Un paio di mesi fa Fabio Triboli, campione paralimpico a Pechino 2008, era al telefono con Fabrizio Di Somma: «Ci vediamo la Sanremo insieme?», gli aveva detto sapendo della malattia che lo stava consumando. «Caro Fabio, spero di esserci ancora…», era stata la sofferta risposta del laziale, che lo aveva gelato. Purtroppo non ce l’ha fatta, cedendo il passo nella sua corsa più importante, a soli 54 anni.
Fabrizio Di Somma non era un personaggio comune nel mondo del ciclismo paralimpico. Anzi, ne è stato una colonna: prima come atleta conquistando anche un argento e due bronzi olimpici a Sydney 2000, poi come direttore tecnico, condividendo una buona parte della sua storia con Mario Valentini, che l’aveva portato in quel mondo così particolare.
La sua forza? L’astuzia
Fabrizio era un atleta normodotato, parola distintiva che giustamente non aveva in grande simpatia, che come altri si era messo a disposizione della causa. Oggi lo fanno tante stelle del ciclismo su strada e su pista, allora non era così comune. Ma in quell’ambiente Di Somma, che in passato era stato un buon stradista arrivando fino ai dilettanti nelle file della Forestale, aveva trovato il modo per dare respiro alla sua passione: la bici.
Per Valentini, Fabrizio era prima di tutto un amico, anche se di un’altra generazione: «Ricordo quando arrivò nel gruppo. Lo conoscevo come buon corridore, tra i ragazzi c’era bisogno di inserire ciclisti in grado di guidare il tandem. Gli proposi l’idea e a lui piacque subito. C’era pochissimo tempo, eppure iniziò con entusiasmo con l’obiettivo di andare ai mondiali in Australia. Fu protagonista, aveva imparato subito. Fabrizio non era un ciclista che si distingueva particolarmente per mezzi fisici o talento, ma aveva una furbizia unica, sapeva sempre come muoversi.
Gli anni d’oro del ciclismo paralimpico
«Con Fabrizio abbiamo vissuto stagioni difficili – ricorda Valentini – ma proprio per questo entusiasmanti. Sono stati gli anni nei quali abbiamo iniziato a fare bottino nei grandi eventi fino a diventare un esempio per tutto il mondo. Eppure non avevamo nulla quando arrivammo, eppure tutti, lui compreso, contribuirono a dare qualcosa in più, a supplire con l’impegno alle carenze. Venne poi l’epoca di Macchi, dello stesso Triboli, Farroni e così via.
«Lo conoscevo da quando aveva 9 anni. Venne con un gruppo di ragazzini di Latina, io già lavoravo al velodromo e me lo vidi davanti, con una sagacia enorme. Correva con grande intelligenza e questa l’ha messa a disposizione anche quando da atleta è passato tecnico. Nessuno aveva la sua preparazione, di ogni cosa voleva sapere tutto. Quando eravamo in trasferta, gli chiedevo: “«”Che cosa sai di quel corridore o di quella squadra?“. “Capo, dammi 10 minuti e ti dico tutto“, era sempre la sua risposta. Parlava correntemente tre lingue e non ne aveva studiata una…».
Una chiusura di carriera sofferta
Di Somma è stato alla Forestale fino al 2017 per poi passare ai Vigili del Fuoco: «Ricordo che mi raccontava quanto gli dispiacesse e non trovasse giusto il fatto di prendere uno stipendio più alto rispetto ai suoi pari grado, perché veniva da un’altra realtà militare. Perché Fabrizio era così: un animo buono, che non litigava mai con nessuno. L’addio alla nazionale dopo Tokyo 2020 gli aveva fatto male, ci aveva sofferto tanto soprattutto nel vedere quanta acredine ci fosse stata».
ll carattere del laziale è riassunto fortemente dall’episodio che segnò la sua uscita di scena dall’agonismo, un terribile incidente stradale nel 2010 nel quale riportò più di 30 fratture: «Aveva una gamba davvero distrutta, eppure non faceva altro che dire che voleva tornare in bici, già quand’era in ospedale. La rieducazione è stata lunga e difficile, ma lui non faceva altro che ripetere “datemi una bici e mi rimetto in sesto” e così è stato, ha fatto qualcosa di grandioso. Poi il destino l’ha messo di fronte a un’altra battaglia, un tumore al pancreas e al fegato, ma era troppo grande per lui. Me lo disse in una telefonata: “Capo, devo darti una brutta notizia…”. Mi è crollato il mondo addosso».
La gara più bella? Quando perse…
C’è una gara che più delle altre è rimasta impressa nella mente del suo tecnico? «Paradossalmente è una di quelle che non vinse. Paralimpiadi di Atene 2004: Fabrizio sapeva che non aveva i mezzi per vincere, c’erano coppie molto più forti e blasonate. Ma lui prima della partenza mi dice: “basta solo che facciano uno sbaglio e li faccio secchi tutti”. E quasi ci riusciva: sul rettilineo d’arrivo aveva trovato uno spazio di meno di un metro eppure ci si era buttato dentro con tutto il coraggio di questo mondo. Ma il tandem è lungo e un avversario li chiuse la porta facendogli perdere il ritmo. Finirono quarti, ma avrebbero potuto vincere.
«Lui diceva sempre che aveva due grandi amori ed era stato fortunato per questo: la famiglia e la bici. Per questo non faceva altro che ringraziare e diceva che non gli piacevano quelli che si lamentano sempre del lavoro, perché fai tante ore, guadagni meno di quell’altro e così via. Quando hai qualcosa bisogna sempre ringraziare e diceva che questo valore si è un po’ perso. Io che ho quasi trent’anni più di lui devo riconoscere che aveva una saggezza fuori del comune».
Guardare l’insieme
Dopo la sua scomparsa, sui social al fianco dei tanti messaggi di cordoglio sono comparsi anche riferimenti poco simpatici alle polemiche seguenti il travagliato cambio tecnico post Tokyo 2020. Il che porta a una considerazione: se da una parte è vero che quando una persona scompare tutti ne tessono le lodi, magari anche con un pizzico di ipocrisia, dall’altro è anche vero che, alla fine, molti dimenticano di andare oltre i singoli episodi e guardare il complesso, il valore di una persona nel corso di tutta la sua vita. E forse è proprio quel valore acquisito, la più grande vittoria di Fabrizio Di Somma.