Dal 2008 Eddy Mazzoleni manda avanti il suo ristorante, il Casanova di Curno, assieme al socio che gli ha messo il nome. Daniele Casanova, appunto, suo cugino di secondo grado, già cuoco in ristoranti stellati. Il bergamasco ha impiegato un anno, dopo aver smesso di correre, per scegliere quale strada intraprendere. E anche se il momento per chi fa ristorazione non è affatto semplice, con la possibilità di tenere aperto soltanto a pranzo, dice di averne approfittato per stare un po’ di più a casa. Dato che, a cose normali, starebbe nel locale da mattina a sera.
«Non siamo tantissimi – dice – in tutto una decina. Per cui si è fatta un po’ di cassa integrazione con i dipendenti, ma ora stiamo lavorando tutti. La fortuna è che il locale è mio, per cui la voce dell’affitto non va considerata».
Gregario di lusso
Eddy era una forza della natura. Diventò professionista nel 1996 con la Saeco e passando per il Team Polti, la Tacconi Sport poi Vini Caldirola, di nuovo la Saeco, Lampre, T-Mobile e Astana e si fermò contro un’accusa di doping in realtà non suffragata da prove. Aveva già 34 anni e valutò che non valesse la pena imbarcarsi in una costosa disputa legale che comunque non gli avrebbe permesso di correre. E così pensò di occuparsi d’altro.
Era stato tra gli artefici della vittoria di Cunego al Giro del 2004. Prima ancora, braccio destro di Gotti e di Garzelli, dopo anni di apprendistato alla corte di Cipollini. Poi lo presero per aiutare Ullrich e alla fine per Savoldelli, che però cadde al Giro del 2007 lasciando al compagno via libera verso il terzo posto.
La ruota storta
Giusto per farci una risata, lo conoscemmo mentre il suo direttore sportivo Locatelli lo copriva di improperi al Giro d’Italia dilettanti del 1994. Infatti Eddy aveva fatto un’ottima crono in Romagna e al traguardo Olivano si era accorto che aveva corso con il tubolare che toccava contro il fodero orizzontale.
«In tanti anni che ho corso – si fa a sua volta una risata – mi è successo solo con quella bici Colnago e quelle ruote. Sotto sforzo il mozzo mollava e la ruota si storceva. Ero proprio forte, si vede, perché non me ne ero neppure accorto».
Come sono stati gli anni dopo aver smesso?
Il tempo passa. Ormai ho fatto più anni da ristoratore che da professionista. All’inizio ebbi qualche difficoltà, perché venivo davvero da un altro mondo. Sono serviti due anni per togliermi la mentalità del corridore.
Esserlo stato non ti ha lasciato niente?
Mi è servito parecchio. Mi ha insegnato la metodicità nel lavoro, la capacità di non mollare quando si fa dura. E’ stato una scuola di vita, anche se la mia vita a un certo punto l’ho trasformata. Chi era inquadrato nel ciclismo, ne ha tratto vantaggi. Per chi non lo era, non cambia poi molto.
Pensi mai ai tuoi anni in sella?
Certo e penso che sono stato fortunato. Ho fatto il mestiere che avevo sempre sognato e di conseguenza ho il rammarico di aver smesso prima. In quel periodo le cose andavano in modo strano e dare la colpa solo ai corridori è stato per anni il modo di non fare chiarezza. Oggi sarei forse più forte e senza tanti stress. Chi ha qualità esce più facilmente.
Il sogno…
Alle elementari facevo i compiti con la tele accesa, per guardare Moser, Saronni e Lemond. Volevo esserci anche io, ma poteva sembrare un sogno di bambino. Perciò se penso a tutto quello che ho fatto, sono contento. Il terzo posto al Giro dimostrò che potenzialmente non ero solo un gregario.
Quali furono i tuoi capitani?
Ho imparato tanto da Cipollini. Come allenarsi, come mangiare, la messa a punto della bici. Alla Saeco capitai nel pieno della lite fra Cunego e Simoni e mi ritrovai dalla parte di Cunego. Poi Gotti e Salvoldelli, con cui ho un rapporto di amicizia anche dopo tanto tempo. Con Garzelli, alla Caldirola, eravamo una squadra piccola, come oggi l’Atalanta. Nessuno ci considerava, ma facemmo grandi cose.
Se qualcuno ti chiede il perché tu abbia smesso?
Me lo chiedono spesso anche al ristorante. Se è gente che non sa nulla di ciclismo, dico che avevo raggiunto un’età in cui era meglio smettere. A chi conosce il ciclismo dico di aver avuto un problema, per il quale mi hanno fatto smettere.
E’ un peso che ti porti addosso?
No, poteva succedere ed è successo anche ad altri. Non ho fatto male a nessuno, non sono mai risultato positivo. Sono finito in delle intercettazioni e tanto bastò.
Eddy, vai ancora in bicicletta?
Farò a dire tanto 1.000 chilometri all’anno. Vado in palestra, corro a piedi. Mi alleno 4-5 volte a settimana, ma sapete com’è la bici, no? Se esci poco, ogni volta è una pena. E se ricordi i vari tratti di strada e le velocità con cui li facevi, ti viene male passarci al rallentatore.
Dove abiti?
Vivo a Palazzago e convivo con Alessandra Bianchini, sono felicissimo con lei anche perché condividiamo la passione per lo sport e soprattutto la bici. Vedo mia figlia Camilla, che ha 10 anni. Vedo Gotti due volte a settimana, perché viene a mangiare da noi. Vedo Fidanza, perché abita nel mio paese. Seguo gli altri su Facebook.
La tivù è sempre accesa sul ciclismo come quando Eddy era un bambino?
Non guardo tutte le tappe, ma non mi perdo quelle più belle. Non sono più così assiduo e anche con i nomi faccio un po’ fatica. Però negli ultimi 2-3 anni sono usciti dei bei corridori che fanno la differenza. Van der Poel, Evenepoel, Pogacar, Roglic. Prima non c’erano e peccato per gli italiani. Credo stia passando da noi il buco che hanno avuto per un po’ i francesi, ma sono fasi che passano. Tutto passa. Passerà anche il Covid. La vita va sempre avanti, mai dimenticarlo.