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Con Ballan, segreti e aneddoti delle Classiche del Nord

01.02.2023
7 min
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Al Centro Canottieri Olona c’è una saletta privata che Garmin ha utilizzato come ritrovo per i giornalisti e gli invitati all’evento di cui vi abbiamo raccontato. All’interno di questa saletta, seduto su un divanetto, c’è Alessandro Ballan. La discussione parte dai rulli che andremo a provare e il campione del mondo di Varese 2008 racconta l’evoluzione di questi sistemi. 

«Quando correvo io le Classiche del Nord – racconta Ballan – gli smart trainer non esistevano e ci si doveva allenare in ogni condizione atmosferica. Mi ero fatto fare artigianalmente dei rulli classici ma facevo una mezz’ora o quaranta minuti al massimo, senza lavori specifici. Avevo anche un “ciclomulino” con il quale riuscivo a fare potenziamento e qualche lavoro, ma mi mancava il controllo dei dati».

Con l’avvento dei nuovi sistemi di allenamento cambierà anche il metodo di preparazione alle Classiche del Nord
Con l’avvento dei nuovi sistemi di allenamento cambierà anche il metodo di preparazione alle Classiche del Nord

Le prime esperienze

Nell’intervista fatta con Filippo Ganna era emerso il tema dell’esperienza nelle Classiche del Nord. Approfittando della presenza di Ballan, affrontiamo il discorso anche con lui. Alessandro racconta proprio di quanto le sue esperienze lo abbiano aiutato ad emergere. 

«In questo genere di corse – dice Ballan – ce ne vuole proprio tanta di esperienza: conoscere i percorsi ed i punti cruciali è fondamentale. Sapere dove avverrà la selezione o il tratto nel quale un corridore potrebbe scattare. Se in quei frangenti ti fai trovare in trentesima posizione, non sei tagliato fuori, ma sprechi un casino di energie.

«Errori così li ho pagati tanto in tutte le gare del Nord, ma soprattutto alla Roubaix. Per me quella è stata una corsa sfortunata. Nelle prime tre edizioni che ho disputato sono caduto ben sei volte. All’inizio l’ho odiata, non mi piaceva, ma quando è arrivato il primo terzo posto (nel 2006, ndr) ho capito che poteva essere per me. Purtroppo ho avuto degli episodi durante la mia carriera che mi hanno impedito di correrla con continuità e non sono mai riuscito a trovare il ritmo. E’ vero anche che nel corso delle ultime stagioni abbiamo avuto delle “mosche bianche” come Colbrelli che alla prima edizione è riuscito a vincerla. Io questo non me lo spiego – dice con una risata – se guardo a quel risultato mi dico che è impossibile».

La vittoria all’esordio alla Roubaix di Colbrelli ha stupito in positivo Ballan
La vittoria all’esordio alla Roubaix di Colbrelli ha stupito in positivo Ballan

Tanti fenomeni

I fenomeni, o comunque grandi campioni, che hanno ottenuto risultati importanti alla prima partecipazione nelle Classiche del Nord, esistono. Basti pensare a Pogacar, lo sloveno l’anno scorso ha fatto il diavolo a quattro e per poco non vinceva il Giro delle Fiandre.

«Sono corridori, in particolare Sonny – parla Ballan – che arrivano con una grande condizione. Anche se, devo essere sincero, se fossi arrivato alla mia prima Roubaix con la condizione di Varese 2008 non avrei mai pensato di poter vincere.

«Sono gare che necessitano di conoscenza del percorso e di fortuna. Perché non è solo un punto ma sono tanti, devi essere sempre concentrato. Fare le gare prima ti aiuta a conoscere il percorso. Il Fiandre  va a riprendere i percorsi dell’ E3 Harelbeke, di De Panne, di Waregem (ora Dwars Door Vlaanderen, ndr). Si prendono i muri da altri lati ma fare quelle gare aiuta molto. Aiuta a conoscere gli avversari, a capire chi sta bene. Puoi studiarli».

I punti di riferimento

Quando le strade sulle quali corri sono larghe due metri e una curva fatta dalla parte sbagliata ti potrebbe tagliare fuori dalla lotta per la vittoria, allora devi trovare dei punti di riferimento.

«Quelli sono importantissimi – precisa l’ex campione del mondo – sapere dove sei aiuta. Sul manubrio hai la lista dei muri e quando leggi un nome hai un riferimento. Per esempio sai che alla fine di quel muro ci sarà la stazione del treno».

«Le differenze tra Fiandre e Roubaix non sono poi così ampie. Dovete pensare ai tratti di pavé della Roubaix come a dei muri. Arrivi lanciato, cali di velocità ed esci dal settore che vai davvero piano. Se sei bravo riesci a “galleggiare” sulle pietre e a non perdere velocità.

«I tratti più difficili della Roubaix sono la Foresta di Arenberg e il Carrefour de l’Arbre. La foresta è dritta ma sale, anche solo dell’uno o due per cento ma si sente e lì per non “piantarti” devi essere forte. Il secondo, invece, ha delle curve che sono micidiali. E per non cadere devi saper guidare la bici benissimo».

L’occhio attento di Lefevere è in grado di capire quali atleti che possono vincere la Roubaix da come affrontano il pavé (foto Sigrid Eggers)
L’occhio attento di Lefevere è in grado di capire quali atleti che possono vincere la Roubaix da come affrontano il pavé (foto Sigrid Eggers)

Il regno dei belgi

Le Fiandre sono il regno dei corridori belgi. Loro che nascono e crescono su queste strade ne hanno una conoscenza ineguagliabile. E’ difficile competere con corridori del genere, soprattutto se mettono in campo anche l’astuzia.

«Sull’Oude Kwaremont – spiega ancora Alessandro – i corridori della Lotto e della Quick Step mettevano in atto il loro piano. Ai piedi del muro le indicazioni che i corridori hanno alla radiolina sono uguali per tutti: stare davanti. Così ti trovi duecento corridori che fanno la volata per arrivare davanti alla curva prima del muro. Poi normalmente i cinque o sei corridori davanti abbassavano la velocità (quelli della Lotto e della Quick Step, ndr) e una volta che si saliva sul pavé rallentavano ancora di più. Quando gli ultimi mettevano giù il piede per la velocità troppo bassa partivano a tutta, così dietro erano costretti a fare uno sforzo disumano per stare al passo». 

Ballan ha vinto il Giro delle Fiandre nel 2007, battendo Hoste in una volata a due
Ballan ha vinto il Giro delle Fiandre nel 2007, battendo Hoste in una volata a due

La capacità di guida

Questo particolare, che proprio di particolare non si tratta, non va sottovalutato. La capacità di guidare la bici è fondamentale per emergere dai tratti difficili e dalle situazioni che si vengono a creare

«Mi viene in mente Dario Pieri – dice Ballan – lui aveva una capacità di guidare sul pavé incredibile. Come lui ne ho visti pochi: Franco Ballerini, Tafi, Museeuw, Boonen. Sono corridori che riuscivano a galleggiare.

«C’è un’aneddoto su Lefevere, ai tempi di quando correvo io. Ad ogni Roubaix si metteva sul terzo tratto di pavé e guardava i primi quaranta corridori uscire. A seconda del movimento delle spalle e delle braccia riusciva a capire quali erano corridori che stavano bene e che fossero in grado di fare la differenza nel finale. Questo per far capire che è uno stile».

«Un altro dettaglio: ho sempre visto che chi arriva da altre discipline, che sia pista, BMX, ciclocross o mtb, ha un’altra capacità di guidare la bici. Quando c’è una caduta riescono a gestire la bici in maniera diversa rispetto a chi, come il sottoscritto, ha solo corso su strada. Hanno coraggio ed una dimestichezza diversa, Van Der Poel e Van Aert sono un esempio».

Ballan Varese 2008
L’anno successivo a Varese vinse il mondiale, è l’ultimo italiano ad aver indossato la maglia iridata
Ballan Varese 2008
L’anno successivo a Varese vinse il mondiale, è l’ultimo italiano ad aver indossato la maglia iridata

Quanto conta la mente

In corse del genere la testa fa tanto la differenza, la mente gioca un ruolo chiave tra la vittoria e la sconfitta. 

«E’ vero – afferma Ballan – quando alle prime partecipazioni prendi le batoste non devi arrenderti. Questa è già una prima selezione, ci sono corridori che dopo la prima Roubaix o il primo Fiandre, gettano la spugna. Io ho fatto l’ultima parte della mia carriera coinvolto nell’indagine (Lampre, ndr) che mi ha tenuto in ballo per sei anni. Da dopo Varese mentalmente parlando non ero libero, il mio pensiero era costantemente occupato da tribunale, avvocato… Non ho potuto fare gli ultimi anni della mia carriera come avrei voluto, Ballan c’era ma non era a posto con la testa».

«Dopo essere stato assolto, feci una dichiarazione nella quale dissi: “Mi basterebbe avere indietro le ore di sonno che ho perso in questi sei anni”. Io capisco Pantani, perché mi sono trovato nella stessa situazione. Per fortuna ero già sposato, avevo le bambine e dei punti fissi sui quali andare avanti. Se in quel momento avessi trovato una qualsiasi cosa che non mi avesse fatto pensare ai miei problemi l’avrei presa. La mia famiglia mi ha salvato».

Tafi a Ballerini: la Roubaix si vince così…

13.01.2023
6 min
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«E’ arrivata l’ora di puntare veramente in alto. Sembra difficile da dire, ma il mio sogno è uno e resterà sempre quello: la Roubaix. Cercherò di provarci fino in fondo, anche se bisogna che i satelliti si allineino nel punto giusto e al momento giusto. Però finché non ci credi, di sicuro non si avvererà mai nulla».

Con questo destino scritto nel nome, Davide Ballerini ha iniziato la settima stagione fra i professionisti. E come accade ogni volta che ci soffermiamo sullo strano incrocio, il ricordo di Franco torna a galla. Questa volta abbiamo bussato alla porta di Tafi, amico e anche rivale.

Ottobre 2022, Davide Ballerini ha appena vinto la Coppa Bernocchi e festeggia con Alaphilippe
Ottobre 2022, Davide Ballerini ha appena vinto la Coppa Bernocchi e festeggia con Alaphilippe

Il San Baronto nel mezzo

I due vivevano sulle pendici opposte del San Baronto: Casalguidi per Franco, Lamporecchio per Andrea. Quel monte è un confine naturale, con i campanilismi ciclistici contrapposti capaci di scatenare vere e proprie contese. Gli ultimi alfieri sono stati forse Visconti e Nibali, ma questa è un’altra storia.

Ballerini e Tafi furono compagni di squadra alla Mapei, in tante campagne del Nord e anche nelle due Roubaix vinte dal Ballero. Nel 1995, Tafi chiuse in 14ª posizione. Nel 1998 fu secondo, mentre terzo si piazzò Peeters, anche lui della Mapei e oggi direttore sportivo di Ballerini (foto di apertura).

Quando poi Ballerini lasciò la Mapei, fu la volta di Tafi che nel 1999 vinse la Roubaix. Mentre nel 2002, l’anno dopo il ritiro di Franco, vinse il Fiandre.

I due hanno trascorso la carriera insieme. Qui al Grand Prix Breitling del 1998, cronocoppie in Germania
I due hanno trascorso la carriera insieme. Qui al Grand Prix Breitling del 1998, cronocoppie in Germania
Tafi dà consigli a Ballerini su come vincere la Roubaix… Non ti sembra un po’ strano?

Abbastanza (ridacchia, ndr). Però fa tornare un po’ indietro negli anni, quando era Franco che dava consigli a me. E’ un modo strano per ricordare un grandissimo amico, con cui davvero ho condiviso periodi indimenticabili, in cui ci osservavamo l’un l’altro per capire come stessimo lavorando.

Perché la Roubaix, come forse solo la Sanremo, si attacca così tanto al cuore di certi corridori?

La Roubaix è la corsa di un giorno più bella e più impegnativa al mondo. Con tutto quello che si può dire sui sassi e il fatto che è fuori dal tempo, è la più bella. Anche Bettiol quest’anno vuole puntarci. Ha corso su quelle strade al Tour ed è tornato innamorato. Non è per tutti, servono attitudine, motivazione e voglia. Però poi è la corsa che ti può dare il timbro di campione. Se vinci la Roubaix o il Fiandre entri a far parte di un circolo piuttosto esclusivo.

Aprile 1999, da solo con la maglia tricolore: arriva la vittoria con una vera impresa
Aprile 1999, da solo con la maglia tricolore: arriva la vittoria con una vera impresa
Ballerini ha 28 anni, quanta esperienza serve per poterla vincere?

Fino allo scorso anno, avrei risposto in un modo. Poi però è arrivato Sonny Colbrelli che l’ha vinta al primo tentativo. Il ciclismo è cambiato moltissimo, sembra che gli anni passati dai miei tempi siano pochi, ma sono venti ed è cambiato il mondo. Noi parlavamo di esperienze da fare, oggi arrivano e sono subito pronti. Poi magari non dureranno allo stesso modo, ma io ho vinto il primo Monumento a 30 anni, il Lombardia. Evenepoel ha vinto la Liegi a 22, poi anche la Vuelta e il mondiale. Magari a 30 anni avrà già detto tutto, chi lo sa?! Per questo credo che anche Ballerini ormai sia pronto per puntare in alto.

Come te e Franco, avrà una bella concorrenza interna, che non è banale…

Non è affatto banale. La Mapei di allora che poi diventò Quick Step ha avuto dall’inizio la forte impronta per le classiche e grandi campioni per vincerle. Però a volte la concorrenza è meglio averla in casa che fuori, perché sai quale tattica faranno quei tuoi compagni così forti, che poi in corsa potrebbero diventare avversari.

La Roubaix del 1995, la prima di Ballerini. La seconda arriverà nel 1998 (foto di apertura)
La Roubaix del 1995, la prima di Ballerini. La seconda arriverà nel 1998 (foto di apertura)
Come si fa a essere corretti e anticipare gli altri?

La prima cosa che dovrà fare Ballerini sarà farsi trovare pronto. E poi serve programmazione, la Roubaix non si improvvisa in 15 giorni. Devi prepararla e analizzarla con tutta la squadra.

Ci ha raccontato che l’anno scorso ha bucato due volte nella Foresta: la fortuna è così predominante?

La fortuna incide con una percentuale molto alta, ma alcune volte dipende dalle situazioni. Dal meteo, perché se c’è acqua non vedi bene le buche. Si fora perché magari prendi la traiettoria sbagliata e impatti male con le pietre, ma a volte sei costretto a farlo. Quando sei in gruppo, come nell’Arenberg, non hai troppa libertà di cambiare direzione. Certo due forature nella Foresta magari dicono anche altro.

Ballerini, doppia foratura nella Foresta di Arenberg e addio Roubaix. Il gruppo si allontana…
Doppia foratura nella Foresta di Arenberg e addio Roubaix. Il gruppo si allontana…
Ad esempio?

La prima può succedere per quello che ci siamo detti. La seconda potrebbe dipendere da errori dati dal nervosismo e dall’ansia di recuperare. Se buchi due volte lì dentro, sei spacciato.

Un italiano in un team belga ha gli stessi spazi?

E’ chiaro che a parità di valore, la squadra potrebbe preferire il corridore belga. Però Lefevere è un grande professionista e sa quello che deve fare: chi ha la condizione migliore ha un occhio di riguardo e la protezione di quel gruppo così forte.

Si parlava di amore per la Roubaix e proprio tu nel 2018 hai provato a correrla di nuovo 13 anni dopo il ritiro. Perché?

Nel profondo c’era il richiamo della Roubaix. Insieme era anche il modo di fare capire quanto sia cambiato il ciclismo, a partire dalle bici. Proprio le forature rispetto a una volta sono un’altra cosa. Adesso per un po’ puoi continuare, prima ti fermavi sul ciglio e aspettavi l’ammiraglia. Se era fra le prime, forse ti salvavi, altrimenti addio. Sarebbe stato bello far vedere che la fine della carriera non è la fine del ciclismo, ma si può continuare a praticarlo stando bene fino ai 50 anni e anche oltre. E lo avrei dimostrato nella corsa che ho più amato.

Si va avanti ancora a lungo, ne faremo un altro articolo: promesso. Si parla intanto del Borghetto Andrea Tafi che si è ripreso dopo le chiusure per la pandemia. Delle tre ore in bici fatte ieri all’ora di pranzo, quando c’è più caldo. Di Bettiol, cui darà altrettanti consigli e anche qualcosa di più, essendo il compagno di sua figlia Greta. E di sicurezza stradale. I campioni di prima avevano il gusto di approfondire e raramente i loro addetti stampa usavano la clessidra.

Arenberg 2022

Tre settori e le loro pietre: tutta l’epica della Parigi-Roubaix

17.04.2022
5 min
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La classica più dura, difficile da interpretare, più eroica nella storia del ciclismo. La Parigi-Roubaix è qualcosa a parte, forse un ultimo retaggio del ciclismo degli albori. Per quanto il progresso vada avanti, per quanto le bici cambino e si evolvano, quando si pedala su quelle pietre sconnesse, che gli organizzatori cercano con pazienza certosina e le amministrazioni locali preservano come un monumento nazionale, si torna all’antico.

L’edizione di quest’anno avrà all’interno dei suoi 256 chilometri ben 30 settori di pavé, per un totale di 53,8 chilometri. I settori sono indicati da una a cinque stelle in base alla loro difficoltà: solo tre di questi hanno il massimo degli indicatori. E proprio in questi tratti la Roubaix ha vissuto alcuni dei momenti più epici. Raccontarli significa rivivere non solo attimi della storia di una corsa indimenticabile, ma anche quasi sentire sotto i piedi quelle pietre ormai famose in tutto il mondo.

Roubaix Arenberg 2021
La lunga fila di corridori nella foresta di Arenberg, tratto di 2,3 chilometri
Roubaix Arenberg 2021
La lunga fila di corridori nella foresta di Arenberg, tratto di 2,3 chilometri

L’Arenberg e Stablinski

La Foresta di Arenberg ha fatto il suo ingresso sul percorso della Roubaix relativamente tardi, nel 1968. “Responsabile” fu Jean Stablinski, storico gregario di Anquetil, ma anche vincitore di una Vuelta nel 1958 e soprattutto uno dei più inattesi campioni del mondo, nel 1962. Quel tratto di pavé lo conosceva bene, conosceva tutta la zona, lì suo padre polacco si era trasferito lì con la famiglia per cercare lavoro, finendo a sgobbare in miniera. Su quelle strade Stablinski aveva iniziato a correre in bici, facendone il suo lavoro, ma mai la sua passione perché, come disse una volta a Poulidor, «un minatore non deve amare il suo piccone, così io non devo amare la bici».

Jacques Goddet, organizzatore della gara, sapendo della sua storia gli chiese di qualche nuovo tratto di pavé nella sua zona da inserire in corsa: «Non osavo presentarglielo – racconterà in seguito Stablinski – sapevo come sarebbe andata a finire…». Quando fece vedere le foto a Goddet, questi rimase senza fiato: «Avevo chiesto ciottoli, non buche…» disse quasi risentito.

Il primo anno, Stablinski c’era, con la gente vestita da minatore per salutare l’eroe di casa. A lato del pavé, c’è una porzione morbida, ma gli organizzatori l’hanno impedita al transito delle bici, sennò che gara è?

Roubaix Boonen 2008
Il trionfo di Boonen a Roubaix nel 2008, su Cancellara e Ballan
Roubaix Boonen 2008
Il trionfo di Boonen a Roubaix nel 2008, su Cancellara e Ballan

Mons en Pevele, battaglia!

Il tratto di Mons-en-Pevele è considerato fra i più duri, con i suoi 3.000 metri e la distanza di una cinquantina di chilometri dall’arrivo. Quel tratto Tom Boonen lo conosce bene, perché fu decisivo nel 2008. Davanti erano tutti i migliori, lui lanciò all’attacco Stijn Devolder, reduce dal trionfo al Giro delle Fiandre, al quale si accodò l’australiano Stuart O’Grady.

Si ha un bel dire che la Roubaix è una corsa individuale, quel giorno Boonen giocò come un consumato scacchista. Devolder non poteva essere lasciato andare, così il suo rivale Leif Hoste fu costretto a sacrificare nell’inseguimento Vansummeren, ma quando più avanti, a 35 chilometri dall’arrivo, Boonen portò il suo attacco con Cancellara, solo Ballan rispose, Hoste andò alla deriva. I tre accumularono un vantaggio enorme, oltre 3 minuti, poi Boonen dispose allo sprint dell’elvetico e dell’italiano.

Non è lo stesso tratto, ma Mons en Pevele è sempre stato un luogo storico per la Roubaix. Forse perché sin dal Medio Evo era terreno di scontro tra francesi e belgi, nel 1304 fu teatro di una famosa battaglia. Ciclisticamente non meno famosa è stata quella del 1955: Jean Forestier con la sua offensiva disperde “l’armata belga” con Impanis, Planckaert, Schotte, Scodeller, Derycke, Van Steenbergen, non ne resta più nessuno. Alla vigilia, chi era del posto aveva detto a Jean e ai suoi: «Quando vedete la chiesa di Mons, in lontananza sul colle, andate all’attacco». Forestier vincerà con soli 15” su un terzetto, regolati allo sprint da Fausto Coppi.

Demol Roubaix
Dirk Demol, belga vincitore della Parigi-Roubaix nel 1988
Demol Roubaix
Dirk Demol, belga vincitore della Parigi-Roubaix nel 1988

Dove la Roubaix non si vince più…

Facciamo un salto, 1998: a raccontare quel che succede è Thierry Gouvenou, allora finito 7° e oggi direttore di corsa della Roubaix.

«Ero in testa al gruppo all’imbocco del tratto di Mons. Dietro era Timo Steels, uno dei favoriti: all’improvviso lo sento sterzare, mi volto e lo vedo scivolare e come lui altri, cadono uno sull’altro. Poi vedo Franco Ballerini, si piega sul manubrio, è come se cambiasse marcia, non mi passa, vola via…».

«E’ un luogo mitico – racconta Dirk Demol, vincitore nel 1988 – senti spesso il vento laterale, la strada è in leggera salita e soprattutto non riesci a vederne la fine, è interminabile. Non sempre decide chi vince, ma stabilisce immancabilmente chi quella Roubaix non la vincerà».

Madiot Roubaix
Marc Madiot, oggi manager della Groupama FDJ, vincitore della Roubaix nell’85 e ’91
Madiot Roubaix
Marc Madiot, oggi manager della Groupama FDJ, vincitore della Roubaix nell’85 e ’91

L’Arbre e il ristorante…

Il tratto del Carrefour de l’Arbre è entrato nella Roubaix nel 1958. Anquetil maledisse a lungo quel pezzo di strada, vittima di una foratura vide svanire quell’anno le sue speranze di vincere. Il nome deriva dal ristorante posto ai margini del lastricato: per molto tempo fu aperto solo il giorno della Roubaix. Ora è aperto sempre, al suo interno ha un affresco con raffigurati molti dei corridori vincitori.

Marc Madiot, due volte vincitore della corsa, qui è diventato talmente famoso da essere ritenuto quasi una gloria locale. A chi gli chiede che cosa serve per vincere la Parigi-Roubaix, ti risponderà che tutto è soprattutto nella testa: «E’ una gara che devi metterti nel cervello. Se non sei preparato psicologicamente per questo, non farai nulla in questa prova». Poi però ci sono le gambe…

E’ stato ascoltando anche le sue gambe che Madiot ha costruito i suoi due successi su questo tratto: «Mi sono ritrovato a giocarmi la vittoria quattro volte alla Parigi-Roubaix proprio in prossimità del Carrefour de l’Arbre ed è lì che sapevo di avere le gambe giuste, o al contrario che era finita per non averle. Qui è inutile stare tanto a guardare i watt – riprende Madiot – si combatte con la baionetta, con il coltello, si fa da uomo a uomo! Questa gara non si corre sul computer…».

Franco e Sabrina, dodici anni dopo, un tuffo nel cuore

06.02.2022
5 min
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«Oggi Franco per noi è com’era nel 2010 – sussurra Sabrina – diverso da com’è stato per i primi 2-3 anni dopo che è morto. Allora c’erano adrenalina e mille cose da fare, fra indagini e assicurazioni. I figli facevano sport per non pensare. Adesso finalmente in casa se ne può parlare, non è più un tabù…».

Matteo e Gianmarco Ballerini, gli splendidi figli di Sabrina e Franco (foto Facebook)
Matteo e Gianmarco Ballerini, gli splendidi figli di Sabrina e Franco (foto Facebook)

I due ragazzi

Il 7 febbraio del 2010, domani di dodici anni fa, ma come oggi di domenica. Ciascuno di noi ricorda esattamente dove fosse e cosa stesse facendo quando si diffuse la notizia che Franco Ballerini fosse morto. Un dolore difficile da descrivere, un finale impossibile da prevedere. Nella grande casa sulla collina il dolore impastò le storie di una vita, sotterrando tutto. Però il mondo cambia. I social ti portano in casa foto e ritratti di bambini diventati uomini e poi a loro volta genitori. Gianmarco e Matteo, il più grande e il secondo. E così oggi Sabrina Ricasoli, la moglie del Ballero, è nonna. E i suoi ragazzi sono le due meraviglie che Franco non perdeva occasione di mostrare nel suo telefono.

«Matteo – racconta – per tanto tempo non ha voluto parlare di ciò che nella sua vita è stato brutto. L’operazione e la morte di Franco. Non ne parlava e nemmeno chiedeva. A scuola si fece mandare dal preside, perché in una giustificazione c’era da mettere la firma del padre e lui non voleva dire che il suo babbo fosse morto. Gli somiglia tanto nelle movenze, come accavalla le gambe. Gianmarco invece ha le sue espressioni…».

Ti darei gli occhi miei

Stai parlando dei ragazzi, Sabrina, ma tu? Ascolta. Resta in silenzio. Il profumo del ricordo, cantava Guccini, cambia in meglio. E così a distanza di così tanto tempo quel che resta è la nostalgia: «Ti darei gli occhi miei – ha scritto giorni fa Sabrina su Facebook – per vedere ciò che non vedi, l’energia e l’allegria per strapparti ancora sorrisi».

«Mi rispecchio nei miei figli – dice – ho messo da parte la Sabrina, perché ho subito pensato di doverli proteggere. Non ho più avuto un compagno, ma ora che li vedo sereni, sono serena anche io. A volte penso a come sarebbe stato Franco come nonno e mi viene da ridere. Era vanitoso per quello cui teneva. Avrebbe mostrato di sicuro a tutto il mondo le foto di suo nipote, come mostrava quelle dei suoi figli o della moto».

Ma Scinto c’è

Il resto si è allontanato. Storie già viste, niente di cui meravigliarsi. Solo pochi sono rimasti, Scinto però c’è sempre stato.

«Il ciclismo è sparito velocemente – conferma – al di là di Luca non c’è più nessuno, se non il Team Franco Ballerini. Con lo Scinto siamo sempre stati amici al di là del ciclismo. Quando Matteo si è fatto male al ginocchio, lo ha portato lui dall’ortopedico. E poi continuo a sentire le mogli dei corridori toscani. La moglie di Tafi e la ex di Cipollini. Ho un bel rapporto con Michele e Alessandra Bartoli. E adesso che faranno l’apertura di stagione degli juniores con una gara intitolata a lui, andrò a vederla».

Cristian è figlio di Gianmarco, il nipote di Franco Ballerini (foto Facebook)
Cristian è figlio di Gianmarco, il nipote di Franco Ballerini (foto Facebook)

La moto e la pietra

E Franco, secondo te… che cosa si è perso Franco? S’è perso un mondo, pensiamo mentre Sabrina riflette. Non si può morire a quel modo a 46 anni, aveva ancora tante cose da fare.

«Si è perso i nipoti – dice – e non mi sembra poco. Si è perso la crescita dei figli, che ha lasciato bimbi e ora sono due uomini. Matteo non frequenta nessuno in paese, lavora fuori. Per cui quando va al supermercato, la gente resta senza parole per quanto gli somiglia e quanto è cresciuto. In garage c’è ancora la moto. A Gianmarco non piace, Matteo dice che è sua. E io gli ho detto che se non paga i bolli, la vendo. Non è più stata accesa, ma lui dice che non la vuole vendere. Che prima vuole farci un giro e che se poi non gli piace, allora se ne parlerà. Ma quel momento lo rimanda sempre.

«In casa c’è ancora tutto di Franco. La mattonella murata con la foto dell’ultima Roubaix, con lui che saluta nel velodromo. La pietra. La maglia. Lo studio con le foto. A me non serve andare ogni giorno al cimitero. Se voglio parlare ad alta voce con Franco e non essere presa per matta, non serve che esca. Ho quella mattonella…».

Ride. Le foto la ritraggono simpaticamente matta come sempre, ma nel fondo della voce quella luce non s’è riaccesa e Dio solo sa se tornerà a brillare. Che sia benedetta la vita. E forse guardando i suoi ragazzi, Sabrina avrà la forza di benedirla davvero. Anche se la verità, al di là di quello che vorresti e che sogni ogni notte, è che non puoi farci proprio niente.

Mugnaini 2018

La storia del Re Leone attraverso le mani di Mugnaini

05.02.2022
5 min
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Ci sono due vite ciclistiche ben distinte, unite nella figura di Gabriele Mugnaini. La prima è quella di ciclista professionista, durata solo 6 stagioni dal 1973 al ’78, i primi 3 alla Filotex, gli altri alla Vibor, correndo al servizio di campioni come Bitossi, Zilioli, Moser e Visentini. Mugnaini era il classico gregario, sempre pronto a sacrificarsi per i suoi capitani, ma capace anche di qualche exploit come il secondo posto nel GP Industria e Artigianato nel 1977.

La seconda è quella da fisioterapista, con mani divenute nel tempo preziose, forti e delicate al tempo stesso, capaci quasi di parlare ai muscoli dei campioni massaggiati. Uno per tutti, Mario Cipollini, con il quale ha condiviso tante stagioni e soprattutto stati d’animo susseguenti a vittorie e sconfitte. Oggi Mugnaini, che l’11 febbraio compirà 72 anni, è in pensione ma spesso viene richiamato per la sua esperienza, ad esempio all’Eroica dove tutti vogliono attraverso un massaggio da esperto sentire anche i suoi racconti del bel tempo che fu.

Mugnaini Filotex 1975
Mugnaini ha militato per 6 anni fra i pro’, i primi 3 alla Filotex. E’ nato l’11 febbraio 1950
Mugnaini Filotex 1975
Mugnaini ha militato per 6 anni fra i pro’, i primi 3 alla Filotex. E’ nato l’11 febbraio 1950

Il lungo massaggio a De Vlaeminck

La sua storia di massaggiatore iniziò grazie all’interessamento di un corridore che sapeva di questa sua passione e gli suggerì di farne un lavoro: Bruno Vicino, il campione del mondo degli stayer. «A quei tempi i soldi per chi correva erano pochi – ricorda l’aretino di Montemignaio – per me era una svolta per la mia vita e sarei anche rimasto in quell’ambiente. Sapete chi fu il primo a capitare sotto le mie mani? Un certo Roger De Vlaeminck, alla Gis. Ero così emozionato, quello che lo massaggiava abitualmente non poteva. Ricordo che ci misi 18 minuti per una gamba e 13 per l’altra, un’eternità… Lui alla fine sorridendo mi disse: «La prossima volta ti compro una sveglia…”».

La sua storia di massaggiatore è legata a doppio filo a quella del Re Leone: «Con Cipollini abbiamo cominciato alla Del Tongo. Era ancora molto giovane, in quella squadra incentrata su Saronni, anche lui curato da me, ma saltuariamente. Ricordo una volta in Puglia, aveva dovuto tirare la volata a Lecchi, mentre lo massaggiavo mi disse serio: “Tra un anno li mangio tutti…”. Sapeva bene quel che voleva…».

La sicurezza di Cipollini

Tutti nell’ambiente dicono che Cipollini avesse un carattere difficile, davanti ai suoi occhi Mugnaini ne ha viste di tutti i colori: «Dicevano che era un montato, invece era semplicemente uno concentrato sul suo lavoro a livelli estremi. Poi sì, il carattere era fumantino, è chiaro. Quando le cose andavano bene si scherzava anche durante il massaggio, al contrario era inavvicinabile, scontroso e si doveva fare silenzio. Bisognava starci insieme 10 mesi l’anno per conoscerlo, ma avevamo il nostro equilibrio, sapevo quando e come prenderlo».

Al di là degli episodi, Mugnaini ha un’idea precisa su Cipollini: «Era un precursore rispetto al ciclismo di oggi. A dicembre si partiva per il Sud Africa, erano in programma 10 giorni ma se le cose andavano bene si restava molto di più. Avevamo un ristorante di riferimento, italiano, dove lo conoscevano bene e in quei giorni era davvero una compagnia piacevole. Ma quando si cominciava ad avvicinare l’obiettivo, era il massimo della concentrazione. E questo suo spirito è stato d’insegnamento a tanti: alla Saeco tutti erano mentalmente indirizzati verso l’obiettivo, non si sgarrava».

Mugnaini rifornimento
Negli anni Mugnaini è sempre rimasto nell’ambiente, prodigandosi al di là del lavoro di fisioterapista
Mugnaini rifornimento
Negli anni Mugnaini è sempre rimasto nell’ambiente, prodigandosi al di là del lavoro di fisioterapista

Mugnaini, psicologo al bisogno…

Il massaggio del dopo gara, al di là del puro aspetto fattuale, era una sorta di “camera caritatis”: «Il massaggio durava anche più di un’ora, nella quale Mario si sfogava su tutto quel che era avvenuto. Io lo lasciavo parlare, era quello di cui aveva bisogno. Poi come detto c’erano le volte che non aveva voglia di dire nulla e altre che scherzava».

Qual è stata allora la volta che si è più arrabbiato? «Eh, non dimenticherò mai il giorno della Gand-Wevelgem del ’94. Va via una fuga importante con dentro anche Franco Ballerini, ma grazie al lavoro della squadra i corridori vengono ripresi a 3 chilometri dal traguardo. Invece di preparare la volata a Mario, Franco riparte con Wilfried Peeters, arrivano in due e perde. Cipo voleva la terza vittoria consecutiva, era furioso: arrivati al camper ci dice a tutti di scendere e si chiudono dentro loro due, le urla si sentivano per tutta la città…».

Cipollini Sanremo 2002
Dopo tante delusioni, finalmente Cipollini centra la Sanremo nel 2002 (foto Ansa)
Cipollini Sanremo 2002
Dopo tante delusioni, finalmente Cipollini centra la Sanremo nel 2002 (foto Ansa)

Il giorno più bello

Ci sono però stati anche momenti speciali: «La Sanremo del 2002, mai visto così contento. Quella era diventata una vera ossessione, partiva tante volte come favorito ma non riusciva mai a centrare l’obiettivo. Era al settimo cielo. E poi il mondiale: io c’ero, sin dal ritiro premondiale di Salsomaggiore. In squadra erano tutti concentrati, ma sotto sotto si temeva che Petacchi avrebbe fatto il doppio gioco, invece fu fantastico».

I rapporti con il tempo si sono diradati, ma non manca anno che non ci si veda: «Carube il meccanico suo e mio amico organizza una corsa a Lucca, non manchiamo mai ed è sempre bello ritrovarsi » . Come sarebbe allora Cipollini in carovana oggi? « Sarebbe ancora un innovatore, la preparazione era un chiodo fisso. Magari si scontrerebbe con chi fa cose che a suo modo di vedere non sono giuste, ma sarebbe un preparatore ideale, con tanto da trasmettere. Purtroppo con il suo carattere non si è fatto tanti amici…».

Un paio d’ore con Daniele, parlando di Bennati

27.11.2021
8 min
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La casa di Bennati è in una via senza uscita ai piedi dell’Alpe di Poti, che lanciò Brambilla verso Arezzo al Giro del 2016. I dintorni sono verdi e placidi, in una giornata di sole che invita a stare fuori. Francesco fa la terza media ed è tornato un po’ tardi da scuola, per cui Chiara è ancora dentro che sistema e dispensa battute con il suo spettacolare accento toscano. Daniele ha il sorriso dei giorni belli, offre il caffè, tiene a bada i cagnolini e racconta. Saremo probabilmente condizionati dal ricordo, ma in certi momenti è come parlare con Ballerini. Stile che somiglia, la battuta sorniona a bassa voce e lo sguardo fisso.

In queste settimane c’è la coda per venirlo a trovare e farsi svelare in anteprima cose che non può ancora dire. L’elenco dei nomi cui sta lavorando è lungo e ce lo fa vedere, ma non avrebbe neanche senso parlarne se prima la stagione non sarà cominciata. Ci mostra invece un regalo senza prezzo ricevuto da parte delle figlie di Martini. E’ la stilografica del grande Alfredo (foto di apertura). Restiamo per un attimo in silenzio: davanti a una storia così grande che si tramanda non servono parole.

Siamo qui per Daniele

Siamo qui per Daniele, prima ancora che per Bennati. Dopo averlo seguito sin da junior, la curiosità è sapere di lui. Di quello che i chilometri e la strada hanno costruito. Anche per capire cosa potremo aspettarci quando sarà chiamato a guidare gli azzurri sulle strade del mondo.

«Ho sempre creduto in quello che facevo – dice – e che volevo fare. Essere un ciclista professionista. Mio babbo era tifoso di Argentin e ho in testa la Sanremo del 1992 in cui Moreno fu battuto da Kelly. Ho in testa Bugno, Pantani e Cipollini. Ci ho sempre creduto e il merito della mia famiglia è stato di non aver mai influito sulle mie scelte. L’altro giorno mi hanno dato un premio a Castiglion Fiorentino e a sorpresa hanno invitato Marcello Massini e Lido Francini, i miei tecnici nei dilettanti e negli allievi. La fortuna della mia carriera è stata proprio aver incontrato persone intelligenti e capaci. Non è così scontato che accada».

Si impara da tutti.

Massini ci diceva che prima di saper vincere, bisognava aiutare gli altri a farlo. Io tiravo le volate a Crescenzo D’Amore e Branchi e arrivavo subito dietro. E’ stato un insegnamento che mi sono portato dietro e mi permise di passare professionista.

Racconta.

Mauro Battaglini aveva capito che sarei stato importante per Cipollini e così a Cerreto Guidi nel 2001, dopo la gara del martedì, firmai con Santoni, alla Domina Vacanze. Non era scontato che riuscissi a inserirmi in quel treno. Mi misero a lavorare da lontano, ma mi rendevo conto che mi avvicinavo sempre di più. Nel 2002 mi ruppi il braccio a La Panne e saltai il Giro. Ad agosto al Regio Tour tiravo le volate a Lombardi, ultimo uomo di Mario. Fu lui a rendersi conto che andavo forte e nell’ultima tappa invertimmo i ruoli e io vinsi. Così chiamò la squadra e propose che andassi alla Vuelta, dove io fui penultimo uomo e Mario vinse tre tappe, prima di ritirarsi e vincere il mondiale.

Massini, Battaglini, Ballerini: uomini di poche parole. Somigli un po’ anche a loro…

Non do molta confidenza. Prima di avere fiducia in qualcuno, lo devo conoscere bene. L’amicizia con Franco la dice lunga ed è vero che un po’ mi rivedo in lui. Mauro invece (Battaglini, ndr) è sempre rimasto al mio fianco. Una persona di riferimento, con cui alla fine prevaleva l’amicizia sul rapporto di lavoro. Non vi nascondo che mi è mancato molto nel periodo in cui ho iniziato ad avvicinarmi alla Federazione. Mi avrebbe certo consigliato, ma sono certo che ora sarebbe contento.

Un altro commissario tecnico toscano…

Sono rimasto nello scoprire che sono solo il 19°. Sono pochi. Vengo dopo Magni, Martini, Ballerini e Bettini. La Toscana ha una grandissima tradizione, ma forse adesso siamo in ribasso, dato che quest’anno non ci passa neanche il Giro d’Italia (sorride con arguzia e garbo, ndr).

Cosa serve per avere la fiducia dei corridori?

Devi essere deciso, non farti vedere insicuro su decisioni e idee. Devi essere convinto di quel che vuoi raggiungere. Ho smesso da due anni, sarà utile. 

Sai che cosa significhi essere un corridore oggi?

Me ne sto rendendo conto più ora che ho smesso, di prima che ero nel frullatore. Ho fatto due chiacchiere con Ganna. Ti rendi conto che la loro normalità per chi è fuori è bestiale. Io facevo solo strada, avevo il mio periodo di stacco. Forse però quest’anno Pippo si è reso conto che sarà meglio mollare qualcosa. E’ determinante programmare un obiettivo e prendersi dei periodi in cui staccare. Sennò fai tre anni e poi salti. Quanti esempi abbiamo avuto? Sono sempre a tutta…

Dovrai muoverti sulle punte, insomma…

Il mio ruolo non è organizzare ritiri, sono già abbastanza stressati. Avrò contatti telefonici e incontri alle gare. Rispetterò i programmi dei team, darò semmai qualche consiglio, ma senza interferire. Se Ganna farà il Tour, avrà un modo di preparare il mondiale. Sennò sceglierà un altro avvicinamento.

A cosa serve aver corso fino a poco tempo fa?

Influirà tanto. Tosatto e Pellizotti sono passati subito in ammiraglia e hanno un modo speciale nel parlare con i corridori. Io guiderò la squadra nelle gare del calendario italiano, arriverò al mondiale con 20 corse nel programma. Esserci stato fino a ieri è utile perché il ciclismo cambia tanto di anno in anno, dalle dinamiche di corsa agli impegni dei corridori.

Il nuovo ruolo rende meno penoso aver smesso per infortunio?

Avrei fatto un anno in più, riattaccato il numero dopo l’incidente. Avrei voluto una bella festa, che era già pronta con un circuito a Castiglion Fiorentino. Questo mi dispiace più di tutto, non aver salutato i tifosi, ma non è la fine del mondo. E poi mio babbo è contento. Quando smisi mi chiese: «E ora che faccio?». Gli ho dato un altro motivo per vedere le corse (ride, ndr).

Cipollini vinse a Zolder e Ballerini disse di aver visto la sera prima il film della corsa.

Quello di Zolder è un film che era facile da vedere prima. La grandezza di Franco fu aver visto il film di altri tre mondiali ben più difficili da decifrare. Per il poco tempo che c’è stato, ne ha vinti quattro. E’ il tecnico più vincente che abbiamo avuto.

In quei fogli davanti a Bennati, il lungo elenco di nomi suddivisi in base ai percorsi di europei e mondiali
In quei fogli davanti a lui, il lungo elenco di nomi suddivisi in base ai percorsi di europei e mondiali
Chi sarà il tuo Bennati in corsa?

Trentin ha una visione di corsa importante e sa anche vincere. E’ stato campione europeo ed è arrivato secondo al mondiale. E’ intelligente, sa mettersi a disposizione. E per come sono disegnati i prossimi percorsi, potrebbe anche essere leader. Come Paolini, che vinceva e aveva una visione eccezionale. Per essere regista in corsa, serve essere corridori di altissimo livello.

Martini metteva in guardia dalla tentazione di guardare indietro per spiegare il presente…

La qualità più sconvolgente di Alfredo era proprio quella. Uno che è stato pioniere, che ha corso con Coppi e Bartali e poi ha fatto il cittì, sebbene fosse molto anziano, non solo stava al passo coi tempi, ma era già nel futuro. Il ciclismo è così.

Così come?

Bisogna starci. Le regole sono sempre quelle. Poi subentrano dettagli come lo psicologo, il nutrizionista, il mental coach. Ma le basi sono sempre quelle e con i ritmi di oggi sono ancora più importanti. Se non le rispetti, non vai da nessuna parte.

Quando la sconfitta fa male. Viaggio nella mente dell’atleta

30.10.2021
6 min
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Hanno lo stesso sguardo. Ballerini che si incammina verso il podio di Roubaix nel 1993 (foto di apertura), sconfitto al fotofinish da Duclos Lassalle, dopo aver creduto per mezz’ora di aver vinto. Fignon sul traguardo di Parigi dopo il Tour del 1989 perso per 8 secondi. Trentin sul podio dei mondiali di Harrogate, vinti da Pedersen in quell’indimenticabile volata a due. Che cosa succede nella mente di un atleta davanti a colpi così duri?

Di Trentin e del fatto che da quel giorno abbia problemi nei finali ristretti, abbiamo parlato nei giorni scorsi con il diretto interessato e con Paolo Bettini.

«Una volata brutta, fatta male – ha detto il toscano, campione olimpico ad Atene – ti rimane addosso. La superi facilmente se riesci a ricredere in te stesso e a rivincere. A volte ci vuole poco, a volte invece te la porti dietro. Di sicuro che quella volata lì, per il peso specifico che aveva, secondo me Matteo ce l’ha ancora addosso. Lui era già convinto di avere la maglia e abbiamo visto com’è andata a finire».

Un discorso complesso

Il discorso è profondo, richiede voci più qualificate. Ed è per questo che ci siamo rivolti di nuovo alla dottoressa Erika Giambarresi, Psicologa dello Sport, con la quale approfondimmo in tempi non sospetti l’approccio fra Evenepoel e la paura, dopo il terribile incidente al Lombardia 2020. Remco non era ancora rientrato alle corse e i fatti successivi dimostrarono che l’aspetto psicologico legato a un trauma è ben più profondo di quanto si pensi.

Come in questo caso. Che cosa resta nella mente di un atleta dopo una sconfitta inattesa e brutale? Una cosa è certa, si tratta di un trauma al pari di una caduta. In testa si può rompere qualcosa e capirlo non è sempre così facile.

«Sono casi delicati – spiega Erika – per i quali si lavora ovviamente sulla componente mentale, sulla gestione dell’errore. Bisogna fare in modo di lasciarselo alle spalle, perché non condizioni le prestazioni del giorno (qualora ad esempio si svolga durante una partita di calcio, ndr) e quelle future come nel nostro caso. C’è tanto da dire…».

Torniamo a parlare con Erika Giambarresi, Psicologa dello Sport
Torniamo a parlare con Erika Giambarresi, Psicologa dello Sport
E allora partiamo. L’errore che condiziona subito e anche nelle gare a venire. Come può reagire l’atleta?

Si lavora preventivamente. Si crea una routine molto specifica di reazione all’errore. E’ una sfera molto personale. Una strategia che l’atleta deve sentire sua, per adattarla al modo di reagire. Si uniscono le azioni alla parte mentale, andando a pescare pensieri funzionali positivi, tramite visualizzazioni molto brevi.

Visualizzazioni?

Una volta un atleta mi raccontò di sé e del fatto che dopo aver commesso un errore o subito una sconfitta, vedeva gli occhi della tigre e questa visualizzazione lo aiutava a ripartire. La visualizzazione è una delle chiavi.

In che modo?

Il cervello lavora al 70 per cento su immagini e parliamo davvero di tantissime immagini. Quello che si fa in caso di errori molto grandi che possono condizionare il futuro è lavorare sulle immagini prima dell’errore, poi non visualizzare l’errore, bensì la soluzione.

Una sorta di analisi del momento negativo?

Si può e si deve lavorare molto. L’errore in una gara molto importante influenza l’autoefficacia, che è diversa dall’autostima. Qui si parla della percezione di essere competenti rispetto a un compito specifico, nel caso di Trentin la volata, che di colpo viene messa in crisi: «Non sono più capace». Per questo dico che l’analisi tecnica dell’errore va fatta subito, approfittando di un occhio esterno. Non qualcuno che ti consoli, ma ti permetta di capire dove hai sbagliato. Se dopo un anno e mezzo le cose ancora non ingranano, allora ricorro certamente alla visualizzazione.

Come si fa?

E’ importante che si lavori in ambiente protetto, quindi una seduta oppure a casa, per cercare e possibilmente trovare i possibili fattori che intervengono durante la prestazione. E’ importante farlo, altrimenti ogni volta l’atleta non saprebbe come gestire la stessa situazione che si ripresentasse.

Viene quasi da pensare che sia un meccanismo mentale da allenare…

E’ esattamente così. Avere una buona routine personale di reazione all’errore è il modo per alzare l’asticella, ma devi essere molto consapevole e lucido su ogni aspetto. Se l’atleta è molto motivato, permettetemi di usare per una volta il termine «cazzuto», ci riesce.

Che cosa significa che deve essere consapevole?

Il lavoro sulla consapevolezza è la base perché l’allenamento mentale di cui abbiamo parlato sia efficace. Se l’atleta non è consapevole di quello che sta accadendo nel suo inconscio, allora corre il rischio di allontanare la causa e di auto-sabotarsi, cercando spiegazioni diverse. Per lui plausibili, ma non veritiere. Come dice benissimo Bettini nel vostro articolo precedente.

Autoconsapevolezza, bel concetto…

E’ alla base. Si deve essere consapevoli che il problema potrebbe essere nella parte emotiva e non in quella tecnica o atletica. Le emozioni si possono mettere da parte e fingere che non ci siano, ma ti condizionano. Vedere i tuoi affetti in lacrime dopo che hai sbagliato un mondiale è difficile da gestire. E’ pesante. Il primo step perciò è concentrarsi e capire che cosa ci diciamo nel dialogo interiore. Noi ci parliamo in continuazione, ma siamo i soli a sapere in che modo.

In effetti l’atleta in quei momenti è solo, con un peso bestiale sulle spalle…

Ci sono le aspettative personali, che sono la motivazione principale. Le aspettative degli sponsor. Quelle dei media che poi scriveranno di te. Le attese dei fan. La famiglia. Sono cose che si fa fatica a capire, perché lo sport di vertice è un mondo a parte. Certo, si potrebbero vedere analogie con lo stress di un top manager d’azienda, spesso la psicologia del lavoro è parallela a quella dello sport. Il manager deve rendere conto di altrettante aspettative, ma in quei casi manca la componente ambientale, perché spesso il tutto si svolge in un ufficio, che è un ambiente più protetto. L’atleta è solo in mezzo alla strada, magari anche con pioggia e freddo. Per questo la sua psicologia è un mondo a parte.

Quindi non tutti gli psicologi riescono a fare questi ragionamenti?

Quelli con Master in Psicologia dello Sport studiano tutto questo. Gli altri, quelli che seguono la psicologia clinica, certi meccanismi non li approfondiscono e quindi non saprebbero come affrontarli e gestirli. L’atleta ha dentro un mondo, indagarlo è davvero molto interessante.

A Roubaix col Ballero nel cuore, la commozione di Bardelli

03.10.2021
5 min
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«Ci siamo svegliati alle sei e mezza – dice Bardelli con le lacrime agli occhi – c’era il diluvio universale. E ho visto questi ragazzini mettersi il taping come faceva Franco e prepararsi per la Roubaix. Mi viene da piangere perché so che stanno cercando di finirla a tutti i costi, mentre qua davanti Martin s’è giocato la corsa. E andava così forte, da pensare che da lassù lo guidasse qualcuno…».

Davide Buconi del quartetto era uno di quelli con la miglior condizione
Davide Buconi del quartetto era uno di quelli con la miglior condizione

Vittoria a Fredheim

Stiam Fredheim ha vinto la Roubaix juniores, alle sue spalle al fotofinish Alec Segaert campione europeo della crono, terzo Hagenes campione del mondo. Il quarto non s’è ancora capito. Quinto il campione d’Europa Gregoire e sesto Martin Svrcek, corridore slovacco del Team Franco Ballerini (foto di apertura). C’era lui dall’alto a guidarlo, il nostro amico Franco. Che qui vent’anni fa concluse la carriera con quella maglietta bianca con su scritto Merci Roubaix.

Bardelli piange, ma grazie alla pioggia battente se ne accorgono in pochi. La squadra toscana è arrivata a Roubaix all’ultimo momento, grazie all’invito ricevuto. Dopo il mondiale, avevano deciso di chiudere bottega e dare appuntamento al 2022. Svrcek aveva già firmato per la Deceuninck-Quick Step, gli altri erano già a scuola.

«Ma quando è arrivato l’invito – prosegue il tecnico del team – Martin mi ha detto di venire a correre. E io sapevo che se lui dice di partire, lo fa per vincere. Avevo paura del pavé, ma si è mosso benissimo. Si è staccato per un errore, ma era con i migliori».

Il Ballero nel cuore

I francesi per i campioni hanno cuore. E quando ieri alla presentazione delle squadre hanno visto le maglie del Team Ballerini con quella stessa scritta, li hanno adottati. Franco quassù era un dio, come lo sono tutti coloro che su queste pietre hanno lottato, perso e poi vinto.

Sesto posto finale per Martin Svrcek, al primo assaggio di pavé
Sesto posto finale per Martin Svrcek, al primo assaggio di pavé

«Quassù Franco è Franco – dice Bardelli e ancora si commuove – e quando ci hanno visto hanno iniziato a fotografarci. Io ho seguito tutte le sue Roubaix ed essere qui vent’anni dopo è un sogno. Per Martin è il primo anno che corre sul serio, ma ci tenevamo per la Sabrina (mogie di Franco Ballerini, ndr) a onorare questo invito. Martin ha il suo futuro alla Deceuninck-Quick Step, agli altri resterà per la vita. Chi sia Ballerini ci penso io a dirglielo e credo che Martin abbia fatto questa corsa per restituirci qualcosa. Lo abbiamo cresciuto passo dopo passo e anche per questo la giornata si concluderà con un magone. Perché con la stagione finirà anche la nostra collaborazione. Anche se continueremo a essere in contatto».

Il lavoro e la passione

Nel programma dei ragazzi di Bardelli c’era anche assistere all’arrivo dei professionisti, poi la notte al solito hotel col tucano a Charleroi e domattina il volo per l’Italia. Segnate i loro nomi. Alcuni diventeranno corridori, altri porteranno questa giornata per sempre nei ricordi.

Lorenzo Iacchi era fra i primo trenta, ma ha bucato a 20 chilometri dall’arrivo e si è fermato. Comunque il miglior italiano

«E’ un’emozione indescrivibile – ripete Bardelli – ho portato tre corridori di secondo anno, Gianmarco Coppini, Lorenzo Iacchi e Martin Svrcek, e ho aggiunto Davide Buconi che nelle ultime gare si è dimostrato in crescita. A tutti loro e a chi vorrà leggere questa storia porto l’esempio di Franco Ballerini. Un uomo che con il lavoro e la passione ha raggiunto dei risultati bellissimi. Poi ha raccolto il testimone di Alfredo Martini e dopo di lui è stato il commissario tecnico migliore che l’Italia abbia mai avuto. Il lavoro e la passione, basta chiacchiere. Con gli juniores serve fare così. I miei ragazzi non lo dimenticheranno mai».

Bettini, dica lei: come è fatto il cittì della nazionale?

17.09.2021
6 min
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Chissà se al momento di cercare un sostituto per Cassani qualcuno ha pensato per un secondo a Paolo Bettini. Il campione olimpico di Atene lasciò la nazionale alla fine del 2013, dopo aver visto sfumare il mondiale di Firenze con la caduta di Nibali. Alla partenza dal diluvio di Lucca, tutto l’ambiente si era accorto della presenza di Fernando Alonso. Il pilota spagnolo aveva rotto gli indugi e sembrava sul punto di lanciare la sua squadra di ciclismo. Bettini gli diede fiducia. Rinunciò a essere il cittì azzurro, ma alla fine non se ne fece niente.

Paolo era diventato cittì subito dopo la morte di Ballerini, per una sorta di obbligo morale dopo la lunga strada percorsa accanto all’amico Franco. La sua gestione azzurra, a parte alcune tensioni con il presidente Di Rocco, aveva avviato la nazionale lungo la direzione poi ripresa e sviluppata da Cassani. E soprattutto, nella nazionale di Bettini, i corridori stavano bene. C’erano i ritiri con i giovani delle altre categorie. I piloti dei caccia militari che parlavano di motivazioni. C’era l’orgoglio di appartenere a un club esclusivo, il cui comandante era uno di loro. Sceso da poco di bici, dopo aver vinto appunto tutto quello che c’era da vincere.

Bettini scelse di ritirarsi con la maglia azzurra: il mondiale di Varese fu la sua ultima gara
Bettini scelse di ritirarsi con la maglia azzurra: il mondiale di Varese fu la sua ultima gara
Perciò, caro Paolo, diccelo tu: cosa serve per fare il tecnico della nazionale?

Devi essere un grande psicologo con un’altrettanto grande esperienza sul campo. Un selezionatore che non prepara i suoi atleti. Nessun cittì dei professionisti prepara i suoi atleti, malgrado quello che a volte si sente dire. Il cittì attinge al patrimonio nazionale e crea il miglior gruppo squadra per caratteristiche personali e resa. Non è la pallavolo in cui scegli in base agli avversari. Da noi comanda il percorso.

Un… gioco facile, insomma?

Non scherziamo. La parte più brutta è scegliere. Lo capii al debutto, nel 2010. Non era un mistero che Pozzato e Bennati non si prendessero e io non ero Alfredo Martini, che era capace di mettere insieme Moser e Saronni. Perciò per Geelong scelsi Pippo e significò rovinare i rapporti con Bennati. Li abbiamo ricuciti da poco, ora andiamo d’accordo, ma non fu facile.

Bello poter scegliere…

Allora c’erano tanti corridori, più di adesso. Le generazioni non sono mai uguali, ma non significa che fosse più facile. Devi comunque amalgamare il gruppo e Cassani lo ha fatto bene, riprendendo il mio lavoro che a sua volta seguiva da quello di Ballerini. Con lui si può essere critici quanto si vuole, ma al suo palmares manca solo il mondiale. Il resto l’ha vinto.

Per il primo mondiale nel 2010, Bettini puntò su Pozzato, che arrivò quarto
Per il primo mondiale nel 2010, Bettini puntò su Pozzato, che arrivò quarto
Che cosa può aver sbagliato?

Detto che ha lavorato bene, siamo diversi perché io sentivo la gara come un corridore. A Londra vennero i grandi del Coni e provarono a forzarmi la mano per portarmi alla cerimonia inaugurale. Mi dissero che non era possibile che prima da corridore e poi da tecnico io non avessi mai visto quell’evento. Ce la misero tutta, ma io dissi che sarei rimasto senza anche quella volta. I miei ragazzi avevano bisogno di me. In quei momenti, anche se nella vita di ogni giorno fanno i fenomeni, hanno bisogno di appoggio. Una vicinanza psicologica e il cittì deve esserci. Prima, durante e dopo la gara. Ricordate le barzellette di Alfredo ?

Impossibile dimenticarle…

Con le sue battute e i suoi racconti che contenevano il mondo, facevamo anche mezzanotte la sera prima del mondiale. Quest’anno Davide si è isolato con la squadra prima degli europei di Trento e ha parlato della vigilia più bella. Ecco, se posso, le vigilie avrebbe dovuto viverle tutte così. Senza dover seguire le prove di tutte le categorie, insomma. E se mi permetto questa critica, è perché queste cose le ho fatte.

Adesso alla guida delle nazionali c’è Amadio.

Credo che sia la persona migliore in quel ruolo. Prima delle elezioni mi chiesero di fare un nome per il possibile commissario tecnico e io feci il suo, ma così è anche meglio. Mi ricordo nel garage di Stoccarda quando Ballerini gli disse che dopo l’esclusione di Di Luca non avrebbe fatto correre Nibali, ma avrebbe richiamato Tosatto. Ricordo gli urli di quel giorno. Per cui quando vennero i mondiali del 2013, in cui non avrei convocato nessuno dei suoi atleti della Liquigas, ero pronto a discuterci. In più, avrei dovuto chiedergli la presenza di Archetti come meccanico e il camion officina. Invece mi spiazzò. Mi disse che capiva che stavo facendo delle scelte e mi disse di chiedere quello che mi serviva e lui me l’avrebbe dato.

Ai mondiali 2011 l’Italia corse con Bennati capitano, qui con Visconti
Ai mondiali 2011 l’Italia corse con Bennati capitano, qui con Visconti
Dicci la verità, ti hanno proposto di tornare?

La verità? No e penso che la minestra riscaldata non sia buona. Ma parliamo di nazionale e avrei mancato di rispetto alla maglia azzurra se, qualora me lo avessero chiesto, non ci avessi almeno pensato.

Si parla di Fondriest, Pozzato, Bennati…

Maurizio è un grandissimo amico. Abbiamo condiviso tanti viaggi crociere con la Gazzetta e Giri d’Italia con Mediolanum. Però fa anche il preparatore e il procuratore. Pozzato uguale. Il più libero al momento è proprio Bennati. Ma questi sono discorsi teorici, perché se vale la regola che non devono esserci altri incarichi, Cassani sarebbe stato il primo a non poter essere nominato. Io fui etichettato come “cittì marchettaro”, perché il primo Giro d’Italia da tecnico lo feci con Mediolanum, senza costare un euro alla Federazione. Una parte della stampa mi asfaltò, mentre ora non ci si fa più caso.

Sei d’accordo con l’idea di un cittì a giornata?

Neanche per sogno. Significherebbe che la nazionale è diventata una baracchetta e il ciclismo smetterebbe di essere il secondo sport nazionale. Piuttosto, inventiamo il mestiere di tecnico della nazionale. Guardiamo ad esempio quanto guadagna quello del basket. Facciamo che il nuovo tecnico debba lasciare tutto quello che ha in ballo e firmi con la Federazione un contratto a progetto di 4 anni ben retribuito. Io sono andato avanti con contratti annuali, esposto alle critiche di 40 milioni di commissari tecnici. Ero l’ultimo a dover accettare quell’incarico, ma dissi di sì per rispetto verso Martini e Ballerini.

Il suo ultimo mondiale da tecnico fu Firenze 2013: qui con Nibali, in ricognizione sul percorso iridato
Il suo ultimo mondiale da tecnico fu Firenze 2013: qui con Nibali, sul percorso iridato
Quindi la strada giusta resta la loro?

Secondo me sì. Sono convinto che sia un ruolo talmente importante da dover essere un punto fisso. Il calendario ormai è strapieno di impegni, pari a quello delle altre discipline olimpiche, in cui il tecnico della nazionale è una figura di riferimento. E va pagato, come accade nelle altre federazioni.