Mal di gambe, cos’è? Ce lo spiega “Fred” Morini

19.06.2023
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E’ l’altra parte della medaglia, uno degli emblemi del ciclismo: il mal di gambe. Spesso si lotta con questo elemento più che con gli avversari e tante volte se lo si batte capita anche di vincere. Recentemente è stato Van Aert stesso a ricordarlo: «Riesco a soffrire molto, a battere il mal di gambe». Ma è sempre lo stesso? Ce ne sono vari tipi? 

Federico “Fred” Morini, massaggiatore ed osteopata della nazionale, ci aiuta a rispondere a queste domande. Proprio con lui in qualche modo avevamo iniziato a parlarne già questa primavera, quando ci raccontò dei dolori che lascia una Parigi-Roubaix nel corpo di un corridore.

Morini, incontrato al via dell’ultima Roubaix, è uno dei massaggiatori della nazionale
Morini, incontrato al via dell’ultima Roubaix, è uno dei massaggiatori della nazionale
Fred, partiamo proprio da dove ci “eravamo lasciati”, dal mal di gambe di una Roubaix. Che differenze ci sono rispetto a quello che magari lascia un tappone dolomitico?

Se partiamo da una Roubaix va detto che i primi classificati di mal di gambe ne hanno poco, ma gli altri ne possono avere tanto! Una corsa simile genera dei traumi, non si tratta solo di fatica. Quei sobbalzi creano appunto dei traumi muscolari che spesso si protraggono nel tempo.

Cosa succede nelle fibre muscolari? Ci sono delle differenze, proprio tu che poi magari ci metti le mani, le senti nei polpastrelli?

Sì, sono tante piccole contratture perché le fibre stesse vengono stressate a causa dello sforzo e delle tante vibrazioni. Nelle mani mi sembra di sentire come se l’atleta ha preso qualche colpo sulla coscia, sul polpaccio… Sento proprio un dolore traumatico, dovuto alle vibrazioni che creano traumi più esterni ma anche interni. E il muscolo ha bisogno ovviamente di più di tempo per poter drenare, ma soprattutto per poter recuperare. E’ diverso da una tappa dolomitica, perché quello è un mal di gambe generato da un insieme di fattori.

Quali?

Accumulo di acido che magari non sono stato in grado di smaltire bene perché la mia condizione non è ottimale. In quel caso dopo la gara o anche durante la notte a seguire, questo mal di gambe può dare delle sensazioni quasi di calore estremo, di bruciore… e quella è vera fatica. Si avverte una grande striatura della fibra muscolare.

La fatica di Filippo Zana al termine della crono del Lussari. Un grande accumulo di acido lattico
La fatica di Filippo Zana al termine della crono del Lussari. Un grande accumulo di acido lattico
Striatura…

Sì, l’acido lattico crea una sorta di striatura, di “striscia”. C’è una fibra molto “strofinata”, così si dice tecnicamente, nel senso che è molto stressata e al tempo stesso anche disidratata, perché il muscolo è carico di acido. In quel caso ci sono più fattori: l’accumulo di acido, la disidratazione, lunghe contrazioni per molto tempo, condizione fisica non ottimale… e chi non è uno scalatore in teoria ne soffre di più. Un po’ come i non-specialisti della Roubaix. Mentre chi ha una grande condizione, magari la mattina dopo  può sentire la gamba un po’ imballata, nel senso che ha perso quella qualità di elasticità, ma dopo i primi chilometri torna in condizioni buone. 

Gli specialisti recuperano prima…

Avendo accumulato meno acido lattico e avendo una condizione migliore, e quindi una fibra più ossigenata e più idratata, recuperano prima. Anche il battito cardiaco è migliore, pertanto il trasporto di ossigeno ai muscoli e la conseguente evacuazione dell’acido avviene più rapidamente rispetto ad un corridore che magari fa parte del cosiddetto gruppetto o tiene le posizioni con i denti.

Gli azzurri della velocità. Questa specialità richiede uno sforzo anaerobico e contrazioni muscolari violente
Gli azzurri della velocità. Questa specialità richiede uno sforzo anaerobico e contrazioni muscolari violente
Fred, abbiamo parlato del mal di gambe traumatico della Roubaix, quello da fatica e disidratazione di un tappone di montagna… Quale potrebbe essere un altro tipo di mal di gambe?

Penso a quello dei pistard, perché è un’altro tipo di sforzo. Uno sforzo concentrato in pochissimo tempo in una fase fisica chiamata anaerobica. Quel mal di gambe è creato dall’insieme di contratture che si formano all’interno del muscolo. I pistard sentono la gamba più rigida rispetto ad un “corridore standard” della strada. Anche se, senza fare nomi, posso dire che subito dopo il Giro d’Italia un atleta si è presentato a studio e aveva un mal di gambe di questo tipo.

E non aveva girato in pista…

Esatto, aveva un bruciore importante. E per sua stessa ammissione ce lo aveva forse anche un po’ prima della domenica. «Forse perché dopo l’ultima tappa dura mi sono un po’ rilassato», così mi ha detto. «Quando vado a letto sento un bruciore». Ecco, quello è un classico dolore dettato dall’accumulo di fatica ripetuto. Tanto accumulo di acido lattico e valori ematici meno brillanti… il muscolo diventa ricco di stanchezza e stress. Nell’altro caso dei pistard invece, il dolore può essere dato proprio da contratture. Soprattutto per i velocisti puri.

I polpacci sono tra i muscoli più stressati da parte dei velocisti. Qui un trattamento di digitopressione
I polpacci sono tra i muscoli più stressati da parte dei velocisti. Qui un trattamento di digitopressione
Perché?

Perché sono abituati a lavorare con rapporti importantissimi. Manifestano un dolore puntiforme. Loro stessi avvertono una contrattura. Come una lama puntata in quel punto. E se tu non li tratti, non li massaggi, non vai a fare degli allungamenti specifici, questa non passa così facilmente.

Altra tipologia di mal di gambe?

L’ultimo dei dolori può essere il dolore irradiato. Che cosa significa? Nel nostro corpo si formano delle zone di dolore… nella coscia piuttosto che nel polpaccio. Quelli sono dolori che sono generati dai cosiddetti “trigger point”.

Di cosa si tratta?

Sono delle aree di grande densità del tessuto. Il muscolo si “densifica” sia in superficie, che nel profondo delle fibre muscolari. Se lo si va a trattare con una digitopressione, il corridore stesso ti dice: “Sento fastidio in quel punto, ma se mi tocchi il dolore si espande”. Questo perché c’è tanta tensione concentrata in quel punto (trigger point, ndr) e questo richiama a sé un po’ tutte le fibre. Allora io massaggiatore devo cercare di allentarlo con delle tecniche di digitopressione. 

Cambiano tempi e potenze, ma la fatica?

07.12.2021
5 min
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Alcuni giorni fa pubblicammo un editoriale ispirato al secondo libro di Guillaume Martin. Il corridore/filosofo francese sostiene che l’intensità dello sforzo dei professionisti contemporanei è ben superiore a quello dei pionieri di questo sport. La frase continuava a ronzarci per la mente, con qualche dubbio. Si va veloci: le bici sono super, le metodiche di allenamento avanzatissime e l’alimentazione è mirata al tipo di sforzo da affrontare. Però com’era quando le bici pesavano 12 chili, la preparazione era empirica, si mangiava seguendo abitudini e miti più che principi scientifici e le strade erano di terra? Le velocità erano innegabilmente inferiori, ma l’intensità dello sforzo? E la fatica?

Pantani stabilì il record di scalata dell’Alpe d’Huez nel 1997, scalandola in 37’35” (Vam 1704,41 m/h). Al Tour del 1952 Coppi impiegò 45’22” (Vam 1407,78 m/h): un abisso, che però dà la grandezza di Coppi pensando che Lemond e Hinault nel 1986 impiegarono 48′. La fatica di Coppi fu davvero inferiore a quella di Marco? Cos’è la fatica se non la percezione dello sforzo?

Il battito cardiaco

Dato che sarebbe impossibile quantificare le variazioni indotte dai parametri citati, la curiosità si è spostata su quali fossero gli strumenti un tempo a disposizione per valutare le prestazioni dell’atleta. Il passo giusto per renderci conto che la medicina dello sport non esisteva ancora e che l’allenatore, per come lo intendiamo oggi, non era che una suggestione. I corridori, anche i più grandi, si affidavano ai massaggiatori per allenamenti e alimentazione. Al massimo ai direttori sportivi. E i dottori controllavano quel che si poteva.

«La medicina dello sport non c’era – racconta Massimo Besnati, fino al 2021 dottore della nazionale – non c’erano alternative, per medici e corridori. Non esistevano i test, semmai le sensazioni. Poteva capitare che il corridore si prendesse il battito in cima alla salita, ma chiaramente non c’erano strumenti per la rilevazione in tempo reale. Tante cose sono cambiate, per questo è impossibile fare raffronti. Fra i primi ad affrontare la questione con un approccio scientifico, ci fu sicuramente Giovanni Falai».

Chiediamo a Falai

Il medico toscano, che nella sua carriera è stato accanto a Gimondi e Moser, Bitossi (fu lui a venire a capo ai problemi cardiaci di “Cuore matto”) e Bartalini, Francioni, Mori e ha visitato qualche volta anche Merckx, ha compiuto 91 anni a luglio e quasi si stupisce della curiosità sull’argomento.

«Quello che si poteva fare – sorride – era misurare il battito dell’atleta a riposo la mattina e la sera per valutare se recuperava bene. Ricordo Ritter con 30 battiti a riposo e Bartali con 32. Si guardava la pressione arteriosa, ma non si andava oltre perché non avevamo gli strumenti. Però sull’argomento si può dire che le velocità di oggi non sono dovute soltanto a una fatica superiore, ma anche a bici migliori e strade più scorrevoli. Una volta la bici proprio non scorreva, sembravano gare di ciclocross e il ciclismo secondo me era più faticoso dell’attuale…».

Per anni si è creduto che la carne rossa fosse il solo modo di integrare proteine e ferro
Per anni si è creduto che la carne rossa fosse il solo modo di integrare proteine e ferro

Metodi empirici

Sul fronte invece del tipo di sforzo, ovviamente si resta nel campo dell’osservazione e di una deduzione che per i motivi citati da Besnati non può essere più di tanto precisa.

«C’erano cuori più grandi – dice Falai – proprio a livello di sviluppo, ma ci sono anche oggi. Non credo che il livello di fatica cui venivano sottoposti fosse inferiore a quello attuale, anche se oggi a parità di fatica si ottengono prestazioni superiori. L’alimentazione aiuta tanto, prima si facevano tanti errori. Ci si riempiva di proteine attraverso tante bistecche e l’alimentazione sbagliata incideva sulle difese immunitarie. Ora si studia la funzione renale, una volta al massimo osservavamo il fegato per capire se eliminava le tossine nel modo giusto. Semmai si usava qualche disintossicante. Oggi si fa tanta prevenzione a livello renale ed epatico, prima era impossibile. Si facevano valutazioni a occhio. Poi con la medicina sportiva sono arrivati nuovi strumenti che oggi rendono tutto più calcolabile e persino prevedibile. La domanda perciò è un’altra: è più faticoso correre, dare il massimo e arrivare sfiniti senza conoscere i propri limiti, oppure riuscire a tirare fuori il massimo conoscendoli anche numericamente?».

Come cambia la percezione della fatica col passare degli anni?

19.11.2021
5 min
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La fatica è l’anima del ciclismo. Il gioco è tutto lì, lo spettacolo è tutto lì. Ma le grandi storie derivano dal fatto che non sempre chi fa più fatica è anche colui (o colei) che vince. Anzi, spesso chi ne fa di più sono coloro che arrivano dietro. Ma a dare spettacolo è chi più resiste.

In un atleta, nel corso degli anni il rapporto con la fatica cambia. Si evolve, per assurdo può anche piacere, ma il più delle volte si arriva ad odiarla. E non sarebbe un qualcosa di strano, visto che è nella natura dell’essere umano cercare di farne il meno possibile.

Elisabetta Borgia già collaborava con la Trek-Segafredo, adesso è entrata a farne parte ufficialmente
Elisabetta Borgia già collaborava con la Trek-Segafredo, adesso è entrata a farne parte ufficialmente

Fatica ed età

Ma torniamo al ciclismo e poniamo la questione come cambi la percezione della fatica col passare degli anni ad Elisabetta Borgia, psicologa dello sport entrata ufficialmente a far parte della Trek-Segafredo.

«Da un punto di vista fisiologico – dice la Borgia – sappiamo che si fa più fatica sugli scatti, perché si perde esplosività. Estremizzando il concetto: si diventa più portati per le corse a tappe che per le classiche. Ma questa parte non è di mia competenza. Lo è quella mentale.

«La percezione della fatica nasce dalla consapevolezza di riuscire a starci, in quella zona di fatica appunto. Spesso sento dire dagli atleti: non riesco a fare fatica. Ebbene, molto dipende dalla motivazione e dal senso di autoefficacia che si ha. Il senso di autoefficacia è quanto ci si sente forti, per semplificare al massimo».

«Il rapporto con la fatica – riprende la Borgia – è strettamente personale. La differenza tra giovani e veterani potrebbe essere la fame di successi che si ha. E’ l’aspetto motivazionale, è il riuscire ad esprimersi sempre al massimo.

«Un atleta più maturo invece riesce magari anche a prevenire certe situazioni, ha una visione più equilibrata della corsa o di un determinato periodo e si crea le condizioni per raschiare meno il barile. Quando un giovane deve partire tre settimane per l’Australia dice: “Wow, che bello si parte”. Al corridore più esperto magari tutto ciò pesa: “Eh ma qui lascio la casa, non vedo i figli…”. Gli costa più fatica partire. E in qualche modo pensa già al suo “dopo lavoro”».

Stringere i denti. Lottare sino all’ultima goccia di sudore. L’età tende quindi a smussare questa attitudine, se così si può chiamare?

«Non credo che il mollare prima o dopo dipenda poi così tanto dall’età. Credo piuttosto dipenda dal soggetto. L’adulto magari non ha bisogno di fare fuorigiri in modo continuo come il giovane, perché l’adulto ci arriva di mestiere, sa tenersi qualcosa solo per quelle determinate situazioni. Ma se è motivato porta la sua fatica fino al limite».

Fatica e stress possono trasformarsi in paura
Fatica e stress possono trasformarsi in paura

Paura e blocco

Col passare degli anni si può avere “paura” di fare fatica? Il corpo, e di conseguenza la mente, la ripudiano.

«In fin dei conti il momento di fatica massima per un atleta è un momento molto importante. Il corridore si può sentire invincibile o vulnerabile.

«Invincibile, se per esempio, sta facendo tanta fatica ma è davanti da solo. In quel caso tutto gli viene bene e fare fatica quasi non gli costa.

«Vulnerabile, invece, quando è in un momento della corsa, della stagione o della carriera in cui fa tanta fatica ma non sta dove vorrebbe essere. In quel caso non riesce a raggiungere quel limite che ben conosce. I battiti cardiaci non salgono perché magari è stanco fisicamente o perché la mente non lo fa arrivare a quel limite perché non lo vuole più, perché è nauseato. Si crea un blocco».

La Borgia spiega che tutto ciò si risolve con degli approfondimenti e la prima cosa è risalire alle cause di questo blocco. Bisogna capire il perché. Bisogna capire se è un momento o se si è in una vera fase discendente della carriera. 

«In questo caso, se per esempio ti fa fatica fare anche le cose più piccole, devi accettare il fatto che magari non devi più correre. Di sicuro devi analizzare che tipo di paura hai nel far fatica: hai paura di tutto? Hai paura quando ti passano? Serve un’analisi approfondita».

Francesca Barale stremata dopo la crono iridata: il più delle volte i giovani riescono a dare anche più del 100%
Francesca Barale stremata dopo la crono iridata: il più delle volte i giovani riescono a dare anche più del 100%

Valverde, regola ed eccezione

Insomma, e lo dice anche la Borgia, c’è uno strettissimo legame tra fatica e motivazione. Sino a quando la motivazione è alta la percezione della fatica “tarda” ad arrivare o comunque in qualche modo è accettata. E questo a prescindere dall’età. E Valverde (foto in apertura) in qualche modo è sia colui che conferma la regola che l’eccezione.

«Un corridore come lui – conclude la Borgia – riesce ogni volta a rimodulare i suoi obiettivi e a trovare di conseguenza le giuste motivazioni. Ha la voglia di un ragazzino, pronto a rischiare in discesa, a stare manubrio contro manubrio e farsi tirare il collo. Nello specifico parliamo di un campione fisico e mentale.

«E’ come chiedere ad un atleta che ha vinto tutto cosa lo motiva. Pensare di vincere per una seconda o terza volta quella determinata gara non potrà avere lo stesso carico motivazionale e invece lui ci trova la stessa gratificazione che in altri atleti non trovi».

Corridori al limite, ma le squadre spingono…

02.10.2021
4 min
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E’ tutto un casino. I corridori sono stanchi, fisicamente e mentalmente, che poi è la parte peggiore. Le squadre hanno ancora il calendario da riempire e premono perché siano tirati a lucido. I preparatori nel mezzo a tirare una coperta che a fine stagione è sempre più corta. Se poteste ficcare il naso senza essere visti, siate pur certi che la scena sarebbe la stessa in ogni team WorldTour e figurarsi nei più piccoli.

Michele Bartoli
Nel 2002 Bartoli vinse il Lombardia dopo 44 giorni di corsa. Vinse anche l’Amstel. Prima vittoria a febbraio. Per Van Aert nel 2021, 48 giorni
Michele Bartoli
Nel 2002 Bartoli vinse il Lombardia dopo 44 giorni di corsa. Vinse anche l’Amstel. Per Van Aert nel 2021, 48 giorni

E se ti ritrovi ai primi di ottobre con la Roubaix, il Lombardia, le classiche italiane, qualcuna in Francia e le nuove gare in Veneto, ti chiedi se ce la faranno ad essere forti come li vogliamo o se piuttosto qualcuno, anche i più grandi, non inizierà a perdere pezzi. E allora magari capisci che il Van Aert dei mondiali non è per caso…

La lettura di Bartoli

Michele Bartoli fa il preparatore trasversalmente alle squadre, preferisce non parlare degli atleti che segue per richiesta degli stessi team, ma ha chiaro il polso della situazione, perché probabilmente con la realtà descritta in avvio fa i conti anche lui.

Quest’anno Vdp ha corso per 33 giorni, ma dopo il Tour si è fermato per la Mtb. Prima vittoria a febbraio in UAE
Quest’anno Vdp ha corso per 33 giorni, ma dopo il Tour si è fermato per la Mtb. Prima vittoria a febbraio in UAE

«Ho smesso di correre alla Csc – dice – perché volevano fare troppi ritiri, figurarsi se avrei potuto farlo oggi, che non sono mai a casa. Poi è chiaro che a fine stagione siano sfiniti. In ogni caso anche negli anni 90-2000 era finito il tempo delle corse di allenamento e dovevi sempre essere pronto per vincere. Facevi i salti mortali, dosando giorni di carico e il poco recupero che riuscivi a trovare. Oggi però è peggio. Il picco di fine stagione è sempre stato più basso di quello di primavera, per cui è chiaro che il Van Aert di aprile fosse molto più forte di quello di ottobre. Ad aprile aveva cinque scatti vincenti, adesso ne ha due. E se gli servono per chiudere su Alaphilippe, ecco che gli equilibri cambiano».

Nel 2021 per Alaphilippe 61 giorni di corsa. Prima vittoria a marzo alla Tirreno-Adriatico
Nel 2021 per Alaphilippe 61 giorni di corsa. Prima vittoria a marzo alla Tirreno-Adriatico
Se non altro a fine stagione non c’è più l’assillo di andare in altura.

Non crediate, qualcuno è andato lo stesso. Secondo me l’altura va dosata, non funziona sempre. Chi punta a Giro, Tour e mondiale, è bene che vada per tre volte e poi basta. La mia teoria, che sarà pure solo mia però mi ha dato grandi soddisfazioni, è che in altura devi andarci con una buona condizione, altrimenti ottieni solo di mettere il fisico in difficoltà. E se ci devi andare che stai bene, lo fai a ridosso dell’appuntamento. Andarci a inizio stagione ha poco senso, se non per stare magari con la famiglia in un bel posto. Ma secondo me anche questo cambierà.

Che cosa cambierà?

Perché i corridori devono stare sempre in montagna? Che vita fanno? Torneremo indietro perché le squadre con dei buoni atleti dovranno imparare a gestire anche i ritiri. Ripetere ogni anno lo stesso percorso di preparazione funziona al massimo per 4-5 stagioni. Poi gli atleti saltano di testa e i risultati calano. Guardo alla Ineos, per fare un esempio. E allora bisognerà che i direttori sportivi comincino ad ascoltare i corridori, quando gli dicono che vogliono saltare qualche ritiro. Siamo al limite.

Trentin nel 2021 ha fatto (finora) 68 giorni di corsa. Prima vittoria a settembre, debutto a fine gennaio
Trentin nel 2021 ha fatto (finora) 68 giorni di corsa. Prima vittoria a settembre, debutto a fine gennaio
E in ogni caso, a fine stagione sarai sempre meno performante che all’inizio?

Per forza. Anche per un fatto di freschezza. Ad aprile arrivi da un mese di vacanze e da lavori ben fatti per costruire la condizione. A settembre-ottobre i corridori arrivano da una stagione piena, in cui i lavori li hanno un po’ messi da parte, sono meno freschi e il livello della prestazione per questo è più basso.

Ad esempio ha avuto senso che dopo il mondiale tanti siano andati a correre l’Eurometropole Tour invece di riposare?

No per chi ad esempio aveva in programma di fare la Roubaix. C’è anche bisogno di recupero, perciò magari qualcuno si è ritirato. Ma il calendario è ancora pieno, guardate quanto è pieno…

Dove sono finiti quelli del 90? Solo pochi tengono duro

12.06.2021
6 min
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La paura fa… 90. Stavolta non c’entra nulla la cabala, ma un’annata che ha prodotto talenti incredibili anche se, per un motivo o l’altro, alcuni di loro si sono persi o non hanno mantenuto le aspettative trasmesse da dilettanti o dopo i primi anni di professionismo. Attenzione, in questa nidiata non mancano fenomeni assoluti però molti di loro hanno sofferto – anche più del dovuto – lo stress, fino ad arrivare al ritiro anticipato o ad una pausa di riflessione della carriera.

Sagan, classe 1990, continua a vincere ed è forse l’eccezione fra i corridori della sua età
Sagan, classe 1990, continua a vincere ed è l’eccezione fra i corridori della sua età

Capo Sagan

La stella polare di questa annata, in cui tengono banco Mikel Landa e Nairo Quintana, è senza dubbio Peter Sagan – 31 anni fatti a gennaio, passato nel 2010 in Liquigas, finora 117 vittorie totali di cui 58 nelle prime quattro stagioni da professionista – il quale ha abituato tutti sin troppo bene, al punto che qualche detrattore lo dipinge sul viale del tramonto quando, palmares alla mano, non gli si può contestare nulla. E tanto ha ancora da dare, pur dovendo fare i conti sia con la pressione del risultato, sia con la nouvelle vague dei giovani campioni affamati e pigliatutto.

Casi diversi

Della stessa classe di nascita dello slovacco abbiamo altri esempi di ragazzi che, dopo le speranze iniziali, avrebbero potuto dominare per molto tempo e che adesso sembrano essere invecchiati precocemente o appaiono incompiuti.

Naturalmente ci sono tante varianti – infortuni, avversari più forti – che condizionano una carriera e per qualcuno di essi hanno inciso tanto, troppo. Moreno Moser, Aru (in apertura contro Contador al Giro 2015), Cattaneo, Diego Rosa, Dumoulin, Pinot, Bardet e Phinney, per citare i casi più eclatanti, hanno alternato grandi successi a battaglie anche contro lo spettro di stati melanconici e umorali vicini alla depressione. E questi aspetti ti svuotano più di una tappa di trecento chilometri con settemila metri di dislivello.

Moreno Moser è del 90 e ha vissuto un primo anno da pro’ stellare, poi ha avuto cali di tensione
Moreno Moser è del 90 e ha vissuto un primo anno da pro’ stellare, poi ha avuto cali di tensione

Il punto di Amadori

Nel 1990 Marino Amadori – ct della Nazionale U23 dal 2009 – ha terminato la sua buonissima carriera da pro’ e a lui, che di giovani se ne intende, abbiamo provato a chiedere di analizzare questa particolare situazione proprio mentre sta seguendo dal vivo il Giro d’Italia U23 dove sta dominando il diciottenne Ayuso, il nuovo ennesimo fenomeno del panorama internazionale.

Da dove possiamo partire, da un confronto fra le varie epoche? 

Non è facile trovare i motivi o dire il perché. Ai miei tempi non c’era tutta l’esasperazione di adesso nel passaggio da dilettante a professionista. E che c’è anche tra gli juniores e le categorie vicine. Però va detto che non c’erano nemmeno tutta la attenzione e la cura che vengono riservate ai ragazzi attuali.

Battaglin ha lanciato lampi di classe e alternato momenti di buio
Battaglin ha lanciato lampi di classe e alternato momenti di buio
Spiegaci meglio.

Forse i ragazzi nati in quel periodo, fra il 1989 e il 1991, erano meno preparati nei minimi dettagli, sia fisici che mentali, rispetto a quelli di adesso al passaggio tra i pro’. Sono passati 10-11 anni, quindi non un’eternità, ma la differenza c’è e quelli di adesso soffrono meno il salto.

C’è un rovescio della medaglia per te?

Certo, e non è da sottovalutare. La seconda riflessione che faccio infatti è che così facendo si rischia di bruciare i ragazzi più di quelli del ’90, visto che l’abbiamo presa ad esempio. Adesso corridori, direttori sportivi, team manager, genitori, vogliono tutto e subito. Non c’è più pazienza, ma invece serve eccome, non bisogna avere fretta. Chiaramente non è così per tutti, però bisogna prestare attenzione. Inoltre molti ragazzi hanno attorno tantissime figure che da una parte tendono ad innalzare la loro qualità di atleta e dall’altra tendono a creare stress e pressioni.

Dumoulin, classe 90, vincitore del Giro 2017, poi un continuo calare
Dumoulin, classe 90, vincitore del Giro 2017, poi un continuo calare
Una volta un corridore a trent’anni suonati poteva essere considerato a fine corsa, ma lo sport dell’ultimo periodo ci propone talenti precoci e campioni datati. Nel ciclismo come funziona?

Intanto dico che per me un altro come Valverde (quarantunenne alla ventesima stagione da professionista ad altissimi livelli e pronto a rinnovare anche nel 2022, ndr) non lo troveremo più, mentre al giovane fuoriclasse non possiamo chiedere sempre il massimo perché vivono un insieme di situazioni non semplici. Poi dobbiamo anche considerare che talvolta qualcuno di loro si trova a convivere, ancora giovane, con un appagamento economico che può togliergli qualche stimolo. E questo può diventare un altro problema difficile da risolvere.

Secondo te Marino c’è una soluzione a tutto ciò?

La ricetta matematica non esiste, ci vuole molto buon senso da parte di chi gestisce questi ragazzi, ma non è semplice.

Giacomo Nizzolo, classe 1989, è esploso negli ultimi due anni perché vari infortuni lo hanno… protetto da un logorio eccessivo
Giacomo Nizzolo, classe 1989, è esploso negli ultimi due anni perché vari infortuni lo hanno… protetto da un logorio eccessivo
Ultima domanda: della lunga lista dei ragazzi del ’90, tutti di grande talento, da chi ti aspettavi qualcosa in più?

Li conosco tutti bene, sono diventato cittì quando loro erano dilettanti e ne ho convocati parecchi. Se posso allargo il discorso anche a qualche fuori età. Innanzitutto mi sento di fare i complimenti a Caruso, che è un po’ più vecchio ma che considero quasi di quella generazione, per il grande Giro d’Italia che ha fatto. E poi sono felice per Cattaneo che dopo anni di purgatorio sta facendo bene nella Deceuninck. Faccio però altri due nomi: Moreno Moser ed Enrico Battaglin, anche se lui è un ’89. Per me potevano fare tanto di più, ma è andata diversamente. Capita, questo è il ciclismo.

Chi paga di più le partenze forti? Ce lo spiega Pasqualon

17.05.2021
3 min
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La partenza folle di ieri rimarrà nelle gambe di molti. Nella frazione che portava a Campo Felice, la fuga ha impiegato quasi 70 chilometri prima di prendere il largo e di conseguenza si è corso per due ore a ritmi esasperati. Hanno fatto fatica, e tanta, persino gli uomini di classifica. Ciccone ha lamentato un grosso sforzo e l’ex maglia rosa Attila Valter ha detto che è andato in difficoltà sin dall’inizio. In più, c’erano parecchie salite da affrontare e la frazione di ieri avrà senza dubbio un certo peso nella tappa che si è corsa verso Foligno ed è quello che sostiene anche Andrea Pasqualon con cui abbiamo parlato prima del via da L’Aquila.

Andrea Pasqualon questa mattina al via di L’Aquila
Andrea Pasqualon questa mattina al via di L’Aquila

Gestione delle energie

Come ci si regola quando il gruppo parte forte? Quando la fuga non parte? Non è affatto facile, specie se il tracciato e mosso e se si è velocisti come il corridore della Intermarché-Wanty-Gobert.

«Ieri è stata davvero complicata. Non si pensa al giorno dopo, ma solo al giorno stesso. In queste situazioni, partendo anche in salita, noi velocisti cerchiamo di tenere il più possibile il gruppo. Se si resta da soli, diventa alto il rischio di finire fuori tempo massimo. Personalmente ci sono riuscito e anche relativamente bene, però ho speso molto. Mi sono potuto gestire solamente negli ultimi 30 chilometri. A quel punto non c’erano più pericoli e ho potuto risparmiare la gamba».

Ieri la fuga buona ha impiegato molti chilometri prima di partire
Ieri la fuga buona ha impiegato molti chilometri prima di partire

L’esperienza di Pasqualon

Certe situazioni vanno messe in preventivo. Lo si capisce dalla classifica, dal meteo, dal percorso: chi ha interesse ad andare forte? E in questi frangenti un corridore come Pasqualon la sa lunga. Tanto che prima di lasciare Castel di Sangro si è anche scaldato un po’.

«Non ho fatto i rulli – racconta – ma in previsione della partenza in salita ho iniziato a fare avanti e dietro per cinque minuti con la bici prima di schierarmi. Poi ho cercato di sfruttare il trasferimento che era di 5 chilometri».

Essere mentalmente preparati è vitale. Specie, lo ripetiamo, se si parte in salita.

«Ho visto un grande sparpaglìo di corridori – riprende il veneto – e il rischio di restare soli era molto elevato. Ho visto tanti velocisti far fatica e staccarsi presto e credo che oggi loro abbiano pagato, tanto più che ci sono alcune salite e molto vento laterale nel finale». E infatti Nizzolo, lo stesso Pasqualon e altri uomini veloci dopo il valico della Somma hanno alzato bandiera bianca.

Pasqualon in azione, un grande sforzo per lui
Pasqualon in azione, un grande sforzo per lui

Recupero rapido

E dopo la tappa come ci si è regolati con il recupero, soprattutto pensando che all’indomani le ruote veloci sarebbero state chiamate allo sprint?

«Noi velocisti in particolare abbiamo sprecato molto ieri, sicuramente in tappe del genere perdiamo anche potenza. La prima cosa che ho fatto è stata quella di recuperare dal punto di vista delle proteine. E a seguire ho aggiunto dei carboidrati a rapida assimilazione. Per il resto non cambiano le cose. Il massaggio è sempre quello».