L’ha cercata così tanto e così tanto ha lavorato sul Teide per arrivare al Giro in buona forma, che in qualche modo la vittoria di Bettiol a Stradella è come se l’avessimo vissuta con lui. E adesso che ce l’abbiamo davanti, sentendolo parlare, ci scorrono davanti agli occhi le immagini di quell’ultima salita in cui ha visto Cavagna, lo ha puntato, lo ha preso e poi gli è scattato in faccia. Ma più che le gambe, c’è voluta tanta testa.
«Conta sempre la testa – dice – la terza settimana del Giro è solo testa. Non è che Egan Bernal abbia meno mal di gambe di me. Potevo mandare tutti a quel paese perché non collaboravano. Sapevo che non avevo molte chance di riprendere Cavagna, ma sapevo di essere più forte in salita. Fosse stata tutta pianura, forse non ci sarei riuscito. Ma sull’ultimo strappo l’ho visto e ho avuto la forza mentale di scattargli in faccia e passare in testa, perché so cosa significa quando ti prendono e ti scattano in faccia. Volevo distruggerlo mentalmente, ma avevo un gran mal di gambe. E vi assicuro che non è stato per niente facile, dopo 230 chilometri e le tappe dure degli ultimi giorni. Capito perché è un fatto di testa?».
Un anno sofferto
La sua storia recente non è stata semplice. La vittoria del Fiandre doveva aprirgli i salotti buoni, ma gli si è quasi ritorta contro, in un miscuglio diabolico di attese non mantenute e sfortune d’ogni genere. E mentre cercava faticosamente di riprendersi dai suoi acciacchi, la morte di Mauro Battaglini l’ha come congelato in un’affannosa immobilità nei mesi del Covid in cui l’equilibrio personale ha fatto la differenza tra chi è riuscito a confermarsi e chi invece s’è fermato.
«Però non sopporto – attacca – che si vada a dire che il Fiandre l’ho vinto per un colpo di fortuna, soprattutto se a dirlo è chi lo fa di lavoro. Quel giorno avevo la gamba giusta e non si vince se non ce l’hai. Per il resto, sono umano e forse ho più difficoltà di tanti altri. Ho fatto buone prestazioni. La squadra mi ha sempre dato fiducia. So quanto valgo, dovevo solo dimostrarlo. Ero un ragazzo di provincia che non aveva mai vinto tra i pro’, ci sta che abbia un po’ sbandato. Mauro era una colonna per me, la sua mancanza mi ha fatto vacillare. E ancora oggi quando penso a lui, mi commuovo. Certo che quelle dita al cielo erano per lui».
Ciclista, non supereroe
La differenza, gli dicono, la fai credendoci. Coloro che l’hanno seguito sin da ragazzo e che partecipano alla sua carriera attuale, da Piepoli che lo allena e Balducci che lo assiste, non fanno che ripetergli che se credesse per primo nei suoi mezzi, i suoi limiti sarebbero ben più alti.
«Non sapete quanto siano incavolati quelli che mi seguono – dice – perché vado forte, mi temono, ma vinco poco. Vivo dei limiti che proverò a superare e cioè che si può vincere anche con il mal di gambe. Io pensavo di farlo sempre da supereroe, invece il ciclismo è uno sport umile. Devo fare di più, è il mio obiettivo. E lo farò soffrendo e prendendo bastonate».
Pane e Giro
La partecipazione al Giro non è stata per caso. Quando nasci in un paesino toscano e sei cresciuto a pane e Giro d’Italia, va bene vincere sulle stradine delle campagne fiamminghe, ma c’è ancora più gusto a farlo in Italia.
«L’ho voluto questo Giro d’Italia – racconta – volevo tornare nella mia terra. Volevo vedere a che punto ero con la mia maturità. Il ciclismo ci insegna più a perdere che a vincere e per questo sono contento di aver vinto al Giro. Durante la tappa ero concentratissimo e molto determinato dentro di me. Avevo molti amici in quel gruppo, uno è Nico Roche, ma non ho parlato con nessuno. Volevo vincere. Anche se dopo l’arrivo, proprio lui ha idealmente dismesso i panni del Team Dsm ed è venuto ad abbracciarmi. E’ un bravissimo ragazzo, anche lui ha vissuto i suoi momenti difficili. Abbiamo condiviso i giorni sul Teide prima del Giro e quel tempo passato non si dimentica dopo una corsa».
Limiti da scoprire
E proprio i giorni sul Teide hanno fatto la differenza. Al punto che il suo allenatore Leonardo Piepoli, scherzando gli ha proposto di perdere un paio di chili e puntare la prossima volta alla classifica generale.
«Poche volte – dice – sono andato così forte in salita. Mi piace prepararmi sul Teide e lassù, per poco che ti alleni, fai 3.300 metri di dislivello. Piepoli mi dice anche che finché non trovi il tuo limite, non puoi sapere quali limiti hai. Io sto bene e in questi giorni sto parlando molto anche con Cassani. Questa vittoria è un bel segnale anche per lui. Sono un uomo di sport, chiaro che andare alle Olimpiadi sia un sogno che può diventare un obiettivo. Diciamo che sono un bell’obiettivo, anche perché qui al Giro le tappe per me sono finite e da domani si torna a lavorare per Carthy, dopo che la squadra mi ha concesso questo giorno di libertà».
Messaggio per Cassani
E proprio parlando di Olimpiadi, nel toto-Tokyo fra giornalisti si è soliti fare i nomi di Nibali e Moscon, Caruso e Bettiol e un quinto che poteva essere De Marchi e adesso Ulissi oppure Ciccone se si riprenderà o chiunque altro, Aru compreso, dimostri di andare forte entro il 5 luglio, quando Cassani dovrà dare i nomi. E a quel punto, davanti alla rosa, ci si chiede: chi di loro però ha mai vinto grandi corse? La risposta è facile: Nibali e Bettiol.
«Perché vincere le gare monumento – dice – non è per tutti. Si parla di gare di oltre sei ore, il limite oltre il quale alcuni smettono di andare forte. Solo pochissimi ci riescono e sono gli stessi che poi possono lottare per i mondiali e le Olimpiadi, appunto. Vincere una prova monumento fa tanto e la tappa di oggi, di 231 chilometri alla fine del Giro, sia pure senza grande dislivello, fa vedere qualcosa. E’ un bel segnale, come è bello il rapporto che abbiamo con Cassani. Lui parla in modo molto diretto e noi siamo sinceri con lui. E questa è davvero una vittoria che significa tanto».