Con la medaglia di bronzo conquistata nella madison dei mondiali, Michael Morkov ha chiuso da par suo la sua lunghissima carriera, iniziata da professionista nel 2009. A 39 anni il corridore di Kokkedal appende la bici al chiodo con 6 vittorie al suo attivo, tra cui 3 titoli danesi e una vittoria di tappa alla Vuelta di Spagna. Ma è soprattutto su pista che sono arrivati i suoi sigilli, tra cui un oro olimpico a Tokyo 2020 nella madison (ma anche l’argento nell’inseguimento a squadre in quella palpitante finale con l’Italia) e 4 titoli mondiali.
Se su pista Morkov è stato un leader, su strada ha elevato a questo rango il ruolo forse più subordinato di tutti, quello di ultimo uomo, divenendo per acclamazione planetaria il migliore interprete. Un maestro che lascerà un vuoto. Morkov però non resterà inattivo: per lui è già pronta l’ammiraglia di responsabile della nazionale danese su strada. Una nuova sfida, alla guida di una delle Nazioni più forti del momento.
Domenica hai chiuso la tua carriera con l’ennesima medaglia, oltretutto davanti al tuo pubblico. Che sensazioni hai provato nel tagliare l’ultimo traguardo?
Sono davvero orgoglioso di aver concluso a un livello molto alto. Nei miei ultimi campionati mondiali stavo ancora lottando per la medaglia d’oro e, naturalmente, non è mai piacevole perdere, ma sono comunque felice che abbiamo ottenuto la medaglia di bronzo e abbiamo fatto felice il pubblico danese. Non potevo chiudere meglio.
Tu hai vissuto due carriere parallele: maestro nell’aiutare i velocisti e grande specialista del ciclismo su pista. Quale delle due ti ha dato maggiori soddisfazioni?
Beh, penso che sia una combinazione perché in pista ho ottenuto le mie soddisfazioni, i miei obiettivi e i miei grandi risultati. Sulla strada, ero completamente determinato ad aiutare i miei compagni di squadra, quindi penso che sia stato il giusto mix.
L’ultimo uomo del treno dello sprint: per chi interpreta questo ruolo, che cosa significa vedere il leader vincere?
E’ come vincere la gara da soli, perché tu come uomo di testa sei molto concentrato per vincere la gara con il tuo velocista e per tutto il giorno lavori duramente per organizzare l’intera squadra e fare che tutto funzioni fino a quegli ultimi 200 metri, quando sarà lui a giocarsi la vittoria e devo metterlo nella posizione migliore. Bisogna avere fiducia in se stessi e guidare gli altri come leader. Posizionare il mio velocista e vederlo alzare le braccia è come una mia vittoria. Quindi questa è la sensazione migliore.
Qual è la più grande emozione che hai vissuto in bicicletta?
La risposta è semplice: vincere la medaglia d’oro olimpica a Tokyo. In quella madison c’erano grandi campioni tanto è vero che ce la giocammo tutta sugli sprint, senza guadagnare giri. C’erano grandi interpreti come Hayter e Thomas, eppure io e Lasse Norman Hansen ce la facemmo per tre punti. Penso che sia la medaglia più bella che puoi vincere come atleta. E sì, è stato molto emozionante.
Hai lavorato con tutti i migliori velocisti dell’ultimo decennio, chi è stato il migliore ma sopattutto quello che hai sentito più vicino?
Credo di aver stretto un rapporto molto stretto con tutti i velocisti con cui sono cresciuto e penso che questo rapporto umano sia anche una parte importante del successo che ho avuto con ognuno di loro. Direi sempre che il mio migliore amico è Cavendish: i suoi risultati parlano da soli, ma ha anche una conoscenza incredibile dello sprint, della tecnica pura. Sa esattamente cosa fare, il suo istinto e il suo tempismo sono perfezione pura. Ma c’è un corridore con cui ho un legame speciale…
Chi?
Viviani. Ora posso guardare indietro e vedere che forse i due migliori anni che ha avuto come professionista sono stati quelli in cui l’ho aiutato a vincere dappertutto, nel 2018 e 2019. Abbiamo vissuto un biennio speciale e penso che Elia sia il corridore che è riuscito a ottenere il massimo dal suo talento sapendo sfruttare una squadra molto forte. Aveva dei compagni di squadra molto bravi intorno a lui e quando i compagni di squadra facevano un buon lavoro per lui, riusciva sempre a concludere con una vittoria. Molti dei successi con Elia sono speciali, di cui sono orgoglioso.
Ora passerai sull’ammiraglia della nazionale danese: quali sono i tuoi obiettivi nel nuovo lavoro?
Battere i miei amici italiani – dice ridendo – No, a parte le battute, sono davvero motivato per questo nuovo incarico. Soprattutto per trasmettere tutta la mia esperienza ai giovani corridori danesi e spero davvero di poterli aiutare a crescere e diventare buoni professionisti e vincere gare in futuro. Quindi la mia ambizione è quella di poter gioire di altre vittorie non personalmente mie, ma nelle quali sento di averci messo qualcosa.
Oggi la Danimarca è uno dei Paesi leader nel ciclismo professionistico, ma non ha un suo team WorldTour: pensi che sia un problema?
Io non penso, corridori danesi bravi ci sono e sono riusciti a firmare con tutte le migliori squadre del WorldTour. Quindi non penso che sia strettamente necessario avere una squadra danese al massimo livello. E’ invece fondamentale avere è una squadra Continental o Professional, per tutti i ragazzi che hanno bisogno di imparare. Ci sono corridori capaci di entrare subito nel WT, ma tanti altri hanno bisogno di più tempo, di avvicinarsi con più calma, maturano più lentamente. Questo possono farlo se hai una squadra Continental molto buona. Poi abbiamo la Uno-X che è sì norvegese, ma con una forte componente nostrana ed è molto importante nello sviluppo dei talenti danesi.
Che cosa c’è dietro i Vingergaard, Pedersen e gli altri big del ciclismo danese?
C’è molto lavoro sui talenti, esattamente come dicevo prima. Provengono da un livello molto alto di squadre Continental in Danimarca con un livello molto, molto alto di professionisti. Hanno un grande fisico e capacità non comuni, ma sono frutto di un ottimo programma di sviluppo per i giovani corridori.
In prospettiva vedi Albert Withen Philipsen come un altro grande campione del WorldTour?
Andiamoci piano. In tutti gli anni in cui sono stato coinvolto nel ciclismo, ho visto molte volte corridori estremamente talentuosi da junior che poi non riescono a trovare gli stessi guizzi quando le cose si fanno serie. Albert è un corridore molto promettente, ma deve ancora migliorare molto per diventare il prossimo grande nome del World Tour. Io ovviamente non vedo l’ora di supportarlo e spero che diventerà presto quello che sogna di essere lui e tutti noi danesi.
Rispetto a quando hai iniziato, che ciclismo ti lasci alle spalle?
Un ciclismo molto professionale, molto più di quando iniziai vent’anni fa. Molte cose che si facevano allora, oggi sono considerate superate. In termini di allenamento, alimentazione, altitudine, sonno, campi di allenamento, equipaggiamento, dinamiche… Sono tutti aspetti che incidono molto. Per questo il ciclismo attuale corridori molto più talentuosi rispetto al passato, forse allora era più difficile diventare professionisti. Forse ora è più facile trovare i grandi talenti.
Uscendo dai confini danesi, c’è un altro Morkov, un corridore nel quale rivedi la tua storia e le tue capacità?
Oh, ci sono un sacco di grandi corridori in giro per il mondo, penso che la bellezza del ciclismo sia che siamo tutti diversi e veniamo da realtà differenti. Naturalmente ho uno spazio speciale nel cuore per i corridori che corrono in pista e che arrivano con le abilità della pista. E anche per quelli molto bravi nel gruppo. I ragazzi che hanno il potenziale per aiutare i migliori velocisti a diventare i più veloci. Quindi è lì che terrò gli occhi per il futuro.