Michele Scartezzini è un fiume in piena. Sa bene che il 2025 sarà importante per lui, che sulla sua esperienza Marco Villa fa affidamento per ricostruire tutta l’impalcatura che dovrà sorreggere la nuova nazionale su pista, quella priva per il momento delle sue stelle Ganna e Milan e di tutti coloro che privilegeranno la strada. Fino al 2027, anno d’inizio delle qualificazioni olimpiche, sarà un work in progress dove i vecchi saranno i traghettatori per le forze nuove. Ma Michele ha qualche boccone amaro da mandar giù, legato all’ultima stagione.
«Un bilancio? E’ un discorso lungo da affrontare. E’ un anno nel quale ho lavorato tanto e sono rimasto con un pugno di mosche in mano, non ho ottenuto nulla. Tutto è cominciato con gli europei d’inizio stagione. Mi ero preparato bene e mi sentivo di conseguenza, ma i risultati non sono arrivati. I valori erano diversi da quelli che mi aspettavo e nelle gare a me deputate sentivo le gambe pesanti, avevo evidentemente sbagliato i lavori necessari».
A quel punto anche le ultime speranze per poter essere preso in considerazione per Parigi sono venute meno…
Non che ne avessi tante prima. Con quel regolamento penoso… Già per Tokyo era stato complicato, ma hanno tolto pure un altro posto, limitando a 5 quelli disponibili per chi aveva il quartetto. C’era Viviani che ambiva a entrare per l’omnium, non avevo possibilità. Se nel quadriennio avessi vinto sempre medaglie nella madison avrei potuto accampare pretese, ero sì tra i migliori specialisti, ma certamente non infallibile. Mi ero messo il cuore in pace e mi sono concentrato sui mondiali.
C’era tanto da aspettare…
Sì, ma non ho mai mollato. Devo dire grazie alle Fiamme Azzurre, che mi hanno dato supporto, come anche a Masotti, Bragato, Contri, insomma a tutto lo staff azzurro che non mi facevano mai mancare una parola di conforto. Sanno che ci sono sempre stato sin dal 2009. Mi sono dedicato alla preparazione della rassegna iridata facendo una vita quasi monacale, lavorando con dedizione. Ogni tanto mi confrontavo con Viviani e mi diceva che avevo valori davvero notevoli, anche superiori ai suoi e ciò mi dava fiducia. Io lavoravo per la corsa a punti iridata, sapendo che se fossi andato bene lì allora potevo vedere se mi veniva offerta una chance per la madison.
E poi?
Sono stato alla grande fino al giorno prima della gara, poi, quando è venuto il momento, mi sono sentito bloccato, come se non fossi padrone di me. Quel giorno nulla è andato come volevo e per me è stata una mazzata tremenda. Sono uscito dal velodromo, andavo in giro per la città cercando di ragionare, di capire, avevo bisogno di stare solo. Ho anche pensato di mollare tutto. Mi avevano visto che andavo forte, ma quando ho fallito sono stati pochi coloro che mi sono stati vicino, era come se non esistessi più.
Che cosa ti ha spinto a tenere duro?
Tre giorni dopo la fine dei mondiali, avevo una gara con la Arvedi. Non volevo andarci, ma poi ho riflettuto, avevo preso un impegno e dovevo portarlo a termine. Mentre andavo, è squillato il telefono: era Sercu, mi chiamava per invitarmi alla 6 Giorni di Gand, voleva mettermi al fianco di uno dei giovani in maggiore ascesa, dicendomi che aveva bisogno di un uomo d’esperienza al fianco. Quell’invito è stato la sferzata di energia di cui avevo bisogno e sono ripartito da lì.
Il fallimento di Ballerup è stato più un problema mentale?
Sicuramente, mi sono messo troppa pressione addosso. Era il mio 13° mondiale, al quale puntavano tutti coloro che alle Olimpiadi non erano stati, ma anche coloro che volevano confermare i risultati di Parigi. Io di solito quando sto bene lo faccio vedere, volevo spaccare il mondo. I valori erano dalla mia parte, avevo fatto test sui 20’ e vedevo numeri che non avevo mai fatto prima e che sapevo non erano accessibili a molti dei miei rivali. La gara a punti è lunga, non è come il quartetto. Probabilmente c’è stato un particolare tecnico che ha influito.
Quale?
Ho messo un dente più duro dietro e su pista è un abisso. L’agilità non paga più, anche su pista, nelle prove endurance si va di forza. Io erano due mesi che mi ero abituato a quella cadenza, ma alla fine è stata una scelta che non ha pagato.
Ora siamo a un bivio, con i big che si sono tirati fuori per il prossimo biennio e c’è una nazionale da rifondare. Villa conta su di te…
A me non piace questo discorso degli atleti che si tirano fuori, intanto perché so che non è così, tanto è vero che Pippo (Ganna, ndr) spesso mi chiama per andare a Montichiari e lavorare con lui. Se parti con un progetto legato ai giovani, bisogna anche mettere in conto che, quando i vari Ganna e Milan si rifaranno avanti avranno di fronte un team collaudato, chi dice che troveranno posto, che sarà utile rompere meccanismi collaudati? Sarebbe egoista pretendere il posto solo in base al nome…
Introdurre giovani però non è facile…
No, dipende molto da quanti sacrifici saranno disposti a fare, quanto investiranno sulla pista. Per quel che ho visto hanno tanta voglia di fare. A proposito mi viene in mente un piccolo aneddoto su Sierra: si è trovato a fare la sua prima madison assoluta con me, alla Nations Cup di Hong Kong. E’ stata la più veloce degli ultimi anni, era sconvolto alla fine, voleva mollare. Gli ho detto che per essere un esordio era stato particolarmente sfortunato.
Villa ha detto di confidare molto su voi “vecchi”: tu, Lamon…
Noi siamo pronti grazie anche al supporto dei corpi militari che a differenza dei club non ci danno vincoli. Anche Boscaro ora è entrato, anche lui sarà fondamentale nella gestione. Noi siamo a disposizione per aiutarli, sappiamo che ci sono molti ragazzi validi, che nelle categorie giovanili hanno vinto tutto e fatto record, ma a livello elite cambia tutto: distanze diverse, avversari molto forti e soprattutto esperti. Si deve crescere con calma e non buttarsi giù alle prime delusioni e difficoltà. Un ragazzo davvero forte ad esempio è Stella, mi è piaciuto subito anche perché è uno che ascolta molto. Noi comunque ci siamo, per rilanciare il settore, per aiutare i giovani, ma anche noi “vecchi” penso che abbiamo ancora qualcosa da dire.