Sulle strade fiamminghe inizia a ribollire l’attesa per la Omloop Het Nieuwsblad. La classica di apertura della stagione del Nord, prevista per il 24 febbraio, è un passaggio pressoché sacro per i tifosi di lassù e per i corridori che su quelle strade costruiscono la loro carriera. L’ultima vittoria italiana è del 2021, quando a sorpresa sbucarono le braccia alzate di Davide Ballerini. Questa volta però facciamo un salto molto indietro nel tempo, ricordando quando la corsa – allora più conosciuta col nome di Het Volk – la vinse l’altro Ballero: quello… vero!
Era il 25 febbraio del 1995 e Franco Ballerini era sulla porta della storia. Nella Roubaix del 1993 era arrivato drammaticamente secondo, mentre fu terzo l’anno dopo. Quelle corse erano il suo terreno, l’Het Volk era il primo test dopo l’inverno. In quel mattino davanti al velodromo di Gand, accanto a lui c’era Dario Nicoletti. E proprio all’attuale direttore sportivo della Biesse-Carrera ci siamo rivolti per avere un ricordo di Franco e di quei giorni.
Caro Dario, cosa vogliamo dire?
Era l’inizio, la prima trasferta in Belgio. Dopo l’abbinamento spagnolo con la Clas, quell’anno nella Mapei era entrato il blocco belga e la squadra era diventata Mapei-GB. Erano arrivati Lefevere e 6-7 corridori belgi. Non era neanche facile essere selezionati per quelle gare, tanto che io poi rimasi fuori dalla Roubaix. Ma la prima parte delle classiche la feci tutta.
Com’era andare lassù con Ballerini?
C’ero già stato nel 1994, sempre con lui. Aveva una classe… Alla Roubaix arrivò terzo, ma fu sfortunato, perché ebbe 3-4 forature e per due volte gli diedi io la ruota. Alla terza però ci pensò qualcun altro, perché io dopo il secondo rientro ero così finito che alzai bandiera bianca. Pioveva forte e vinse Tchmil. Per cui nel 1995, quando andammo lassù, sapevo cosa mi aspettava. La differenza rispetto all’anno prima era la presenza in squadra di Museeuw, Peeters, Bomans e Willems, gente tostissima.
Che giornata ricordi?
Tanto freddo, pioggia, vento. Eravamo partiti con Ballerini, Museeuw e Peeters come capitani. Nonostante Franco e Johan volessero vincere, in squadra c’era una bel clima. Io mi trovavo benissimo e penso anche Ballero. Con quei belgi dovevi essere onesto e loro ti davano tutto. Posso raccontarvi un aneddoto per farvi capire che uomini fossero?
Assolutamente!
Quello stesso anno, a luglio del 1995, due giorni dopo il funerale di Fabio Casartelli, io ebbi il brutto incidente per il quale alle fine smisi di correre. Non ero al Tour, per cui quando si seppe che Fabio era morto, mi precipitai a casa sua. Abitavo a 5 chilometri e trovai Annalisa, i genitori e quel grandissimo dolore. Con “Casa” avevo un rapporto speciale. Due giorni dopo i funerali, il 22 luglio, andai a fare cinque ore con Chiurato sul Lago di Como, con la tristezza addosso e un caldo incredibile. Eravamo a Como, quando una moto mi investì. Hanno stimato che andasse a 80-90 all’ora: la Polizia misurò 27 metridal punto dell’impatto al mio atterraggio. Pensai di morire. Mi passò la vita davanti, poi si offuscò la vista e persi i sensi. Senza farla troppo lunga, rimasi all’ospedale di Como per 40 giorni e dopo circa tre settimane, entrarono in stanza Lefevere, Museeuw e Peeters. Erano in Italia per il Trittico Lombardo che si correva ad agosto e vennero a trovarmi. Alcuni compagni di squadra che abitavano a pochi chilometri da me non li vidi neppure.
Chissà che sorpresa…
Loro erano così, pane al pane e vino al vino. Bisognava essere onesti e sapere che c’erano delle gerarchie. Se facevi il tuo, non c’erano problemi.
Ballerini al Nord?
Ho un bellissimo ricordo, perché mi sceglieva quasi sempre come compagno di camera e queste sono cose che ti rimangono. Franco era un buono, uno serio, ma se c’era da fare casino, non si tirava indietro. Quando però si avvicinavano quelle gare, cambiava anche personalità. Quello era il suo mese, la sua Settimana Santa. Era molto concentrato e a stargli vicino imparavo sempre qualcosa.
Ad esempio?
Nel 1994, andando in ammiraglia alla partenza del Fiandre in cui avrebbe fatto quarto, mi fece sedere davanti. C’era un tempo infame, mi sembrava strano che il capitano fosse seduto dietro, finché a metà del viaggio mi disse: «Spegni il riscaldamento, siamo a 20 gradi e là fuori ce ne sono due, cominciamo ad abituarci, che dici?». E questo è solo un piccolo esempio di come non trascurasse nulla.
Vince l’Het Volk con 6 secondi di vantaggio su Van Hooydonck e poi vince anche la Roubaix…
Ma io quella l’ho vista in televisione. Non ricordo tantissimo, solo che era caduto alla Gand e aveva problemi a una spalla. Però immagino che abbia trovato forze anche nel gran tifo che c’era per lui. Quando poi divenne commissario tecnico della nazionale, io lavoravo già in Mapei e lui veniva spesso a salutare il dottor Squinzi, ma passava sempre anche da me in ufficio. E quando cominciò a vincere i mondiali e ne vinse quattro, gli scrivevo dei messaggi e mi rispondeva sempre. «Al Nico si deve rispondere», sorrideva.
Tornando a quegli anni, andare al Nord non era ancora così scontato: non tutte le squadre italiane erano attrezzate…
Non era come adesso, vero. C’era l’impressione di un ambiente estremo, non so come dire. Al mio primo Fiandre, eravamo nella piazza sotto un misto di pioggia ghiacciata e mi ricordo i belgi appena più coperti del solito, che ridevano e scherzavano, mentre noi eravamo tutti incappucciati. Adesso è cambiato tutto, anche il clima. Ma Franco vinse due Roubaix. In quegli anni, quando al Nord arrivavano gli italiani, anche i tifosi del Belgio si toglievano il cappello.
ROMA – In città per assistere a un musical al Teatro Brancaccio che vede sua figlia Giulia Sol come protagonista, Gabriele Sola si presta al racconto, che parte dal ciclismo e arriva alla sua nuova vita (nella quale è incluso anche il cambio del cognome). Un passo per volta, tuttavia. Quando non c’erano gli addetti stampa, se con il corridore avevi sufficiente confidenza, l’intervista si faceva in camera oppure ai massaggi. Altrimenti, se il compagno di stanza stava riposando, ci si dava appuntamento nella hall. I cellulari non c’erano, i social e i loro ideatori erano ancora embrioni. In questo quadro decisamente nostalgico, Gabriele Sola fu il primo degli addetti stampa italiani.
Un giornalista della radio
La Mapei aveva appena salvato la Eldor-Viner di Marco Giovannetti, subentrando come sponsor nel 1993. E quando successivamente si trattò di strutturare la squadra a cubetti che, in un modo o nell’altro, avrebbe fatto la storia del ciclismo italiano, Giorgio Squinzi si guardò intorno e decise di introdurre qualcuno che facesse da filtro nei rapporti con i media. Ai tempi si ragionava di grandi giornali, riviste, radio e televisioni. E l’unica squadra ad essere già dotata di una figura del genere era la Banesto, che per fare muro attorno a Miguel Indurain aveva investito del ruolo Francis Lafargue.
«In realtà – ricorda Gabriele con un bel sorriso – la figura che era stata individuata da Squinzi era lo stesso Giovannetti. Lo aveva sempre apprezzato, è una persona talmente ricca su piano personale e bravo nelle relazioni, che la scelta era caduta su di lui. Credo però che Marco in quella fase avesse compreso che non era quello che desiderava fare e declinò l’offerta. Io arrivai a fine 1995. Nel frattempo avevo lavorato con RTL102,5 e avevo iniziato una collaborazione con Telemontecarlo, che faceva la trasmissione Ciclissimo con Davide De Zan. Mapei era uno degli sponsor, quindi ci fu modo di conoscersi e da lì partì il progetto».
Qual era lo scopo? Avvicinare la stampa alla squadra o tenerla lontana?
Gestire la stampa. A volte avvicinarla, tenerla lontana mai. Credo che uno degli aspetti che portò alla scelta del sottoscrittore fu proprio il fatto che venissi dal mondo del giornalismo. L’anno precedente ero al Tour de France e ci fu un incidente diplomatico con Rominger.
Cosa accadde?
Da bravo giornalista rampante, gli arrivai davanti dopo una cronosquadre che non era andata particolarmente bene e gli feci una domanda secca. Tony, che parlava benissimo italiano, mi rispose in inglese o francese, dicendomi: «Ma è possibile che un giornalista al Tour de France mi faccia una domanda in italiano? Forse è il caso che tu vada a fare il Giro d’Italia». Mi trattò malissimo. Immaginate la sorpresa quando al primo giorno di lavoro in Mapei, mi ritrovai a lavorare con lui.
Quale compito ti fu affidato?
Mi fu chiesto di mediare. L’idea era di agevolare l’interazione tra tutte le parti, facendo in modo che si trovassero dei punti di equilibrio. Quindi in alcuni momenti è capitato di dover limitare un po’ la stampa, in altri è stato il contrario.
Per il ciclismo italiano era un periodo di grande popolarità e grandi campioni, non c’erano ancora i social. Forse era davvero un altro mondo…
Manco da parecchio, ma forse in quel periodo c’era più rispetto delle reciproche esigenze. C’era un rapporto di calore umano, a volte anche conflittuale. C’erano tensioni, ma anche momenti meravigliosi di unione. Il racconto dello sport veniva trasposto in una dinamica molto accesa, oggi molto meno. Leggo ancora i giornali e mi sembra che su quel versante sia tutto un pochino impoverito. E questo nonostante ci siano più strumenti per interagire. Anche i social, usati in un certo modo, potrebbero consentire un’interazione migliore. Il fatto che non sia più così forse arriva anche alla gente, perché alla fine diventa tutto un po’… plasticoso. Un certo stile va bene per le altre discipline, non per il ciclismo.
Percepivi nei corridori la voglia di raccontarsi?
Allora (sorride, ndr), c’erano corridori e corridori. Franco Ballerini era un grande narratore. Percepivi davvero il piacere di raccontare, non lo faceva per esibizionismo, come alcuni suoi colleghi di cui non faccio il nome. Franco aveva il piacere di condividere con i giornalisti l’esperienza che viveva. E quando raccontava, ti sembrava essere in bicicletta con lui, come se volesse rivelarti le sensazioni più profonde e autentiche del suo vivere il ciclismo. Soprattutto al Nord.
Franco era una grande eccezione?
Di sicuro, c’erano quelli che tendevano a sgomitare per farsi vedere e anche quelli estremamente riservati e chiusi, che quasi consideravano il dover incontrare i giornalisti un dovere ingiustificato. E allora toccava a me spiegargli che facesse parte del loro lavoro e che la giornata non finiva nel momento in qui tagliavano il traguardo. Ho avuto a che fare con persone molto diverse, con cui negli anni si sono create belle interazioni.
Qualche esempio?
Quella con Gianni Bugno, che poi è stato padrino di mio figlio. Col tempo abbiamo fatto alcune cose molto belle. Mi piace pensare che il Gianni della Mapei fosse diverso da quello degli anni precedenti. E poi Bartoli, con cui ho vissuto una complicità bellissima. Michele era talmente immerso nel trip della competizione, che con lui creai una specie di routine. Per 2-3 minuti dopo l’arrivo, andava blindato. A quel punto, una volta sbollita l’adrenalina, tornava una persona meravigliosa. Una delle persone più belle e autentiche che abbia conosciuto nel mondo del ciclismo. E questo a volte è stato il suo problema nelle relazioni con i giornalisti, perché era davvero schietto. Arginarlo nel dopo gara era un modo per tutelarlo soprattutto da se stesso…
Quali sono gli episodi che porti con te?
Ce ne sono diversi. Uno proprio con Michele, quando vinse la Freccia Vallone del 1999 sotto una nevicata terribile. Dopo l’arrivo era veramente intirizzito e mi ricordo che gli diedi il mio giubbino. Mi guardò come per dire «Grazie». Non me lo disse, bastò lo sguardo. Invece un episodio da ridere ci fu proprio con Bugno.
Cosa successe?
Un giorno al Tour de France, c’era la crono e come al solito ci dividevamo per seguire i corridori. Io di solito ero dietro qualche gregario, invece la sera prima Gianni chiese che seguissi lui. A me prese un colpo. Gli dissi: «Gianni, sei sicuro? Io ho due mani sinistre, non sono capace di aiutarti. Se capita una cosa alla bicicletta, sei fritto…». Lui invece disse che non avrebbe fatto la crono al massimo e così il giorno dopo mi misi nella sua scia con la mia Ulysse tutta cubettata.
Andò bene?
Era pieno di tifosi in mezzo alla strada. Faceva veramente paura, perché lui era popolarissimo in Francia. A un certo punto però alza la mano, problema meccanico: terrore. Mi avvicino. Lo affianco. E lui mi fa: «E’ un Ecureuil». E mi descrive la marca e le caratteristiche dell’elicottero della televisione che lo stava inquadrando dall’alto. Questi sono due episodi personali, ma ci sono state anche fasi più complesse.
Ad esempio?
Eravamo al Tour e Rominger era particolarmente in difficoltà. Non stava bene e cominciava a perdere sicurezza nei suoi mezzi. Poiché è molto intelligente, creammo una sorta di narrazione parallela a quella reale. Non si negò mai all’attenzione dei media, solo che per proteggerlo decidemmo di raccontare una versione che non rivelasse al mondo esterno il suo momento di difficoltà.
Per finire, che personaggio è stato per te Giorgio Squinzi?
Fantastico. Io ero tra i pochi che spesso veniva chiamato nel suo ufficio al sesto piano. E nel momento in cui il ciclismo entrava nella sua stanza, era come se si accendesse la luce. E’ stato un grandissimo imprenditore con lo stress delle sfide adeguate al suo ruolo. Ma quando veniva alle corse, guai se non c’era la pastasciutta aglio, olio e peperoncino fatta da Giacomo Carminati. C’era tutto un insieme di rituali, complicità e situazioni che lui viveva intensamente. L’ammiraglia, il pullman, iIl rapporto con il corridore e con tutti i membri dello staff. Viveva tutto con grande generosità e si stupiva di vedere che per altri non fosse lo stesso. Io non l’ho mai vissuto nei panni di presidente di Confindustria o in una trattativa importante, ma credo che lo Squinzi visto nel ciclismo, fosse il vero Squinzi.
Perché finì?
Nel 1999 venni contattato dalla Juventus. C’era la possibilità di prendere il posto di capo ufficio stampa e io mandai il curriculum. Questa cosa credo non la sappia praticamente nessuno. Mi chiamarono a fine Vuelta. A ottobre ci furono tutti i colloqui ealla fine scelsero me. Avrei iniziato il 2 novembre del 1999, senonché mia moglie si mise di traverso. Non voleva andare a Torino. Giulia aveva appena quattro anni e alla fine rinunciai. Solo che lo avevo già detto a Squinzi. Lui non era stato entusiasta, mi aveva lasciato andare a malincuore, essendo per giunta milanista. Così quando tornai indietro, mi aprì le porte, però percepii che le cose erano cambiate. Perciò nel 2000 aprii la mia agenzia e iniziammo a seguire la Liquigas, una parte della comunicazione internazionale per il Tour de France e nel 2008 i mondiali di Varese.
Sappiamo della carriera politica in Regione Lombardia e ora del tuo lavoro di mental coach. Hai mai sentito la mancanza del ciclismo?
La parentesi politica fu istruttiva è un po’ distruttiva. Sono felice di seguire alcuni corridori, ma con la conoscenza attuale, mi piacerebbe essere più dentro al mondo del ciclismo: il cuore è lì. Non vengo più alle corse, perché rischio di star male e quindi me le guardo in TV. E nel frattempo abbiamo anche cambiato nome. Abbiamo seguito nostra figlia Giulia. Lavorando come artista a Roma, ha scelto come nome d’arte Giulia Sol. Finché un bel giorno, dato che come mental coach lavoro in tutta Italia e faccio pubblicità sul web, ho pensato che chiamarsi Sola non fosse un bel biglietto da visita. Così siamo andati dal Prefetto e abbiamo tutti cambiato cognome. Esattamente un anno fa sono diventato Gabriele Sol, ma per il resto giuro che sono sempre lo stesso.
A Sydney 2000, con lo scontro fra Telekom e Mapei, cambia la storia delle Olimpiadi su strada. Il ricordo di Bartoli e Bettini di quella corsa pazzesca
Al Centro Canottieri Olona c’è una saletta privata che Garmin ha utilizzato come ritrovo per i giornalisti e gli invitati all’evento di cui vi abbiamo raccontato. All’interno di questa saletta, seduto su un divanetto, c’è Alessandro Ballan. La discussione parte dai rulli che andremo a provare e il campione del mondo di Varese 2008 racconta l’evoluzione di questi sistemi.
«Quando correvo io le Classiche del Nord – racconta Ballan – gli smart trainer non esistevano e ci si doveva allenare in ogni condizione atmosferica. Mi ero fatto fare artigianalmente dei rulli classici ma facevo una mezz’ora o quaranta minuti al massimo, senza lavori specifici. Avevo anche un “ciclomulino” con il quale riuscivo a fare potenziamento e qualche lavoro, ma mi mancava il controllo dei dati».
Le prime esperienze
Nell’intervista fatta con Filippo Ganna era emerso il tema dell’esperienza nelle Classiche del Nord. Approfittando della presenza di Ballan, affrontiamo il discorso anche con lui. Alessandro racconta proprio di quanto le sue esperienze lo abbiano aiutato ad emergere.
«In questo genere di corse – dice Ballan – ce ne vuole proprio tanta di esperienza: conoscere i percorsi ed i punti cruciali è fondamentale. Sapere dove avverrà la selezione o il tratto nel quale un corridore potrebbe scattare. Se in quei frangenti ti fai trovare in trentesima posizione, non sei tagliato fuori, ma sprechi un casino di energie.
«Errori così li ho pagati tanto in tutte le gare del Nord, ma soprattutto alla Roubaix. Per me quella è stata una corsa sfortunata. Nelle prime tre edizioni che ho disputato sono caduto ben sei volte. All’inizio l’ho odiata, non mi piaceva, ma quando è arrivato il primo terzo posto (nel 2006, ndr) ho capito che poteva essere per me. Purtroppo ho avuto degli episodi durante la mia carriera che mi hanno impedito di correrla con continuità e non sono mai riuscito a trovare il ritmo. E’ vero anche che nel corso delle ultime stagioni abbiamo avuto delle “mosche bianche” come Colbrelli che alla prima edizione è riuscito a vincerla. Io questo non me lo spiego – dice con una risata – se guardo a quel risultato mi dico che è impossibile».
Tanti fenomeni
I fenomeni, o comunque grandi campioni, che hanno ottenuto risultati importanti alla prima partecipazione nelle Classiche del Nord, esistono. Basti pensare a Pogacar, lo sloveno l’anno scorso ha fatto il diavolo a quattro e per poco non vinceva il Giro delle Fiandre.
«Sono corridori, in particolare Sonny – parla Ballan – che arrivano con una grande condizione. Anche se, devo essere sincero, se fossi arrivato alla mia prima Roubaix con la condizione di Varese 2008 non avrei mai pensato di poter vincere.
«Sono gare che necessitano di conoscenza del percorso e di fortuna. Perché non è solo un punto ma sono tanti, devi essere sempre concentrato. Fare le gare prima ti aiuta a conoscere il percorso. Il Fiandre va a riprendere i percorsi dell’ E3 Harelbeke, di De Panne, di Waregem (ora Dwars Door Vlaanderen, ndr). Si prendono i muri da altri lati ma fare quelle gare aiuta molto. Aiuta a conoscere gli avversari, a capire chi sta bene. Puoi studiarli».
Pogacar al suo primo Fiandre ha fatto il diavolo a quattro, ma gli è mancata l’esperienza per vincerlo…Van Der Poel ha approfittato della cosa e ha vinto il suo secondo FiandreDue anni prima, nel 2020, aveva battuto in volata Van Aert
I punti di riferimento
Quando le strade sulle quali corri sono larghe due metri e una curva fatta dalla parte sbagliata ti potrebbe tagliare fuori dalla lotta per la vittoria, allora devi trovare dei punti di riferimento.
«Quelli sono importantissimi – precisa l’ex campione del mondo – sapere dove sei aiuta. Sul manubrio hai la lista dei muri e quando leggi un nome hai un riferimento. Per esempio sai che alla fine di quel muro ci sarà la stazione del treno».
«Le differenze tra Fiandre e Roubaix non sono poi così ampie. Dovete pensare ai tratti di pavé della Roubaix come a dei muri. Arrivi lanciato, cali di velocità ed esci dal settore che vai davvero piano. Se sei bravo riesci a “galleggiare” sulle pietre e a non perdere velocità.
«I tratti più difficili della Roubaix sono la Foresta di Arenberg e il Carrefour de l’Arbre. La foresta è dritta ma sale, anche solo dell’uno o due per cento ma si sente e lì per non “piantarti” devi essere forte. Il secondo, invece, ha delle curve che sono micidiali. E per non cadere devi saper guidare la bici benissimo».
L’occhio attento di Lefevere è in grado di capire quali atleti che possono vincere la Roubaix da come affrontano il pavé (foto Sigrid Eggers)L’occhio attento di Lefevere è in grado di capire quali atleti che possono vincere la Roubaix da come affrontano il pavé (foto Sigrid Eggers)
Il regno dei belgi
Le Fiandre sono il regno dei corridori belgi. Loro che nascono e crescono su queste strade ne hanno una conoscenza ineguagliabile. E’ difficile competere con corridori del genere, soprattutto se mettono in campo anche l’astuzia.
«Sull’Oude Kwaremont – spiega ancora Alessandro – i corridori della Lotto e della Quick Step mettevano in atto il loro piano. Ai piedi del muro le indicazioni che i corridori hanno alla radiolina sono uguali per tutti: stare davanti. Così ti trovi duecento corridori che fanno la volata per arrivare davanti alla curva prima del muro. Poi normalmente i cinque o sei corridori davanti abbassavano la velocità (quelli della Lotto e della Quick Step, ndr) e una volta che si saliva sul pavé rallentavano ancora di più. Quando gli ultimi mettevano giù il piede per la velocità troppo bassa partivano a tutta, così dietro erano costretti a fare uno sforzo disumano per stare al passo».
Ballan ha vinto il Giro delle Fiandre nel 2007, battendo Hoste in una volata a dueBallan ha vinto il Giro delle Fiandre nel 2007, battendo Hoste in una volata a due
La capacità di guida
Questo particolare, che proprio di particolare non si tratta, non va sottovalutato. La capacità di guidare la bici è fondamentale per emergere dai tratti difficili e dalle situazioni che si vengono a creare.
«Mi viene in mente Dario Pieri – dice Ballan – lui aveva una capacità di guidare sul pavé incredibile. Come lui ne ho visti pochi: Franco Ballerini, Tafi, Museeuw, Boonen. Sono corridori che riuscivano a galleggiare.
«C’è un’aneddoto su Lefevere, ai tempi di quando correvo io. Ad ogni Roubaix si metteva sul terzo tratto di pavé e guardava i primi quaranta corridori uscire. A seconda del movimento delle spalle e delle braccia riusciva a capire quali erano corridori che stavano benee che fossero in grado di fare la differenza nel finale. Questo per far capire che è uno stile».
«Un altro dettaglio: ho sempre visto che chi arriva da altre discipline, che sia pista, BMX, ciclocross o mtb, ha un’altra capacità di guidare la bici. Quando c’è una caduta riescono a gestire la bici in maniera diversa rispetto a chi, come il sottoscritto, ha solo corso su strada. Hanno coraggio ed una dimestichezza diversa, Van Der Poel e Van Aert sono un esempio».
L’anno successivo a Varese vinse il mondiale, è l’ultimo italiano ad aver indossato la maglia iridataL’anno successivo a Varese vinse il mondiale, è l’ultimo italiano ad aver indossato la maglia iridata
Quanto conta la mente
In corse del genere la testa fa tanto la differenza, la mente gioca un ruolo chiave tra la vittoria e la sconfitta.
«E’ vero – afferma Ballan – quando alle prime partecipazioni prendi le batoste non devi arrenderti. Questa è già una prima selezione, ci sono corridori che dopo la prima Roubaix o il primo Fiandre, gettano la spugna. Io ho fatto l’ultima parte della mia carriera coinvolto nell’indagine (Lampre, ndr) che mi ha tenuto in ballo per sei anni. Da dopo Varese mentalmente parlando non ero libero, il mio pensiero era costantemente occupato da tribunale, avvocato… Non ho potuto fare gli ultimi anni della mia carriera come avrei voluto, Ballan c’era ma non era a posto con la testa».
«Dopo essere stato assolto, feci una dichiarazione nella quale dissi: “Mi basterebbe avere indietro le ore di sonno che ho perso in questi sei anni”. Io capisco Pantani, perché mi sono trovato nella stessa situazione. Per fortuna ero già sposato, avevo le bambine e dei punti fissi sui quali andare avanti. Se in quel momento avessi trovato una qualsiasi cosa che non mi avesse fatto pensare ai miei problemi l’avrei presa. La mia famiglia mi ha salvato».
«E’ arrivata l’ora di puntare veramente in alto. Sembra difficile da dire, ma il mio sogno è uno e resterà sempre quello: la Roubaix. Cercherò di provarci fino in fondo, anche se bisogna che i satelliti si allineino nel punto giusto e al momento giusto. Però finché non ci credi, di sicuro non si avvererà mai nulla».
Con questo destino scritto nel nome, Davide Ballerini ha iniziato la settima stagione fra i professionisti. E come accade ogni volta che ci soffermiamo sullo strano incrocio, il ricordo di Franco torna a galla. Questa volta abbiamo bussato alla porta di Tafi, amico e anche rivale.
Ottobre 2022, Davide Ballerini ha appena vinto la Coppa Bernocchi e festeggia con AlaphilippeOttobre 2022, Davide Ballerini ha appena vinto la Coppa Bernocchi e festeggia con Alaphilippe
Il San Baronto nel mezzo
I due vivevano sulle pendici opposte del San Baronto: Casalguidi per Franco, Lamporecchio per Andrea. Quel monte è un confine naturale, con i campanilismi ciclistici contrapposti capaci di scatenare vere e proprie contese. Gli ultimi alfieri sono stati forse Visconti e Nibali, ma questa è un’altra storia.
Ballerini e Tafi furono compagni di squadra alla Mapei, in tante campagne del Nord e anche nelle due Roubaix vinte dal Ballero. Nel 1995, Tafi chiuse in 14ª posizione. Nel 1998 fu secondo, mentre terzo si piazzò Peeters, anche lui della Mapei e oggi direttore sportivo di Ballerini (foto di apertura).
Quando poi Ballerini lasciò la Mapei, fu la volta di Tafi che nel 1999 vinse la Roubaix. Mentre nel 2002, l’anno dopo il ritiro di Franco, vinse il Fiandre.
I due hanno trascorso la carriera insieme. Qui al Grand Prix Breitling del 1998, cronocoppie in GermaniaI due hanno trascorso la carriera insieme. Qui al Grand Prix Breitling del 1998, cronocoppie in Germania
Tafi dà consigli a Ballerini su come vincere la Roubaix… Non ti sembra un po’ strano?
Abbastanza (ridacchia, ndr). Però fa tornare un po’ indietro negli anni, quando era Franco che dava consigli a me. E’ un modo strano per ricordare un grandissimo amico, con cui davvero ho condiviso periodi indimenticabili, in cui ci osservavamo l’un l’altro per capire come stessimo lavorando.
Perché la Roubaix, come forse solo la Sanremo, si attacca così tanto al cuore di certi corridori?
La Roubaix è la corsa di un giorno più bella e più impegnativa al mondo. Con tutto quello che si può dire sui sassi e il fatto che è fuori dal tempo, è la più bella. Anche Bettiol quest’anno vuole puntarci. Ha corso su quelle strade al Tour ed è tornato innamorato. Non è per tutti, servono attitudine, motivazione e voglia. Però poi è la corsa che ti può dare il timbro di campione. Se vinci la Roubaix o il Fiandre entri a far parte di un circolo piuttosto esclusivo.
Aprile 1999, da solo con la maglia tricolore: arriva la vittoria con una vera impresaAprile 1999, da solo con la maglia tricolore: arriva la vittoria con una vera impresa
Ballerini ha 28 anni, quanta esperienza serve per poterla vincere?
Fino allo scorso anno, avrei risposto in un modo. Poi però è arrivato Sonny Colbrelli che l’ha vinta al primo tentativo. Il ciclismo è cambiato moltissimo, sembra che gli anni passati dai miei tempi siano pochi, ma sono venti ed è cambiato il mondo. Noi parlavamo di esperienze da fare, oggi arrivano e sono subito pronti. Poi magari non dureranno allo stesso modo, ma io ho vinto il primo Monumento a 30 anni, il Lombardia. Evenepoel ha vinto la Liegi a 22, poi anche la Vuelta e il mondiale. Magari a 30 anni avrà già detto tutto, chi lo sa?! Per questo credo che anche Ballerini ormai sia pronto per puntare in alto.
Come te e Franco, avrà una bella concorrenza interna, che non è banale…
Non è affatto banale. La Mapei di allora che poi diventò Quick Step ha avuto dall’inizio la forte impronta per le classiche e grandi campioni per vincerle. Però a volte la concorrenza è meglio averla in casa che fuori, perché sai quale tattica faranno quei tuoi compagni così forti, che poi in corsa potrebbero diventare avversari.
La Roubaix del 1995, la prima di Ballerini. La seconda arriverà nel 1998 (foto di apertura)La Roubaix del 1995, la prima di Ballerini. La seconda arriverà nel 1998 (foto di apertura)
Come si fa a essere corretti e anticipare gli altri?
La prima cosa che dovrà fare Ballerini sarà farsi trovare pronto. E poi serve programmazione, la Roubaix non si improvvisa in 15 giorni. Devi prepararla e analizzarla con tutta la squadra.
Ci ha raccontato che l’anno scorso ha bucato due volte nella Foresta: la fortuna è così predominante?
La fortuna incide con una percentuale molto alta, ma alcune volte dipende dalle situazioni. Dal meteo, perché se c’è acqua non vedi bene le buche. Si fora perché magari prendi la traiettoria sbagliata e impatti male con le pietre, ma a volte sei costretto a farlo. Quando sei in gruppo, come nell’Arenberg, non hai troppa libertà di cambiare direzione. Certo due forature nella Foresta magari dicono anche altro.
Ballerini, doppia foratura nella Foresta di Arenberg e addio Roubaix. Il gruppo si allontana…Doppia foratura nella Foresta di Arenberg e addio Roubaix. Il gruppo si allontana…
Ad esempio?
La prima può succedere per quello che ci siamo detti. La seconda potrebbe dipendere da errori dati dal nervosismo e dall’ansia di recuperare. Se buchi due volte lì dentro, sei spacciato.
Un italiano in un team belga ha gli stessi spazi?
E’ chiaro che a parità di valore, la squadra potrebbe preferire il corridore belga. Però Lefevere è un grande professionista e sa quello che deve fare: chi ha la condizione migliore ha un occhio di riguardo e la protezione di quel gruppo così forte.
Nel Borghetto che porta il suo nome, Andrea custodisce la pietra di Roubaix (foto Facebook)Il Borghetto Andrea Tafi si trova a Lamporecchio e ha ripreso bene dopo la pandemia (foto Facebook)Il pubblico che più approda a casa Tafi è quello dei cicloturisti (foto Facebook)Nel Borghetto che porta il suo nome, Andrea custodisce la pietra di Roubaix (foto Facebook)Il Borghetto Andrea Tafi si trova a Lamporecchio e ha ripreso bene dopo la pandemia (foto Facebook)Il pubblico che più approda a casa Tafi è quello dei cicloturisti (foto Facebook)
Si parlava di amore per la Roubaix e proprio tu nel 2018 hai provato a correrla di nuovo 13 anni dopo il ritiro. Perché?
Nel profondo c’era il richiamo della Roubaix. Insieme era anche il modo di fare capire quanto sia cambiato il ciclismo, a partire dalle bici. Proprio le forature rispetto a una volta sono un’altra cosa. Adesso per un po’ puoi continuare, prima ti fermavi sul ciglio e aspettavi l’ammiraglia. Se era fra le prime, forse ti salvavi, altrimenti addio. Sarebbe stato bello far vedere che la fine della carriera non è la fine del ciclismo, ma si può continuare a praticarlo stando bene fino ai 50 anni e anche oltre. E lo avrei dimostrato nella corsa che ho più amato.
Si va avanti ancora a lungo, ne faremo un altro articolo: promesso. Si parla intanto del Borghetto Andrea Tafi che si è ripreso dopo le chiusure per la pandemia. Delle tre ore in bici fatte ieri all’ora di pranzo, quando c’è più caldo. Di Bettiol, cui darà altrettanti consigli e anche qualcosa di più, essendo il compagno di sua figlia Greta. E di sicurezza stradale. I campioni di prima avevano il gusto di approfondire e raramente i loro addetti stampa usavano la clessidra.
La classica più dura, difficile da interpretare, più eroica nella storia del ciclismo. La Parigi-Roubaix è qualcosa a parte, forse un ultimo retaggio del ciclismo degli albori. Per quanto il progresso vada avanti, per quanto le bici cambino e si evolvano, quando si pedala su quelle pietre sconnesse, che gli organizzatori cercano con pazienza certosina e le amministrazioni locali preservano come un monumento nazionale, si torna all’antico.
L’edizione di quest’anno avrà all’interno dei suoi 256 chilometri ben 30 settori di pavé, per un totale di 53,8 chilometri. I settori sono indicati da una a cinque stelle in base alla loro difficoltà: solo tre di questi hanno il massimo degli indicatori. E proprio in questi tratti la Roubaix ha vissuto alcuni dei momenti più epici. Raccontarli significa rivivere non solo attimi della storia di una corsa indimenticabile, ma anche quasi sentire sotto i piedi quelle pietre ormai famose in tutto il mondo.
La lunga fila di corridori nella foresta di Arenberg, tratto di 2,3 chilometriLa lunga fila di corridori nella foresta di Arenberg, tratto di 2,3 chilometri
L’Arenberg e Stablinski
La Foresta di Arenberg ha fatto il suo ingresso sul percorso della Roubaix relativamente tardi, nel 1968. “Responsabile” fu Jean Stablinski, storico gregario di Anquetil, ma anche vincitore di una Vuelta nel 1958 e soprattutto uno dei più inattesi campioni del mondo, nel 1962. Quel tratto di pavé lo conosceva bene, conosceva tutta la zona, lì suo padre polacco si era trasferito lì con la famiglia per cercare lavoro, finendo a sgobbare in miniera. Su quelle strade Stablinski aveva iniziato a correre in bici, facendone il suo lavoro, ma mai la sua passione perché, come disse una volta a Poulidor, «un minatore non deve amare il suo piccone, così io non devo amare la bici».
Jacques Goddet, organizzatore della gara, sapendo della sua storia gli chiese di qualche nuovo tratto di pavé nella sua zona da inserire in corsa: «Non osavo presentarglielo – racconterà in seguito Stablinski – sapevo come sarebbe andata a finire…». Quando fece vedere le foto a Goddet, questi rimase senza fiato: «Avevo chiesto ciottoli, non buche…» disse quasi risentito.
Il primo anno, Stablinski c’era, con la gente vestita da minatore per salutare l’eroe di casa. A lato del pavé, c’è una porzione morbida, ma gli organizzatori l’hanno impedita al transito delle bici, sennò che gara è?
Il trionfo di Boonen a Roubaix nel 2008, su Cancellara e BallanIl trionfo di Boonen a Roubaix nel 2008, su Cancellara e Ballan
Mons en Pevele, battaglia!
Il tratto di Mons-en-Pevele è considerato fra i più duri, con i suoi 3.000 metri e la distanza di una cinquantina di chilometri dall’arrivo. Quel tratto Tom Boonen lo conosce bene, perché fu decisivo nel 2008. Davanti erano tutti i migliori, lui lanciò all’attacco Stijn Devolder, reduce dal trionfo al Giro delle Fiandre, al quale si accodò l’australiano Stuart O’Grady.
Si ha un bel dire che la Roubaix è una corsa individuale, quel giorno Boonen giocò come un consumato scacchista. Devolder non poteva essere lasciato andare, così il suo rivale Leif Hoste fu costretto a sacrificare nell’inseguimento Vansummeren, ma quando più avanti, a 35 chilometri dall’arrivo, Boonen portò il suo attacco con Cancellara, solo Ballan rispose, Hoste andò alla deriva. I tre accumularono un vantaggio enorme, oltre 3 minuti, poi Boonen dispose allo sprint dell’elvetico e dell’italiano.
Non è lo stesso tratto, ma Mons en Pevele è sempre stato un luogo storico per la Roubaix. Forse perché sin dal Medio Evo era terreno di scontro tra francesi e belgi, nel 1304 fu teatro di una famosa battaglia. Ciclisticamente non meno famosa è stata quella del 1955: Jean Forestier con la sua offensiva disperde “l’armata belga” con Impanis, Planckaert, Schotte, Scodeller, Derycke, Van Steenbergen, non ne resta più nessuno. Alla vigilia, chi era del posto aveva detto a Jean e ai suoi: «Quando vedete la chiesa di Mons, in lontananza sul colle, andate all’attacco». Forestier vincerà con soli 15” su un terzetto, regolati allo sprint da Fausto Coppi.
Dirk Demol, belga vincitore della Parigi-Roubaix nel 1988Dirk Demol, belga vincitore della Parigi-Roubaix nel 1988
Dove la Roubaix non si vince più…
Facciamo un salto, 1998: a raccontare quel che succede è Thierry Gouvenou, allora finito 7° e oggi direttore di corsa della Roubaix.
«Ero in testa al gruppo all’imbocco del tratto di Mons. Dietro era Timo Steels, uno dei favoriti: all’improvviso lo sento sterzare, mi volto e lo vedo scivolare e come lui altri, cadono uno sull’altro. Poi vedo Franco Ballerini, si piega sul manubrio, è come se cambiasse marcia, non mi passa, vola via…».
«E’ un luogo mitico – racconta Dirk Demol, vincitore nel 1988 – senti spesso il vento laterale, la strada è in leggera salita e soprattutto non riesci a vederne la fine, è interminabile. Non sempre decide chi vince, ma stabilisce immancabilmente chi quella Roubaix non la vincerà».
Marc Madiot, oggi manager della Groupama FDJ, vincitore della Roubaix nell’85 e ’91Marc Madiot, oggi manager della Groupama FDJ, vincitore della Roubaix nell’85 e ’91
L’Arbre e il ristorante…
Il tratto del Carrefour de l’Arbre è entrato nella Roubaix nel 1958. Anquetil maledisse a lungo quel pezzo di strada, vittima di una foratura vide svanire quell’anno le sue speranze di vincere. Il nome deriva dal ristorante posto ai margini del lastricato: per molto tempo fu aperto solo il giorno della Roubaix. Ora è aperto sempre, al suo interno ha un affresco con raffigurati molti dei corridori vincitori.
Marc Madiot, due volte vincitore della corsa, qui è diventato talmente famoso da essere ritenuto quasi una gloria locale. A chi gli chiede che cosa serve per vincere la Parigi-Roubaix, ti risponderà che tutto è soprattutto nella testa: «E’ una gara che devi metterti nel cervello. Se non sei preparato psicologicamente per questo, non farai nulla in questa prova». Poi però ci sono le gambe…
E’ stato ascoltando anche le sue gambe che Madiot ha costruito i suoi due successi su questo tratto: «Mi sono ritrovato a giocarmi la vittoria quattro volte alla Parigi-Roubaix proprio in prossimità del Carrefour de l’Arbre ed è lì che sapevo di avere le gambe giuste, o al contrario che era finita per non averle. Qui è inutile stare tanto a guardare i watt – riprende Madiot – si combatte con la baionetta, con il coltello, si fa da uomo a uomo! Questa gara non si corre sul computer…».
«Oggi Franco per noi è com’era nel 2010 – sussurra Sabrina – diverso da com’è stato per i primi 2-3 anni dopo che è morto. Allora c’erano adrenalina e mille cose da fare, fra indagini e assicurazioni. I figli facevano sport per non pensare. Adesso finalmente in casa se ne può parlare, non è più un tabù…».
Matteo e Gianmarco Ballerini, gli splendidi figli di Sabrina e Franco (foto Facebook)Matteo e Gianmarco Ballerini, gli splendidi figli di Sabrina e Franco (foto Facebook)
I due ragazzi
Il 7 febbraio del 2010, domani di dodici anni fa, ma come oggi di domenica. Ciascuno di noi ricorda esattamente dove fosse e cosa stesse facendo quando si diffuse la notizia che Franco Ballerini fosse morto. Un dolore difficile da descrivere, un finale impossibile da prevedere. Nella grande casa sulla collina il dolore impastò le storie di una vita, sotterrando tutto. Però il mondo cambia. I social ti portano in casa foto e ritratti di bambini diventati uomini e poi a loro volta genitori. Gianmarco e Matteo, il più grande e il secondo. E così oggi Sabrina Ricasoli, la moglie del Ballero, è nonna. E i suoi ragazzi sono le due meraviglie che Franco non perdeva occasione di mostrare nel suo telefono.
«Matteo – racconta – per tanto tempo non ha voluto parlare di ciò che nella sua vita è stato brutto. L’operazione e la morte di Franco. Non ne parlava e nemmeno chiedeva. A scuola si fece mandare dal preside, perché in una giustificazione c’era da mettere la firma del padre e lui non voleva dire che il suo babbo fosse morto. Gli somiglia tanto nelle movenze, come accavalla le gambe. Gianmarco invece ha le sue espressioni…».
La Roubaix del 1995, la prima. La seconda arriverà nel 1998
La scritta Merci Roubaix sulla maglia, preparata con Sabrina, fu il suo commiato dall’Inferno del Nord
Gianmarco con il padre Franco alla Roubaix del 2001, l’ultima di Franco
La Roubaix del 1995, la prima. La seconda arriverà nel 1998
La scritta Merci Roubaix fu il suo commiato dall’Inferno del Nord
Gianmarco con il padre Franco alla Roubaix del 2001, l’ultima di Franco
Ti darei gli occhi miei
Stai parlando dei ragazzi, Sabrina, ma tu? Ascolta. Resta in silenzio. Il profumo del ricordo, cantava Guccini, cambia in meglio. E così a distanza di così tanto tempo quel che resta è la nostalgia: «Ti darei gli occhi miei – ha scritto giorni fa Sabrina su Facebook – per vedere ciò che non vedi, l’energia e l’allegria per strapparti ancora sorrisi».
«Mi rispecchio nei miei figli – dice – ho messo da parte la Sabrina, perché ho subito pensato di doverli proteggere. Non ho più avuto un compagno, ma ora che li vedo sereni, sono serena anche io. A volte penso a come sarebbe stato Franco come nonno e mi viene da ridere. Era vanitoso per quello cui teneva. Avrebbe mostrato di sicuro a tutto il mondo le foto di suo nipote, come mostrava quelle dei suoi figli o della moto».
A Stoccarda 2007, con Martini, si assapora il tris
Franco Ballerini divenne tecnico azzurro nel 2001
Al funerale la gente del paese e il mondo del ciclismo
A Stoccarda 2007, con Martini, si assapora il tris
Franco Ballerini divenne tecnico azzurro nel 2001
Al funerale la gente del paese e il mondo del ciclismo
Ma Scinto c’è
Il resto si è allontanato. Storie già viste, niente di cui meravigliarsi. Solo pochi sono rimasti, Scinto però c’è sempre stato.
«Il ciclismo è sparito velocemente – conferma – al di là di Luca non c’è più nessuno, se non il Team Franco Ballerini. Con lo Scinto siamo sempre stati amici al di là del ciclismo. Quando Matteo si è fatto male al ginocchio, lo ha portato lui dall’ortopedico. E poi continuo a sentire le mogli dei corridori toscani. La moglie di Tafi e la ex di Cipollini. Ho un bel rapporto con Michele e Alessandra Bartoli. E adesso che faranno l’apertura di stagione degli juniores con una gara intitolata a lui, andrò a vederla».
Cristian è figlio di Gianmarco, il nipote di Franco Ballerini (foto Facebook)Cristian è figlio di Gianmarco, il nipote di Franco Ballerini (foto Facebook)
La moto e la pietra
E Franco, secondo te… che cosa si è perso Franco? S’è perso un mondo, pensiamo mentre Sabrina riflette. Non si può morire a quel modo a 46 anni, aveva ancora tante cose da fare.
«Si è perso i nipoti – dice – e non mi sembra poco. Si è perso la crescita dei figli, che ha lasciato bimbi e ora sono due uomini. Matteo non frequenta nessuno in paese, lavora fuori. Per cui quando va al supermercato, la gente resta senza parole per quanto gli somiglia e quanto è cresciuto. In garage c’è ancora la moto. A Gianmarco non piace, Matteo dice che è sua. E io gli ho detto che se non paga i bolli, la vendo. Non è più stata accesa, ma lui dice che non la vuole vendere. Che prima vuole farci un giro e che se poi non gli piace, allora se ne parlerà. Ma quel momento lo rimanda sempre.
«In casa c’è ancora tutto di Franco. La mattonella murata con la foto dell’ultima Roubaix, con lui che saluta nel velodromo. La pietra. La maglia. Lo studio con le foto. A me non serve andare ogni giorno al cimitero. Se voglio parlare ad alta voce con Franco e non essere presa per matta, non serve che esca. Ho quella mattonella…».
Ride. Le foto la ritraggono simpaticamente matta come sempre, ma nel fondo della voce quella luce non s’è riaccesa e Dio solo sa se tornerà a brillare. Che sia benedetta la vita. E forse guardando i suoi ragazzi, Sabrina avrà la forza di benedirla davvero. Anche se la verità, al di là di quello che vorresti e che sogni ogni notte, è che non puoi farci proprio niente.
Ci sono due vite ciclistiche ben distinte, unite nella figura di Gabriele Mugnaini. La prima è quella di ciclista professionista, durata solo 6 stagioni dal 1973 al ’78, i primi 3 alla Filotex, gli altri alla Vibor, correndo al servizio di campioni come Bitossi, Zilioli, Moser e Visentini. Mugnaini era il classico gregario, sempre pronto a sacrificarsi per i suoi capitani, ma capace anche di qualche exploit come il secondo posto nel GP Industria e Artigianato nel 1977.
La seconda è quella da fisioterapista, con mani divenute nel tempo preziose, forti e delicate al tempo stesso, capaci quasi di parlare ai muscoli dei campioni massaggiati. Uno per tutti, Mario Cipollini, con il quale ha condiviso tante stagioni e soprattutto stati d’animo susseguenti a vittorie e sconfitte. Oggi Mugnaini, che l’11 febbraio compirà 72 anni, è in pensione ma spesso viene richiamato per la sua esperienza, ad esempio all’Eroica dove tutti vogliono attraverso un massaggio da esperto sentire anche i suoi racconti del bel tempo che fu.
Mugnaini ha militato per 6 anni fra i pro’, i primi 3 alla Filotex. E’ nato l’11 febbraio 1950Mugnaini ha militato per 6 anni fra i pro’, i primi 3 alla Filotex. E’ nato l’11 febbraio 1950
Il lungo massaggio a De Vlaeminck
La sua storia di massaggiatore iniziò grazie all’interessamento di un corridore che sapeva di questa sua passione e gli suggerì di farne un lavoro: Bruno Vicino, il campione del mondo degli stayer. «A quei tempi i soldi per chi correva erano pochi – ricorda l’aretino di Montemignaio – per me era una svolta per la mia vita e sarei anche rimasto in quell’ambiente. Sapete chi fu il primo a capitare sotto le mie mani? Un certo Roger De Vlaeminck, alla Gis. Ero così emozionato, quello che lo massaggiava abitualmente non poteva. Ricordo che ci misi 18 minuti per una gamba e 13 per l’altra, un’eternità… Lui alla fine sorridendo mi disse: «La prossima volta ti compro una sveglia…”».
La sua storia di massaggiatore è legata a doppio filo a quella del Re Leone: «Con Cipollini abbiamo cominciato alla Del Tongo. Era ancora molto giovane, in quella squadra incentrata su Saronni, anche lui curato da me, ma saltuariamente. Ricordo una volta in Puglia, aveva dovuto tirare la volata a Lecchi, mentre lo massaggiavo mi disse serio: “Tra un anno li mangio tutti…”. Sapeva bene quel che voleva…».
La sicurezza di Cipollini
Tutti nell’ambiente dicono che Cipollini avesse un carattere difficile, davanti ai suoi occhi Mugnaini ne ha viste di tutti i colori: «Dicevano che era un montato, invece era semplicemente uno concentrato sul suo lavoro a livelli estremi. Poi sì, il carattere era fumantino, è chiaro. Quando le cose andavano bene si scherzava anche durante il massaggio, al contrario era inavvicinabile, scontroso e si doveva fare silenzio. Bisognava starci insieme 10 mesi l’anno per conoscerlo, ma avevamo il nostro equilibrio, sapevo quando e come prenderlo».
Al di là degli episodi, Mugnaini ha un’idea precisa su Cipollini: «Era un precursore rispetto al ciclismo di oggi. A dicembre si partiva per il Sud Africa, erano in programma 10 giorni ma se le cose andavano bene si restava molto di più. Avevamo un ristorante di riferimento, italiano, dove lo conoscevano bene e in quei giorni era davvero una compagnia piacevole. Ma quando si cominciava ad avvicinare l’obiettivo, era il massimo della concentrazione. E questo suo spirito è stato d’insegnamento a tanti: alla Saeco tutti erano mentalmente indirizzati verso l’obiettivo, non si sgarrava».
Negli anni Mugnaini è sempre rimasto nell’ambiente, prodigandosi al di là del lavoro di fisioterapistaNegli anni Mugnaini è sempre rimasto nell’ambiente, prodigandosi al di là del lavoro di fisioterapista
Mugnaini, psicologo al bisogno…
Il massaggio del dopo gara, al di là del puro aspetto fattuale, era una sorta di “camera caritatis”: «Il massaggio durava anche più di un’ora, nella quale Mario si sfogava su tutto quel che era avvenuto. Io lo lasciavo parlare, era quello di cui aveva bisogno. Poi come detto c’erano le volte che non aveva voglia di dire nulla e altre che scherzava».
Qual è stata allora la volta che si è più arrabbiato? «Eh, non dimenticherò mai il giorno della Gand-Wevelgem del ’94. Va via una fuga importante con dentro anche Franco Ballerini, ma grazie al lavoro della squadra i corridori vengono ripresi a 3 chilometri dal traguardo. Invece di preparare la volata a Mario, Franco riparte con Wilfried Peeters, arrivano in due e perde. Cipo voleva la terza vittoria consecutiva, era furioso: arrivati al camper ci dice a tutti di scendere e si chiudono dentro loro due, le urla si sentivano per tutta la città…».
Dopo tante delusioni, finalmente Cipollini centra la Sanremo nel 2002 (foto Ansa)Dopo tante delusioni, finalmente Cipollini centra la Sanremo nel 2002 (foto Ansa)
Il giorno più bello
Ci sono però stati anche momenti speciali: «La Sanremo del 2002, mai visto così contento. Quella era diventata una vera ossessione, partiva tante volte come favorito ma non riusciva mai a centrare l’obiettivo. Era al settimo cielo. E poi il mondiale: io c’ero, sin dal ritiro premondiale di Salsomaggiore. In squadra erano tutti concentrati, ma sotto sotto si temeva che Petacchi avrebbe fatto il doppio gioco, invece fu fantastico».
I rapporti con il tempo si sono diradati, ma non manca anno che non ci si veda: «Carube il meccanico suo e mio amico organizza una corsa a Lucca, non manchiamo mai ed è sempre bello ritrovarsi » . Come sarebbe allora Cipollini in carovana oggi? « Sarebbe ancora un innovatore, la preparazione era un chiodo fisso. Magari si scontrerebbe con chi fa cose che a suo modo di vedere non sono giuste, ma sarebbe un preparatore ideale, con tanto da trasmettere. Purtroppo con il suo carattere non si è fatto tanti amici…».
Domani saranno 12 anni dalla morte di Franco Ballerini. Parliamo di lui con la moglie Sabrina. Il pensiero dei figli. Il nipotino. E le frasi su Facebook
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La casa di Bennati è in una via senza uscita ai piedi dell’Alpe di Poti, che lanciò Brambilla verso Arezzo al Giro del 2016. I dintorni sono verdi e placidi, in una giornata di sole che invita a stare fuori. Francesco fa la terza media ed è tornato un po’ tardi da scuola, per cui Chiara è ancora dentro che sistema e dispensa battute con il suo spettacolare accento toscano. Daniele ha il sorriso dei giorni belli, offre il caffè, tiene a bada i cagnolini e racconta. Saremo probabilmente condizionati dal ricordo, ma in certi momenti è come parlare con Ballerini. Stile che somiglia, la battuta sorniona a bassa voce e lo sguardo fisso.
Questa è la stilografica Aurora che le figlie di Alfredo Martini hanno donato al neo cittì azzurro
Con la Aurora di Alfredo i suoi biglietti da visita. Alfredo rifiutò la definizione C.T. n° 1 e ci scrisse il telefono
Questa è la stilografica Aurora che le figlie di Alfredo Martini hanno donato al neo cittì azzurro
Con la Aurora di Alfredo i suoi biglietti da visita. Alfredo rifiutò la definizione C.T. n° 1 e ci scrisse il telefono
In queste settimane c’è la coda per venirlo a trovare e farsi svelare in anteprima cose che non può ancora dire. L’elenco dei nomi cui sta lavorando è lungo e ce lo fa vedere, ma non avrebbe neanche senso parlarne se prima la stagione non sarà cominciata. Ci mostra invece un regalo senza prezzo ricevuto da parte delle figlie di Martini. E’ la stilografica del grande Alfredo (foto di apertura). Restiamo per un attimo in silenzio: davanti a una storia così grande che si tramanda non servono parole.
Siamo qui per Daniele
Siamo qui per Daniele, prima ancora che per Bennati. Dopo averlo seguito sin da junior, la curiosità è sapere di lui. Di quello che i chilometri e la strada hanno costruito. Anche per capire cosa potremo aspettarci quando sarà chiamato a guidare gli azzurri sulle strade del mondo.
«Ho sempre creduto in quello che facevo – dice – e che volevo fare. Essere un ciclista professionista. Mio babbo era tifoso di Argentin e ho in testa la Sanremo del 1992 in cui Moreno fu battuto da Kelly. Ho in testa Bugno, Pantani e Cipollini. Ci ho sempre creduto e il merito della mia famiglia è stato di non aver mai influito sulle mie scelte. L’altro giorno mi hanno dato un premio a Castiglion Fiorentino e a sorpresa hanno invitato Marcello Massini e Lido Francini, i miei tecnici nei dilettanti e negli allievi. La fortuna della mia carriera è stata proprio aver incontrato persone intelligenti e capaci. Non è così scontato che accada».
Ballerini fu suo testimone di nozze nel 2003: eccolo accanto a Chiara
Bennati non ha mai corso alle dipendenze di Martini. Lo conobbe quando era già Presidente Onorario Fci
Mauro Battaglini è stato suo procuratore e poi sempre più amico e consigliere
Ballerini fu suo testimone di nozze nel 2003: eccolo accanto a Chiara
Bennati conobbe Martini quando era già Presidente Onorario Fci
Mauro Battaglini è stato suo procuratore e poi sempre più amico e consigliere
Si impara da tutti.
Massini ci diceva che prima di saper vincere, bisognava aiutare gli altri a farlo. Io tiravo le volate a Crescenzo D’Amore e Branchi e arrivavo subito dietro. E’ stato un insegnamento che mi sono portato dietro e mi permise di passare professionista.
Racconta.
Mauro Battaglini aveva capito che sarei stato importante per Cipollini e così a Cerreto Guidi nel 2001, dopo la gara del martedì, firmai con Santoni, alla Domina Vacanze. Non era scontato che riuscissi a inserirmi in quel treno. Mi misero a lavorare da lontano, ma mi rendevo conto che mi avvicinavo sempre di più. Nel 2002 mi ruppi il braccio a La Panne e saltai il Giro. Ad agosto al Regio Tour tiravo le volate a Lombardi, ultimo uomo di Mario. Fu lui a rendersi conto che andavo forte e nell’ultima tappa invertimmo i ruoli e io vinsi. Così chiamò la squadra e propose che andassi alla Vuelta, dove io fui penultimo uomo e Mario vinse tre tappe, prima di ritirarsi e vincere il mondiale.
Massini, Battaglini, Ballerini: uomini di poche parole. Somigli un po’ anche a loro…
Non do molta confidenza. Prima di avere fiducia in qualcuno, lo devo conoscere bene. L’amicizia con Franco la dice lunga ed è vero che un po’ mi rivedo in lui. Mauro invece (Battaglini, ndr) è sempre rimasto al mio fianco. Una persona di riferimento, con cui alla fine prevaleva l’amicizia sul rapporto di lavoro. Non vi nascondo che mi è mancato molto nel periodo in cui ho iniziato ad avvicinarmi alla Federazione. Mi avrebbe certo consigliato, ma sono certo che ora sarebbe contento.
Un altro commissario tecnico toscano…
Sono rimasto nello scoprire che sono solo il 19°. Sono pochi. Vengo dopo Magni, Martini, Ballerini e Bettini. La Toscana ha una grandissima tradizione, ma forse adesso siamo in ribasso, dato che quest’anno non ci passa neanche il Giro d’Italia (sorride con arguzia e garbo, ndr).
Cosa serve per avere la fiducia dei corridori?
Devi essere deciso, non farti vedere insicuro su decisioni e idee. Devi essere convinto di quel che vuoi raggiungere. Ho smesso da due anni, sarà utile.
Sai che cosa significhi essere un corridore oggi?
Me ne sto rendendo conto più ora che ho smesso, di prima che ero nel frullatore. Ho fatto due chiacchiere con Ganna. Ti rendi conto che la loro normalità per chi è fuori è bestiale. Io facevo solo strada, avevo il mio periodo di stacco. Forse però quest’anno Pippo si è reso conto che sarà meglio mollare qualcosa. E’ determinante programmare un obiettivo e prendersi dei periodi in cui staccare. Sennò fai tre anni e poi salti. Quanti esempi abbiamo avuto? Sono sempre a tutta…
Nella teca costruita dal cognato, Bennati custodisce la bici con cui vinse a Parigi nel 2007
Sul telaio della bici di Parigi al Tour 2007, oltre al nome un richiamo biblico alla Lettera di Paolo ai Filippesi
Che cosa c’è scritto? Ecco qua. Bennati non ha mai nascosto la sua fede
La vittoria ai Campi Elisi al Tour del 2007 resta quella per cui il toscano è ricordato più spesso
Nello studio di Daniele, sono conservate tutte le sue bici e le maglie. Qui le Canyon della Movistar
Nella teca costruita dal cognato, Bennati custodisce la bici con cui vinse a Parigi nel 2007
Sul telaio della bici di Parigi al Tour 2007, oltre al nome un richiamo biblico alla Lettera di Paolo ai Filippesi
Che cosa c’è scritto? Ecco qua. Bennati non ha mai nascosto la sua fede
La vittoria ai Campi Elisi al Tour del 2007 resta quella per cui il toscano è ricordato più spesso
Nello studio di Daniele, sono conservate tutte le sue bici e le maglie. Qui le Canyon della Movistar
Dovrai muoverti sulle punte, insomma…
Il mio ruolo non è organizzare ritiri, sono già abbastanza stressati. Avrò contatti telefonici e incontri alle gare. Rispetterò i programmi dei team, darò semmai qualche consiglio, ma senza interferire. Se Ganna farà il Tour, avrà un modo di preparare il mondiale. Sennò sceglierà un altro avvicinamento.
A cosa serve aver corso fino a poco tempo fa?
Influirà tanto. Tosatto e Pellizotti sono passati subito in ammiraglia e hanno un modo speciale nel parlare con i corridori. Io guiderò la squadra nelle gare del calendario italiano, arriverò al mondiale con 20 corse nel programma. Esserci stato fino a ieri è utile perché il ciclismo cambia tanto di anno in anno, dalle dinamiche di corsa agli impegni dei corridori.
Il nuovo ruolo rende meno penoso aver smesso per infortunio?
Avrei fatto un anno in più, riattaccato il numero dopo l’incidente. Avrei voluto una bella festa, che era già pronta con un circuito a Castiglion Fiorentino. Questo mi dispiace più di tutto, non aver salutato i tifosi, ma non è la fine del mondo. E poi mio babbo è contento. Quando smisi mi chiese: «E ora che faccio?». Gli ho dato un altro motivo per vedere le corse (ride, ndr).
Cipollini vinse a Zolder e Ballerini disse di aver visto la sera prima il film della corsa.
Quello di Zolder è un film che era facile da vedere prima. La grandezza di Franco fu aver visto il film di altri tre mondiali ben più difficili da decifrare. Per il poco tempo che c’è stato, ne ha vinti quattro. E’ il tecnico più vincente che abbiamo avuto.
In quei fogli davanti a Bennati, il lungo elenco di nomi suddivisi in base ai percorsi di europei e mondialiIn quei fogli davanti a lui, il lungo elenco di nomi suddivisi in base ai percorsi di europei e mondiali
Chi sarà il tuo Bennati in corsa?
Trentin hauna visione di corsa importante e sa anche vincere. E’ stato campione europeo ed è arrivato secondo al mondiale. E’ intelligente, sa mettersi a disposizione. E per come sono disegnati i prossimi percorsi, potrebbe anche essere leader. Come Paolini, che vinceva e aveva una visione eccezionale. Per essere regista in corsa, serve essere corridori di altissimo livello.
Martini metteva in guardia dalla tentazione di guardare indietro per spiegare il presente…
La qualità più sconvolgente di Alfredo era proprio quella. Uno che è stato pioniere, che ha corso con Coppi e Bartali e poi ha fatto il cittì, sebbene fosse molto anziano, non solo stava al passo coi tempi, ma era già nel futuro. Il ciclismo è così.
Così come?
Bisogna starci. Le regole sono sempre quelle. Poi subentrano dettagli come lo psicologo, il nutrizionista, il mental coach. Ma le basi sono sempre quelle e con i ritmi di oggi sono ancora più importanti. Se non le rispetti, non vai da nessuna parte.
Hanno lo stesso sguardo. Ballerini che si incammina verso il podio di Roubaix nel 1993 (foto di apertura), sconfitto al fotofinish da Duclos Lassalle, dopo aver creduto per mezz’ora di aver vinto. Fignon sul traguardo di Parigi dopo il Tour del 1989 perso per 8 secondi. Trentin sul podio dei mondiali di Harrogate, vinti da Pedersen in quell’indimenticabile volata a due. Che cosa succede nella mente di un atleta davanti a colpi così duri?
Di Trentin e del fatto che da quel giorno abbia problemi nei finali ristretti, abbiamo parlato nei giorni scorsi con il diretto interessato e con Paolo Bettini.
«Una volata brutta, fatta male – ha detto il toscano, campione olimpico ad Atene – ti rimane addosso. La superi facilmente se riesci a ricredere in te stesso e a rivincere. A volte ci vuole poco, a volte invece te la porti dietro. Di sicuro che quella volata lì, per il peso specifico che aveva, secondo me Matteo ce l’ha ancora addosso. Lui era già convinto di avere la maglia e abbiamo visto com’è andata a finire».
Roubaix 1993, Ballerini è convinto di aver vinto. La delusione sarà tremenda (foto di apertura)
Il colpo di reni è stato millimetrico. Il vincitore è Duclos Lassalle. Per la mente del Ballero un duro colpo
Roubaix 1993, Ballerini è convinto di aver vinto. La delusione sarà tremenda (foto di apertura)
Il colpo di reni è stato millimetrico. Il vincitore è Duclos Lassalle. Per la mente del Ballero un duro colpo
Un discorso complesso
Il discorso è profondo, richiede voci più qualificate. Ed è per questo che ci siamo rivolti di nuovo alla dottoressa Erika Giambarresi, Psicologa dello Sport, con la quale approfondimmo in tempi non sospetti l’approccio fra Evenepoel e la paura, dopo il terribile incidente al Lombardia 2020. Remco non era ancora rientrato alle corse e i fatti successivi dimostrarono che l’aspetto psicologico legato a un trauma è ben più profondo di quanto si pensi.
Come in questo caso. Che cosa resta nella mente di un atleta dopo una sconfitta inattesa e brutale? Una cosa è certa, si tratta di un trauma al pari di una caduta. In testa si può rompere qualcosa e capirlo non è sempre così facile.
«Sono casi delicati – spiega Erika – per i quali si lavora ovviamente sulla componente mentale, sulla gestione dell’errore. Bisogna fare in modo di lasciarselo alle spalle, perché non condizioni le prestazioni del giorno (qualora ad esempio si svolga durante una partita di calcio, ndr) e quelle future come nel nostro caso. C’è tanto da dire…».
Torniamo a parlare con Erika Giambarresi, Psicologa dello SportTorniamo a parlare con Erika Giambarresi, Psicologa dello Sport
E allora partiamo. L’errore che condiziona subito e anche nelle gare a venire. Come può reagire l’atleta?
Si lavora preventivamente. Si crea una routine molto specifica di reazione all’errore. E’ una sfera molto personale. Una strategia che l’atleta deve sentire sua, per adattarla al modo di reagire. Si uniscono le azioni alla parte mentale, andando a pescare pensieri funzionali positivi, tramite visualizzazioni molto brevi.
Visualizzazioni?
Una volta un atleta mi raccontò di sé e del fatto che dopo aver commesso un errore o subito una sconfitta, vedeva gli occhi della tigre e questa visualizzazione lo aiutava a ripartire. La visualizzazione è una delle chiavi.
In che modo?
Il cervello lavora al 70 per cento su immagini e parliamo davvero di tantissime immagini. Quello che si fa in caso di errori molto grandi che possono condizionare il futuro è lavorare sulle immagini prima dell’errore, poi non visualizzare l’errore, bensì la soluzione.
Una sorta di analisi del momento negativo?
Si può e si deve lavorare molto. L’errore in una gara molto importante influenza l’autoefficacia, che è diversa dall’autostima. Qui si parla della percezione di essere competenti rispetto a un compito specifico, nel caso di Trentin la volata, che di colpo viene messa in crisi: «Non sono più capace». Per questo dico che l’analisi tecnica dell’errore va fatta subito, approfittando di un occhio esterno. Non qualcuno che ti consoli, ma ti permetta di capire dove hai sbagliato. Se dopo un anno e mezzo le cose ancora non ingranano, allora ricorro certamente alla visualizzazione.
Parigi 1989, Fignon distrutto. Il terzo posto nella crono e il Tour che sfugge sono un colpo durissimo per la mente
Il podio di Parigi 1989 spegne di fatto la carriera di Laurent Fignon. E’ il 24 luglio, il Tour è di Lemond
Parigi 1989, Fignon distrutto. Il terzo posto nella crono è un colpo durissimo per la mente
Il podio di Parigi 1989 spegne di fatto la carriera di Laurent Fignon. E’ il 24 luglio, il Tour è di Lemond
Come si fa?
E’ importante che si lavori in ambiente protetto, quindi una seduta oppure a casa, per cercare e possibilmente trovare i possibili fattori che intervengono durante la prestazione. E’ importante farlo, altrimenti ogni volta l’atleta non saprebbe come gestire la stessa situazione che si ripresentasse.
Viene quasi da pensare che sia un meccanismo mentale da allenare…
E’ esattamente così. Avere una buona routine personale di reazione all’errore è il modo per alzare l’asticella, ma devi essere molto consapevole e lucido su ogni aspetto. Se l’atleta è molto motivato, permettetemi di usare per una volta il termine «cazzuto», ci riesce.
Che cosa significa che deve essere consapevole?
Il lavoro sulla consapevolezza è la base perché l’allenamento mentale di cui abbiamo parlato sia efficace. Se l’atleta non è consapevole di quello che sta accadendo nel suo inconscio, allora corre il rischio di allontanare la causa e di auto-sabotarsi, cercando spiegazioni diverse. Per lui plausibili, ma non veritiere. Come dice benissimo Bettini nel vostro articolo precedente.
Autoconsapevolezza, bel concetto…
E’ alla base. Si deve essere consapevoli che il problema potrebbe essere nella parte emotiva e non in quella tecnica o atletica. Le emozioni si possono mettere da parte e fingere che non ci siano, ma ti condizionano. Vedere i tuoi affetti in lacrime dopo che hai sbagliato un mondiale è difficile da gestire. E’ pesante. Il primo step perciò è concentrarsi e capire che cosa ci diciamo nel dialogo interiore. Noi ci parliamo in continuazione, ma siamo i soli a sapere in che modo.
Dopo l’arrivo di Harrogate, sull’arrivo Trentin incontra la moglie Claudia in lascrime
Sul podio di quel mondiale del 2019, Trentin è solo. Nel suo sguardo si percepisce il colpo ricevuto
Dopo l’arrivo di Harrogate, sull’arrivo Trentin incontra la moglie Claudia in lascrime
Sul podio di quel mondiale del 2019, Trentin è solo. Nel suo sguardo si percepisce il colpo ricevuto
In effetti l’atleta in quei momenti è solo, con un peso bestiale sulle spalle…
Ci sono le aspettative personali, che sono la motivazione principale. Le aspettative degli sponsor. Quelle dei media che poi scriveranno di te. Le attese dei fan. La famiglia. Sono cose che si fa fatica a capire, perché lo sport di vertice è un mondo a parte. Certo, si potrebbero vedere analogie con lo stress di un top manager d’azienda, spesso la psicologia del lavoro è parallela a quella dello sport. Il manager deve rendere conto di altrettante aspettative, ma in quei casi manca la componente ambientale, perché spesso il tutto si svolge in un ufficio, che è un ambiente più protetto. L’atleta è solo in mezzo alla strada, magari anche con pioggia e freddo. Per questo la sua psicologia è un mondo a parte.
Quindi non tutti gli psicologi riescono a fare questi ragionamenti?
Quelli con Master in Psicologia dello Sport studiano tutto questo. Gli altri, quelli che seguono la psicologia clinica, certi meccanismi non li approfondiscono e quindi non saprebbero come affrontarli e gestirli. L’atleta ha dentro un mondo, indagarlo è davvero molto interessante.
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