La vittoria di Girmay alla Gand-Wevelgem non poteva essere fine a se stessa e anzi sta scatenando uno tsunami che investe tutto il continente africano. Se il Ruanda sta diventando meta di ritiri prestagionali e si lavora alacremente per i mondiali del 2025, c’è una notizia che sui media non ha avuto finora il risalto che meritava: la Ineos Grenadiers sta per lanciare la sua prima accademia ciclistica in Kenya.
Il camp permanente sarà gestito da Valentijn Trouw, uno dei tecnici della multinazionale britannica che ha già forti legami con il Paese africano, essendo tra l’altro sponsor del primatista mondiale e campione olimpico di maratona Eliud Kipchoge, direttamente coinvolto nel progetto. Il legame con l’atletica è fortissimo, perché è proprio nell’atletica che i training camp hanno iniziato a prendere piede in Kenya, di fatto trasformando il Paese almeno dal punto di vista sportivo.
Il primo che ebbe l’idea di creare un’accademia permanente in Kenya fu Gabriele Rosa, cardiologo e medico sportivo che aveva creato a Brescia una scuola di maratona capace di portare Gianni Poli al trionfo nella prova più famosa sui 42,195 km, quella di New York. Quello che aveva saputo fare nella provincia italiana poteva essere fatto in più grande stile in Kenya, Paese per antonomasia della corsa: «I kenyani erano già allora fortissimi, ma non correvano la maratona. Moses Tanui, che era uno dei grandi del mezzofondo dell’epoca, mi chiese se potevo seguirlo. Io gli dissi di sì a condizione che convincesse altri atleti del suo Paese a seguirlo. Nacque così il primo centro permanente in Kenya, era il 1990».
In tanti poi seguirono la sua idea…
Ebbe uno sviluppo clamoroso, basti pensare che dopo trent’anni il Kenya è padrone assoluto della specialità: nell’ultimo anno l’83 per cento di tutte le maratone internazionali sono state vinte da un atleta kenyano. Io iniziai con un piccolo gruppo, ora ci sono 13 nostri training camp sparsi per il Paese con oltre 200 ragazzi coinvolti.
Come funziona il loro lavoro?
Noi non seguiamo solamente la corsa, la nostra è un’operazione a 360°. Correre forte è solo l’ultimo risultato di un cammino che comprende lo stare insieme, il condividere il lavoro, affrontare le quotidianità della vita. E’ una crescita umana, non solo sportiva quella che i ragazzi affrontano e questo sistema sono convinto possa funzionare anche nel ciclismo.
Dal punto di vista ciclistico il Kenya che Paese è?
Partiamo dal discorso prettamente sociale: la bici è sempre stata un mezzo fondamentale nella vita dei kenyani. Quando arrivammo, vedevamo che utilizzavano bici cinesi con le quali facevano davvero di tutto, caricate come somari, servivano per spostarsi e spostar pesi. Ora si usano molto anche le piccole moto, che a 500 euro sono già disponibili, ma le bici sono ancora molto utilizzate. C’è però un aspetto molto importante che è cambiato rispetto ad allora: la Cina, che ha fortissimi legami con il Kenya, sta praticamente asfaltando tutte le strade e molto bene. Questo per noi che facciamo atletica è un problema per gli allenamenti, perché c’è bisogno di correre anche offroad per crescere, ma per il ciclismo sta diventando un luogo ideale.
Il Kenya non è mai stato un Paese con una tradizione…
No, la corsa a piedi è lo sport principale, ora affiancato dalla pallavolo femminile. In tutto il continente però c’è grande fermento e bisogna tenere presente che i corridori africani in genere – kenyani, ma anche etiopi, eritrei, burundiani ecc. – hanno una congenita propensione per gli sport di endurance. I risultati dei corridori eritrei non mi sorprendono, io sono convinto che lavorandoci sopra come farà la Ineos (e presto altre squadre e soprattutto aziende seguiranno la stessa via) l’Africa diventerà fortissima anche nel ciclismo.
Quali sono i vantaggi nel costruire training camp in Kenya invece che Eritrea e Ruanda che hanno già più dimestichezza con il ciclismo?
Il territorio. Ci si può allenare a 3.000 metri di altitudine. Kaptagat, dove la Ineos costruirà la sua accademia, è anche la sede del nostro primo e principale training camp. Ci sono percorsi ideali per allenarsi, ma anche la gestione di questi centri è all’altezza, con cuochi specializzati, pulizie continue e quant’altro. Intorno poi sono sorti nel tempo piccoli alberghi molto caratteristici e confortevoli.
Nell’atletica il Kenya è diventato anche meta di tanti corridori, anche in Italia, per effettuare i loro ritiri in altura. Questo potrebbe avvenire anche nel ciclismo?
Io sono convinto di sì, ma non solo per le squadre professionistiche. Conti alla mano, potrebbe essere un ottimo sistema anche per le squadre giovanili, soprattutto under 23, per effettuare periodi di preparazione a costi molto più contenuti (chiaramente viaggio a parte) e potendo fare lavori molto più fruttuosi. Io ho già vissuto nel mondo del ciclismo, ad esempio seguendo i tentativi di record dell’Ora di Beppe Manenti e Gregor Braun negli anni Ottanta-Novanta e sto pensando a come le nostre strutture potrebbero anche essere allargate al ciclismo. I risultati d’altronde parlano per noi: la primatista mondiale di maratona è una nostra atleta…