La storia di Kimberley Le Court, bandiera del suo popolo

04.05.2025
5 min
Salva

E’ davanti a te, Kimberley, è lì. Il traguardo è lì. Ma quel rettilineo sembra non finire mai. Le altre sono lì, Puck (la Pieterse, ndr) sembra sempre sul punto di raggiungerti. Tu non ti volti, guardi avanti. Non possono prenderti. E’ troppo importante, quel traguardo. Non lo guardi solo tu, lo guarda un popolo, chi abita con te, quello di Mauritius, una minuscola isola in mezzo all’Oceano Pacifico, dall’altra parte del mondo, è come se fosse lì con te. La prima volta di una ciclista africana a vincere una Monumento, a Liegi, a scrivere la storia. Manca poco, Kimberley…

La commozione dopo il traguardo. Per Kim Le Court Pienaar è il più grande successo, ma anche per le Mauritius da cui arriva
La commozione dopo il traguardo. Per Kim Le Court Pienaar è il più grande successo, ma anche per le Mauritius da cui arriva

Il sacrificio della solitudine

Perché quel peso, quella responsabilità, l’hai sempre sentita. «Venire da così lontano – raccontavi lo scorso anno quando i primi giornalisti ti hanno avvicinato – da un Paese con pochissime opportunità, uno di quelli che “fanno colore” nella cerimonia inaugurale delle Olimpiadi e che tanti sentono citare ogni 4 anni, è qualcosa che le mie colleghe non hanno. Ti dà uno stato d’animo diverso. Diciamo che la vittoria io la voglio di più delle altre, perché so che cosa significa. Finisce una corsa e ci si saluta, si va a casa, magari una o due ore di volo e sei fra le braccia dei tuoi cari. Io no, io ho tutta la famiglia dall’altra parte del mondo. La sera mi ritrovo sola, con i miei pensieri, con quello schermo del PC o del cellulare per parlare con mio marito e la mia famiglia. No, non è lo stesso…».

Il marito. Nella sua storia, il marito ha un peso grande e un pezzo di quella vittoria è anche suo. Torniamo indietro nel tempo, a un paio di stagioni fa. Kimberley era un’apprezzata biker. Capace di conquistare il titolo continentale (cosa non facile, considerando il talento diffuso delle sudafricane), di sfiorare la medaglia ai Commonwealth Games, addirittura di vincere la Swiss Bike, una delle più prestigiose corse a tappe sulle ruote grasse. Ci sapeva fare, ma quello non è il ciclismo su strada. Non ha la stessa risonanza. La stessa popolarità. Gli stessi contratti.

Fino al 2023 la Le Court si dedicava più alla mtb, con buoni risultati tra cui il titolo africano (foto Facebook)
Fino al 2023 la Le Court si dedicava più alla mtb, con buoni risultati tra cui il titolo africano (foto Facebook)

L’importanza del marito

«Io sono una che non crede molto nelle sue capacità. Mi vedete ridere, parlare con le compagne, ma sono molto timida e insicura. Gran parte del merito dei miei risultati è di chi mi sta intorno, di chi mi sprona, mi motiva, mi convince che posso fare qualcosa di speciale».

E’ inverno, nelle Mauritius. Il marito Ian, un biker anche lui, le dà la spinta: «E’ arrivato il momento di provarci, Kim».

«Non mi conosce nessuno, nel mondo della strada, perché dovrebbero scegliermi? Non sono neanche così giovanissima… Perché non puoi saperlo con certezza. Non sei la prima arrivata. Mettiamoci all’opera».

Una foto risalente addirittura al 2015, al suo successo a Oostkamp. Ma la strada non era stata la sua scelta (Facebook)
Una foto risalente addirittura al 2015, al suo successo a Oostkamp. Ma la strada non era stata la sua scelta (Facebook)

Una mail… lanciata nell’Oceano

Kim e Ian si mettono con pazienza davanti al computer. Preparano una lettera, il curriculum di Kim, i suoi dati di allenamento. Raccolgono tutti gli indirizzi mail delle squadre WorldTour e inviano il messaggio a tutti, quasi come una bottiglia lanciata in mare con un foglio dentro (e il paragone, considerando la provenienza della Le Court, non è neanche tanto peregrino).

Tanti avvisi di lettura, qualche “grazie, le faremo sapere” e una risposta affermativa. D’altronde, ne bastava una. E’ della Soudal Ag Insurance che le dà un appuntamento. Chissà, non è dato sapere chi sia stato a leggere quella mail, a intuire che poteva essere un buon investimento. Quella scommessa è stata ripagata, ampiamente.

La ciclista africana sullo Jebel Hafeet, dietro la Malcotti. Il primo squillo di una grande stagione
La ciclista africana sullo Jebel Hafeet, dietro la Malcotti. Il priimo squillo di una grande stagione

I prodromi di un grande successo

Pedala, Kimberley, il traguardo è lì, sempre più vicino e mentre vai avanti pensi a come ci sei arrivata, fino a quel punto. A chi ha imparato a riconoscerti, grazie a quella maglia di campionessa nazionale, tanto ma tanto simile a quella di campionessa del mondo. Sai, Kimberley, in quanti commentatori televisivi si sono sbagliati? Quante volte ti hanno confuso con la Kopecky, ad esempio lungo le rampe dello Jebel Hafeet all’ultimo Uae Tour, quando in mezzo a quel nugolo di italiane con Longo Borghini, Persico, Trinca Colonel, Malcotti c’eri anche tu, incrollabile, che non crollavi, che rientravi?

Molti hanno cominciato a conoscerti allora e poi hanno capito che non era un caso. Top 5 al Trofeo Binda, alla Sanremo, al Fiandre, alla Freccia Vallone. Quante ci avrebbero costruito una carriera su quei piazzamenti? Ma a te non bastava, sapevi che potevi avere di più. Perché dietro di te c’era un popolo. Anche lì, alla Liegi, quando ti avevano staccato e sembrava che la gara fosse persa non hai mollato e sulla Cote de la Roche aux Fauçons hai risalito la china rientrando sulle prime.

La maglia di campionessa nazionale, tanto simile (ma non uguale) a quella iridata
La maglia di campionessa nazionale, tanto simile (ma non uguale) a quella iridata

Quella bandiera in mezzo alla gente

Poi le hai guardate: «Risalivo il gruppo e vedevo che soffrivano. Anch’io soffrivo, ma sentivo anche che non dovevo mollare. Era troppo importante per me, e non solo per me». E ora sei lì, davanti, a spingere a tutta. Hai aspettato il momento giusto per lanciare la volata, hai indovinato la strategia per metterti alle spalle cicliste più abituate a vincere. Puck è lì, risale. Guardi ai bordi della strada e in mezzo a tante bandiere che sventolano, ne riconosci una. Quella nazionale delle Isole Mauritius. Di qualcuno che ci ha creduto, come te. Che per un giorno si sentirà a casa, ebbro di gioia. Grazie a te. No, Puck non ti riprenderà, Kimberley. Lei non ha un popolo a sospingerla…

Il sogno di Le Court. L’incubo di Elisa, messa ko dal caldo

28.04.2025
6 min
Salva

LIEGI (Belgio) – Non senza un pizzico di sorpresa, tra le donne è stata la Liegi di Kimberley Le Court Pienaar. Atleta importante, anche perché una Doyenne altrimenti non la vinci, ma certo non era sul taccuino delle favorite. Più di qualche ragazza arrivata staccata chiedeva: «Chi ha vinto?» e una volta conosciuta la risposta scattava una smorfia di incredulità.

La gara femminile si è accesa nel finale. La Redoute è stata meno decisiva di quel che si potesse immaginare. Almeno vista da fuori, perché nelle gambe delle atlete ha fatto sfracelli. Poi si èdeciso tutto in uno sprint a quattro.

Stremata e affranta, Longo Borghini all’arrivo ha chiesto le fosse gettata dell’acqua su collo e spalle
Stremata e affranta, Longo Borghini all’arrivo ha chiesto le fosse gettata dell’acqua su collo e spalle

Liegi stregata

E’ proprio da qui che partiamo il nostro racconto, o meglio quello di Elisa Longo Borghini. La capitana del UAE Team ADQ ha ceduto, un po’ come Remco se vogliamo. Per noi è stata una sorpresa, per le sue compagne no. Intendiamo sul momento, quando dal maxischermo sull’arrivo di Liegi l’abbiamo vista perdere terreno.

Erika Magnaldi infatti ci ha detto che Elisa aveva anticipato di non sentirsi bene e per questo le aveva lasciato carta bianca. «Solo che io – spiega Erika – dovevo svolgere un altro ruolo e nella fase centrale della corsa ho sprecato un bel po’ di energie, che poi non ritornano».

Si attende Elisa, passano i minuti, quasi 8. Poi eccola spuntare, stremata. China il capo sulla bici. Parla sottovoce. Si abbraccia con Erika Magnaldi, che è lì ad aspettarla.

Si avvicina la massaggiatrice e le porge qualcosa di liquido da mandare giù. Elisa invece chiede che le si versi dell’acqua sulla schiena. «E’ stato semplicemente un bruttissimo giorno… per avere un bruttissimo giorno», sospira. La lasciamo respirare un po’.

Mauritius, che colpo!

Intanto poche centinaia di metri dietro va in scena il podio. Per le Mauritius di Le Court è una giornata storica e lei lo rimarca con orgoglio.

«Non ci credo – dice commossa l’atleta della AG Insurance-Soudal – è un grande momento per il mio Paese (le Mauritius, ndr). Ad un certo punto sono stata staccata, ma sono riuscita a recuperare, anche grazie alle mie compagne e a Julie Van de Velde, formidabile. Questo dimostra che in gara non bisogna mai arrendersi.

«Sulla Roche-aux-Faucons ho ritrovato improvvisamente le gambe e il ritmo, che sono riuscita a mantenere fino in cima. Sono riuscita a superare Demi Vollering e Puck Pieterse. Ho iniziato a pensare a qualcosa di grande quando ho visto le altre fare fatica sulla Roche-aux-Faucons. Il caldo? No, era una giornata piacevole, ma so che in tante lo hanno sentito».

Longo Borghini in difficoltà sulla Redoute, ma non stava bene già da qualche chilometro
Longo Borghini in difficoltà sulla Redoute, ma non stava bene già da qualche chilometro

«Sembravano 40 gradi»

E’ proprio da qui che ci riallacciamo a Elisa Longo Borghini: quella bottiglietta d’acqua sulla schiena non era affatto casuale. Le facciamo notare del caldo.

«Non lo so – spiega – non mi sono sentita bene. Da metà corsa in poi ho iniziato ad avere caldo, a non sentirmi per niente bene. Le temperature non erano altissime, però io ho sofferto come se ci fossero 40 gradi. Non me lo spiego, semplicemente questo».

In effetti la campionessa italiana veniva da ottime gare, quindi è stata una giornata che non ci si aspettava. Magnaldi aveva detto che probabilmente Elisa aveva patito il caldo. Ma più che il caldo, ipotizziamo, lo sbalzo termico. Negli ultimi due giorni la temperatura è salita di parecchio, passando dagli 11-12 gradi piovosi della Freccia ai 20-21 assolati della Liegi.

«Stavo benissimo fino al giorno prima – riprende Longo Borghini – e non me lo spiego, ripeto. Purtroppo le giornate no nel ciclismo esistono e a volte succedono anche nei giorni in cui vorresti che tutto andasse bene. Da metà corsa in poi, quando non mi sono sentita bene, non aveva senso far lavorare le mie compagne per me. Quindi le ho lasciate andare».

In questa giornata poco brillante per la UAE Adq c’è a aggiungere la frattura del gomito per Silvia Persico, richiamata per la Liegi e caduta nelle prime ore di gara.

Brava Trinca

Ma per una giornata storta, come si dice, ce n’è un’altra che è andata dritta. O quantomeno bene, fatte le dovute proporzioni. E questa nota positiva porta il nome di Monica Trinca Colonel.
Alla presentazione delle squadre, Anna Trevisi, una delle migliori gregarie in assoluto del gruppo, ce lo aveva detto: «Corriamo per Trinca. Sta bene. E’ forte». Ed eccola finire ottava. Prima delle italiane.

«In realtà – racconta l’atleta della Liv AlUla Jayco – sono sorpresa per il risultato perché mi sono sentita bene per almeno due orette. Ultimamente soffro sempre nelle parti iniziali di gara, poi però sul finale ci sono sempre, quindi comunque sono soddisfatta.

«E’ stata una corsa strana per me: mi sono staccata praticamente su tutte le salite, ma poi rientravo bene ed eravamo sempre meno. E’ stata una lotta continua. Questo denota più che altro che sono un diesel, quindi ci impiego un po’ di tempo per ingranare. La cosa bella di questa stagione? Che sto crescendo tanto e senza accorgermene. La squadra poi non mi mette pressione. Qui sto bene e sono più che contenta. Anna ha detto che potevo stare con le grandi? Vabbé, sono parole grosse le sue! Però sì, in futuro spero di essere tra le top».