L’appuntamento con Bertazzo è dopo il lavoro. Una volta girato l’interruttore, la vita del padovano ha cambiato decisamente strada e adesso si svolge nell’azienda di famiglia. La Veneto Classic è stata l’ultima corsa di un atleta che negli ultimi tempi ha dovuto penare per un infortunio alla schiena mai risolto del tutto e che comunque ha conquistato il mondiale dell’inseguimento a squadre nella fantastica nazionale di Marco Villa.
«Sono qui in ditta dei miei genitori – spiega – hanno un’azienda di pressostati per pompe per l’acqua. Adesso sono nel reparto produzione, nell’area dei torni. Seguo la catena di montaggio. Ho sempre fatto il ciclista, non ho una base tecnica, quindi è giusto che parta da zero. L’obiettivo di mio padre è quello di farmi capire prima di tutto il prodotto e poi le varie fasi della lavorazione. Quando avevo vent’anni, a volte venivo qua a lavorare perché mio padre non vedeva di buon occhio che andassi in vacanza. Invece quando a primavera ho deciso si smettere, ho cominciato subito a lavorare. Facevo un part time: la mattina mi allenavo e di pomeriggio venivo in azienda».
Come è maturata questa decisione? Hai appena 31 anni…
Diciamo che gli ultimi risultati non sono stati quelli che avrei voluto. In più, i giovani all’interno della nazionale spingevano forte, la schiena mi faceva diventare matto e i miei avevano bisogno di una mano. Un po’ di situazioni che, messe tutte assieme, mi hanno dato la spinta definitiva. E’ stato bello, ma a un certo punto bisogna essere obiettivi. Così mi sono detto che fosse tempo di cominciare a lavorare. Se non fosse stato quest’anno, sarebbe stato il prossimo: non cambiava molto.
Hai lasciato proprio alla vigilia dell’anno olimpico: credi che non avresti trovato il tuo spazio?
Non sarebbe stato facile. E poi il problema della schiena, che da fuori potrebbe sembrare di poco conto, in realtà mi ha cambiato parecchio (Bertazzo ha subito un intervento di microdiscectomia, dopo la caduta al Tour Colombia del 2019, ndr). Se non avessi avuto quel problema, forse ora sarebbe tutto diverso, ma non rimpiango niente.
La decisione l’hai presa a marzo, ma alla Veneto Classic l’emozione sembrava forte.
Quella domenica è stata una giornata molto dura per me. Un conto è deciderlo a marzo, ma non è stato facile vedere tutti i messaggi d’affetto, le persone che venivano a salutarmi. Ho cominciato a correre in bici a 12 anni e adesso ne ho 31, si è chiusa una grande parte della mia vita. In più la mia caratteristica è sempre stata quella di condividere ogni momento con le persone che avevo intorno e rendersi conto che certi momenti non torneranno più non è stato indolore.
Sei stato uno dei pionieri della pista azzurra, quando quasi non se ne sapeva più nulla…
Quello che ho vissuto con la nazionale è stato un percorso lungo e unico. Quando ho cominciato nel 2012, nessuno sapeva che esistesse la pista, la gente non sapeva neanche quanto fosse lunga. C’era Elia (Viviani, ndr) che ci faceva da timone e Marco Villa che ci ha creduto. Se siamo andati alle Olimpiadi di Rio è stato solo merito suo. Ci mandava sempre a fare le Coppe del mondo, anche se eravamo gli ultimi. Però così intanto arrivammo al nono posto del ranking e quando fu tolta la Russia, si aprì la porta per noi. E da quel punto di partenza, l’Italia è diventata la punta di diamante. Tutte le nazioni ci guardano, mentre prima il riferimento era l’Australia e questo mi fa sorridere. Provo già nostalgia, ma so di aver fatto la mia parte.
Com’è passare dalla sella di una bici al tornio?
Da un certo punto di vista è un altro mondo. Però il ciclismo, soprattutto nella gare a tappe, ti insegna che se sei senza gambe, devi arrivare in cima alla salita. E questo nella vita lavorativa ti dà una marcia in più. Quando sei stanco, riesci a gestirti a livello fisico e anche mentale. D’altra parte il mondo del lavoro è diverso, perché c’è lo stress fisico, ma anche quello mentale. Io sono ancora all’inizio, ma lo sport mi sta aiutando anche qui. Dico sempre che il ciclismo è una scuola di vita, perché ti insegna la fatica e ti insegna che in un modo o nell’altro, devi arrivare in cima alla salita.
Continuerai a usare la bici?
Pensavo che le mie ultime gare fossero state quelle di settembre in Bulgaria, quindi nell’ultimo mese e mezzo sarò uscito 5-6 volte. Finché non mi inserisco bene in azienda, preferisco dedicarmi al lavoro. Però la bici voglio tenerla. Mi piace usarla per vedere i posti in maniera più tranquilla. Prima vedevo le montagne con odio, adesso mi piace andarci per rilassarmi e godermi il paesaggio.
Il mondiale in pista di Roubaix è stato il momento più bello della carriera?
Bella domanda. Ci ho pensato parecchio, ma fortunatamente ho tanti bei ricordi. Ovvio, il mondiale è stato l’apice, però ne ho tanti legati anche solo alle semplici trasferte. Come dicevo, il mio obiettivo è sempre stato quello di condividere ogni piccolo momento. I primi tempi erano un’avventura, sempre in cerca di un risultato e ci divertivamo. Quindi se dovessi individuare il ricordo più bello, farei fatica. Dopo aver fatto le Olimpiadi di Rio, poi quelle di Tokyo e aver corso il Giro d’Italia, ho cercato di vivere ogni giornata davvero a fondo. Soprattutto in questo ciclismo così frenetico, bisognerebbe far capire che certe giornate non torneranno mai più, quindi bisogna vivere ogni momento, ogni persona e ogni situazione al meglio possibile.
Abbiamo letto sui social messaggi di auguri molto toccanti.
Anche qui, non ce n’è uno in particolare, però quelli della nazionale sono stati bellissimi. Quello di Marco Villa, che comunque ha sempre creduto in me e mi ha aiutato a passare professionista. Marco è sempre stato un punto cardine della mia carriera. Quando siamo partiti, anche Ganna all’inizio faceva fatica a entrare nel quartetto e adesso è diventato… Ganna. I loro messaggi mi hanno fatto capire che, al di là dell’ambito sportivo, mi sono stati vicino e possiamo sempre trovarci e stare insieme. Stessa cosa con Frassi, che mi ha aiutato tanto alla Corratec, perché dopo l’infortunio non stavo benissimo, mentre lui ha visto il mio potenziale e mi ha aiutato a ritornare.
Ti vedresti ancora a fare qualcosa nel ciclismo?
L’anno prossimo mi piacerebbe salire qualche volta in ammiraglia con Frassi o magari seguire i ragazzi del Maloja Pushbikers (la sua ultima squadra, ndr) che in questi due anni è cresciuta tanto. Se poi davvero faranno il velodromo a Spresiano, allora sarò anche più vicino. Ma ogni cosa ha il suo tempo e di certo qui il lavoro non mi manca.