secondo incidente.
«Mio figlio e mia moglie lo accompagnavano avanti e indietro – raccontò Fabrizio – e anche a fare la spesa. E’ un peccato non essere riusciti a finire il lavoro perché a un certo punto è dovuto andare a casa, ma credo che anche quel poco gli abbia permesso di abbreviare la ripresa».
Eccome se glielo permise! Il Moschetti che quest’anno ha già vinto quattro corse e sta lottando al Giro è figlio di quel lavoro. Tanti corridori sono passati dal suo centro e tanti hanno continuato a farlo, trovando in lui la chiave per rieducazioni anche estreme e un amico capace di immensa empatia. Fabrizio aveva gli occhi buoni, spesso stanchi per il tanto lavoro, con lo stesso guizzo sul fondo quando trovava la via migliore. E allora diventava un vulcano. Un’intelligenza inquieta, di quelle che servono per fare la differenza.
Pantani e la piscina
La prima volta fu nel vecchio centro, quello in città, al piano terra di un palazzo con il parcheggio alle spalle. Ci aveva invitato Marco, perché eravamo curiosi di seguire il suo recupero. Lo trovammo che nuotava contro una corrente piuttosto energica, con la smorfia di quando in salita metteva in croce gli avversari.
Fabrizio Borra, così si chiamava il suo rieducatore, lo conoscemmo in quel giorno di fine 1995. Spiegò le fasi del lavoro e solo dopo che Pantani ebbe terminato la seduta, ci accolse nel suo ufficio. La nostra storia con lui iniziò quel giorno e non si è più fermata. Anche quando si parlò di offrire a Marco un ultimo appiglio, il viaggio in una sperduta comunità sudamericana, al tavolo di don Gelmini era seduto anche lui.
Trent’anni di chiamate e incontri. Certamente con un diverso grado di intimità rispetto a quello che di volta in volta riusciva a stabilire con i suoi atleti, ma sempre con presenza e voglia di aiutare. Perché questo faceva Fabrizio: aiutava e trasmetteva la sensazione che nessun risultato fosse impossibile. Era una persona buona: non puoi fare quel mestiere se non lo sei.
Un precursore assoluto
«Ci sei?». Non c’era discorso di Fabrizio Borra, soprattutto quando spiegava qualche concetto legato al suo mestiere, che con fosse frammentato da quell’intercalare. Voleva essere certo che capissimo e in certi giorni effettivamente la seconda domanda era necessaria. E anche la terza.
Si era formato alla scuola dello sport americano e aveva portato in Italia la concezione del corpo come un sistema unico e l’uso dell’acqua per la rieducazione, che inizialmente sparigliò le carte. Non ha mai smesso di studiare Fabrizio, né di rimboccarsi le maniche. Anche quando l’alluvione entrò nel suo nuovo studio e fece marcire anni di ricordi e impegno. Ripartì anche quella volta.
Per chi come noi visse la vicenda di Pantani, resterà sempre un eroe. Lo guardò. Lo guardò impegnarsi. E disse: «Può tornare quello di prima, non ho dubbi». C’era lui quando Marco entrò nella clinica del professor Terragnoli a Ome, in provincia di Brescia, e tolse i ferri dalla gamba. Era già risalito in bici senza dirlo a nessuno, anche con quel fissatore esterno. Il miracolo si era già compiuto.
«Avevamo già provato a mettere la cyclette in acqua – raccontò un giorno Borra, ridendo – ma desistemmo perché il grasso sporcava l’acqua. Allora nuotava, ma bisognava stare attenti che non entrasse acqua. Una volta trovammo la protezione piena fino all’orlo, ma al medico non dicemmo nulla…».
L’idea di Bernal
Una delle ultime situazioni di cui parlammo con lui in modo approfondito fu l’incidente di Bernal. Eravamo certi che se Egan fosse passato fra le sue mani, il recupero sarebbe stato ben più rapido e incisivo. Invece la Ineos decise di seguire la strada colombiana e di fatto sono passati tre anni prima di poter rivedere Egan vicino ai suoi livelli.
«Non è tanto il fatto di rimetterlo prima o dopo sulla bici – disse Borra nell’interessante intervista – ce lo puoi mettere anche dopo 30 giorni, l’accortezza è che sia dritto. Quando hai tante fratture e così tanti traumi di quel tipo, che coinvolgono anche gli organi interni, bisogna guardare l’equilibrio muscolo-funzionale. Non so come stiano lavorando in Colombia, mi auguro che non abbiano guardato solamente l’aspetto osseo o l’aspetto della medicina interna, ma che abbiano misurato e valutato gli equilibri muscolo-funzionali. Cioè che la muscolatura abbia ripreso a lavorare in modo corretto. Penso che la Ineos Grenadiers, avendo creato un nuovo modello del ciclismo, sia attenta a questo aspetto».
Che fortuna averti incontrato
Lo avrete già letto e sentito. Fabrizio Borra non c’è più, portato via da un tumore scoperto un anno fa. La notizia è caduta dall’alto e si è propagata attraverso il mondo del ciclismo come uno tsunami per il quale nessuno era preparato. E siccome Fabrizio non era uno che chiamasse e preferiva starsene in disparte, soltanto ora adesso tanti guardano l’ultimo messaggio senza risposta e ne capiscono il perché.
Sono decine gli atleti che gli hanno detto grazie e continueranno a farlo. Campioni, personaggi e persone comuni che hanno perso un punto di riferimento. Non conosciamo direttamente la sua famiglia, come i corridori che in questi giorni lo hanno ricordato. Ma nell’esprimere ovviamente vicinanza, perché il vero riferimento l’hanno perso soprattutto loro, ci teniamo stretta una frase pronunciata da suo figlio Daniele.
«Ci hai insegnato la lealtà, l’onestà e l’amicizia e in famiglia c’eri sempre anche quando non c’eri. Alla mamma penseremo noi e l’ameremo come tu ci hai insegnato a fare. Che fortuna averti avuto, papà».
Che fortuna, Fabrizio, averti incontrato sulla nostra strada.