24 febbraio. La Gran Camino prende il via quel giorno. Nell’hotel dell’EF Pro Cycling i corridori scendono per la colazione. Lachlan Morton sta parlando con Mark Padun, le solite chiacchiere di prima mattina, tra qualche battuta e buoni propositi. Arrivati nella sala, Lachlan continua distrattamente a parlare con il suo compagno, ma non ottiene risposta. Si volta, lo guarda e vede il suo volto impietrito, rivolto verso la Tv. Non serve parlare spagnolo, le immagini trasmesse non lasciano spazio a interpretazioni diverse da quelle del terrore. In Ucraina, nella patria del suo collega, è scoppiata la guerra, i carri armati russi sono entrati. Le sirene delle varie città emettono quel suono che si sperava ormai dimenticato, rimasto solo nella memoria dei più anziani.
La corsa non è più la stessa. Lachlan, che interpreta queste gare a tappe più per dare una mano ai compagni e preparare le sue avventure solitarie, non guarda mai al cronometro e spesso finisce ultimo. Questa volta ancora di più: quattro giorni dopo il suo distacco finale sarà superiore all’ora e un quarto, ma c’è una ragione. La sua mente non riesce a scacciare quelle immagini, a cui se ne aggiungono altre, ogni sera, ogni volta che si pone davanti alla Tv o meglio, ogni volta che guarda il suo smartphone, perché la sua quotidianità, la nostra è cambiata.
Pedalare per dare una mano
«Non posso stare a guardare – pensa il trentenne australiano – sento che devo fare qualcosa». Ne parla con i suoi dirigenti e col passare dei giorni, con la timeline della guerra che diventa sempre più un bollettino di stermini, di fuga della gente dalle proprie case, di esodo biblico verso l’occidente viene l’idea: raggiungere quei luoghi in bici, fare di una nuova avventura qualcosa che possa non solo essere un simbolo, ma anche qualcosa di utile, una raccolta fondi per aiutare la popolazione in fuga.
Nei giorni successivi, Lachlan si prepara come mai aveva fatto, con una dedizione, una concentrazione straordinaria. D’altronde sa che quello che sta per affrontare è anche diverso da quel che ha sempre fatto: la sua idea è partire da Monaco di Baviera e viaggiare, viaggiare, viaggiare fino a raggiungere il confine fra la Polonia e l’Ucraina, esattamente quella porta che per tanti significa salvezza, fuga dalle bombe e dalla devastazione.
19 marzo. 23 giorni dopo l’invasione. La guerra va avanti: le truppe russe nonostante le uccisioni e le distruzioni non sono riusciti a realizzare quella “guerra lampo” che era stata preventivata. L’Ucraina resiste, incassa. Zelenski, il presidente ex comico che ora ha dipinta sul volto la tragedia del suo popolo, appare in videoconferenza davanti a tutti i parlamenti, in tutte le occasioni possibili per chiedere aiuto. Sono le 5 di mattina. Lachlan attacca gli scarpini, controlla la bici e ripensa ad alcune di quelle parole: «Io non sono un politico, non sono un esperto, non so come andrà a finire. Posso solo fare quel che so fare per aiutare la gente e questo mi darà la benzina per arrivare».
Fa freddo lungo la strada. Lachlan è figlio dei nostri tempi, comunica via social e la sua idea si diffonde presto. Il passa parola funziona e man mano, in ogni città attraversata, trova sostegno, gente che lo incita, chi sale in bici e lo accompagna. Non ha tanto cibo con sé e ogni tanto qualche anima pia gli fornisce qualcosa di caldo. Trova anche chi gli offre l’opportunità di fare una doccia calda: «Stai facendo una cosa bella, ma anche difficile”. “Questo? Non è difficile. Non è niente in confronto a persone che hanno perso tutto, la cui vita è racchiusa in una piccola borsa con quel poco che hanno potuto portare via. Spero che il nostro mondo, chi condivide i valori del ciclismo possa dare una mano».
Un fondo in aiuto dei rifugiati
Pedalando, Lachlan controlla continuamente il flusso di denaro che affluisce sul fondo a sostegno della sua impresa e che andrà a favore dei rifugiati. L’obiettivo era raggiungere i 50 mila dollari, ma con i like che aumentano a dismisura, aumenta anche l’ammontare del denaro raccolto, quasi che ogni pedalata porti monete. E allora forza, di notte e di giorno, ora dopo ora, senza fermarsi.
Lachlan lascia la Germania, attraversa quasi d’un soffio la Repubblica Ceka, entra in Polonia e dopo 43 ore senza un minuto di sonno, stanco e infreddolito, arriva a Korczova-Krakovets. E’ notte fonda, alla frontiera però non si ferma il flusso di gente che entra dalla vicina Ucraina. Chi con mezzi di fortuna, chi a piedi, spingendo carrozzine, donne che hanno lasciato i loro uomini a casa a combattere. Lachlan si ferma: è difficile ricacciare indietro le lacrime, soffocare quel dolore fitto che sente nel cuore ormai da troppi giorni.
«La guerra ci riguarda tutti»
I giornalisti si avvicinano, qualcuno ha saputo della sua impresa. «La mia idea è far capire che la guerra non è un problema lontano per nessuno – afferma – I conflitti sono sempre a portata di bicicletta, in tutto il mondo. Ho parlato con tanta gente in questi due giorni, pedalando abbiamo confrontato le nostre idee. Non ci sono ragioni, idee, giustificazioni per esseri umani che vanno contro altri esseri umani e se con la mia impresa sarò riuscito a farlo capire a qualcuno, avrò già ottenuto qualcosa».
E qualcosa Lachlan Morton lo ha davvero ottenuto: il suo fondo ha superato i 200 mila dollari, ai quali la sua squadra, insieme alla Cannondale e alla Rapha hanno aggiunto altri 100 mila dollari e il fondo è ancora aperto e, a giorni di distanza, continua a funzionare e raccogliere aiuti (chi vuole contribuire può farlo qui). La guerra non si è fermata, la corsa di Lachlan ha raggiunto il suo traguardo, il primo, perché difficilmente, finché la follia continuerà ad aleggiare sulle nostre teste, l’australiano si arrenderà. Proprio come chi difende la sua casa, i suoi valori, la sua vita.