La sfortuna esiste, ma di solito colpisce sempre quelli che non vincono. Certo si potrebbe anche dire che vince il meno sfortunato, ma ragionando ai massimi livelli di uno sport ormai così tecnologicamente evoluto come il ciclismo, la sfortuna come motivo per la sconfitta non regge. Sarà cinico, ma è un’opinione che merita approfondimento.
L’errore di Van Aert
Lo ha spiegato anche Philippe Gilbert, vincitore della Parigi-Roubaix del 2019, a L’Equipe, dopo aver seguito la classica del pavé sulla moto di Eurosport.
«Van Aert – ha detto il belga – sembrava gestire molto bene la sua gara salvandosi come durante il GP E3 che aveva vinto davanti a Van der Poel, tre settimane fa, fino a quando non è andato all’attacco e ha subito forato. Questo, secondo me, fa parte della gestione del materiale e non di qualche sfortuna. Ricordo le mie esperienze in queste gare e anche durante una tappa del Tour de France sul pavè. Sono andato all’attacco, ma troppo eccitato o spinto da una motivazione pazzesca, ho commesso un errore di traiettoria e ho preso una pietra che sporgeva e ho forato l’anteriore. Ho perso molta forza per inseguire e sono arrivato solo quarto.
«L’errore di Wout Van Aert è stato sicuramente dovuto al voler prendere un rischio troppo alto e alla eccessiva voglia di vincere. Un desiderio soprattutto mal controllato. Mathieu Van der Poel non ha commesso questo errore perché ha saputo evitare tutte le insidie del percorso oltre a quelle tese dai suoi avversari».
Scelte sbagliate?
Ieri qualcosa legato ai materiali è accaduto ed è stato abbastanza evidente. Pur utilizzando gli stessi pneumatici della Alpecin-Elegant, i corridori della Jumbo-Visma hanno avuto delle forature di troppo, come è successo anche ai leader della Soudal-Quick Step. Capita di sbagliare le scelte, mentre indovinarle non è certo attribuibile alla fortuna.
L’attacco di ieri di Van Aert è stato chirurgico nella scelta di tempo e ha ricordato l’allungo del belga quando nel 2020 Alaphilippe cadde contro la moto e Van der Poel perse qualche metro. Anche ieri il belga ha pensato di approfittare della caduta di Degenkolb e del conseguente affanno dell’avversario, ma ha bucato proprio in quei secondi di massima enfasi, probabilmente sbagliando qualcosa come fatto notare da Gilbert.
Calendario da rivedere
A ciò si aggiunga anche una considerazione che non è dimostrabile con i numeri, dato che la quantità dell’impegno è praticamente identica. La stagione invernale di questi giganti è qualcosa fuori dal comune. Van der Poel ha disputato 15 gare di cross, Van Aert ne ha fatte 14. Eppure Wout ha corso sempre per vincere, dando un’idea di superiorità atletica che in certi giorni ha schiacciato l’olandese, costretto ad accontentarsi delle posizioni di rincalzo. Come spiegazione, Van der Poel ha sempre dato quella del mal di schiena e della conseguente necessità di riprendere con maggiore gradualità. Sta di fatto però che nello scontro diretto del mondiale, cui entrambi puntavano, Mathieu è venuto fuori con più freschezza e ha vinto.
Altre differenze si sono viste a partire dalla Sanremo, quando è stato evidente che Van Aert avesse qualcosa in meno in salita. Si è staccato sul Poggio e si è staccato anche nella E3 Saxo Classic: ha vinto in volata, ma dopo aver inseguito sul Qwaremont e sul Paterberg. E mentre Van der Poel si è preso la lunga pausa (8 giorni) tra la gara di Harelbeke e il Fiandre, Van Aert non ha recuperato: ha infatti corso e regalato la Gand-Wevelgem a Laporte. Avendo capito tutti che non avesse la gamba giusta in salita, non sarebbe convenuto anche a lui staccare e dedicare quel tempo a se stesso?
Non lo ha fatto ed è arrivato al Fiandre con l’identico handicap in salita, che lo ha escluso dal podio. E soprattutto lo ha fatto arrivare alla Roubaix con le forze contate e una pressione psicologica pazzesca. Sarà anche vero, come ci ha raccontato Affini, che questo per lui non sia un problema, ma non è detto che sia vero. E forse la foga nell’attacco di ieri conferma che non lo è.
La profezia di Bartoli
Il 27 settembre del 2020 pubblicammo un’intervista a Michele Bartoli, che stava per lanciare la sua Academy di ciclocross. E parlando di Van der Poel e Van Aert, disse parole a dir poco profetiche.
«Aver fatto ciclocross – disse il toscano – mi è servito per vincere il Fiandre. Ho spesso detto che quello scatto sul Grammont, con le mani sotto e il peso centrato, lo devo al cross. Certe cose sul pavé le impari da piccolo. Lo stradista ne ha solo vantaggi, purché non esageri. E sto parlando di Van der Poel, che deve scegliere. Tre specialità sono troppe. La mountain bike è di troppo. Invece Van Aert fa il cross nel modo giusto e si vede dai risultati. Il corpo umano non è inesauribile, le forze sono contate».
Che sia una coincidenza oppure sia stato il frutto di un’analisi da parte dei suoi tecnici, a partire dallo scorso anno e sempre con il pretesto della schiena, Van der Poel ha ridotto il carico di lavoro e le presenze nel cross, portando a casa due Fiandre, la Sanremo e la Roubaix. Forse chi gestisce il calendario di Van Aert potrebbe farci sopra una riflessione.