Flavio Zappi e la sua accademia per il ciclismo

18.01.2023
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Pagare per correre o correre pagando. Viviamo l’epoca di un ciclismo dove si vedono talenti rinunciare e ritirarsi da carriere brillanti in età premature, le chiavi di lettura sono infinite. Pochi giorni fa Thibaut Pinot ha annunciato il suo ritiro dicendo: «Ora sono pronto per la vita intera».

Quella di Flavio Zappi e la sua Racing Team Cycling Academy è una storia interessante che merita di essere raccontata. Il suo scopo è quello di far sì che ragazzi di tutto il mondo provino a giocarsi le carte per realizzare il proprio sogno, invece che rinunciare e proseguire la vita con il peso di un rammarico. Per noi italiani è forse un concetto lontano, quasi incomprensibile. Trovare una squadra pronta a fare correre non è poi così difficile. Flavio però pensa che ci siano realtà che nemmeno con il talento sportivo riescono a trovare i mezzi per mettersi in mostra. Ed ecco che la sua idea di ciclismo inizia ad avere senso…

Lo Zappi Racing Team quest’anno conta ben 17 atleti
Lo Zappi Racing Team quest’anno conta ben 17 atleti

Siamo andati a vedere da vicino questa realtà, che da quest’anno avrà base fissa nell’Hotel Villa delle Fonti, che ha comprato e cui a brevissimo cambierà il nome. Flavio ci ha accolto con il suo entusiasmo carismatico e il suo italiano condito da una cadenza inglese dovuta all’esperienza di vita a Oxford dove tutto è nato. Abbiamo bussato alla porta senza pregiudizi, ma con l’intento di ascoltare la storia di un uomo e della sua idea di ciclismo. 

Flavio perché hai aperto questa accademia?

Non lo faccio per soldi. Sono ormai 10 anni che non penso più al guadagno, sono successe delle cose in famiglia che mi hanno fatto arrivare a questo pensiero, in più ho la passione per il ciclismo. Ho 63 anni. Questo progetto con Maria Arroyo mi dà una linfa in più per vivere. 

Come mai Riolo Terme?

Prima di questa base fissa, la nostra era una vita da “zingari” tra Cesenatico, Borello, Cervia… Bellissimo, ma una confusione continua. Più che altro per i ragazzi spostarsi ogni tre mesi era difficile dal punto di vista logistico. Cercavo un albergo a tutti i costi, qualcosa di solido alle spalle, un punto fermo. La mia idea principale era il mare, però i prezzi sono esorbitanti e gli edifici sono scadenti. Parlandone con Marco Selleri è venuta fuori questa possibilità su collegamento di Davide De Palma che organizza il Rally di Romagna. E si è presentata questa opportunità di avere base fissa qui a Riolo Terme. La zona si presta bene agli allenamenti e le strade sono belle.

Che progetti avete per l’hotel?

Pensiamo di ricavarci uno spazio per ciclisti oltre che per la squadra. Vengo da un’esperienza a Oxford dove avevo cinque caffè. Qui voglio farne uno per ciclisti, con un meccanico a disposizione, e creare spazi appostiti per appassionati dove fermarsi e guardare il Giro o il Tour. Per realizzare tutto ci vorrà almeno un anno.

Facciamo un passo indietro, chi è Flavio Zappi?

Ho fatto un breve periodo da professionista. E’ stata una scelta mia, non volevo essere coinvolto in quello che di lì a poco sarebbe stato il periodo nero del ciclismo. Me ne sono accorto e ne sono uscito subito. Mi ricordo bene quando dissi che a cinquant’anni sarei voluto essere ancora vivo. Si pasticciava troppo così mi ritirai a 25 anni e fu una grossa delusione. Sono rientrato 15 anni dopo. Decisi di rimettermi in sella per fare un po’ di attività e dopo sei mesi correvo insieme ai dilettanti inglesi, là non c’è limite d’età. Poi ho fatto un club, in uno dei caffè che avevo.

Da dove viene la passione per il ciclismo?

E’ partita dalla Colombia (dice rivolgendo lo sguardo verso Maria, anche lei colombiana, ndr). I miei genitori avevano un albergo a Tradate, vicino a Varese. Nel ’71 c’erano i campionati del mondo su pista. La nazionale colombiana alloggiava nel nostro albergo. Quella del famoso “Cochise” Rodríguez che vinse poi il campionato del mondo inseguimento. Insieme a mio fratello, anche lui appassionato, rubammo le bici dal garage e andammo a un giro. La prima sensazione che ricordo fu quella della velocità di quelle bici così futuristiche. Da lì iniziò tutto: allievo, juniores e così via. 

Maria Arroyo si occupa di tutta la parte organizzativa e del design della squadra
Maria Arroyo si occupa di tutta la parte organizzativa e del design della squadra
Torniamo ai giorni d’oggi e al tuo progetto. Come vede la gente il tuo modo di fare ciclismo?

Ho avuto parecchie critiche inizialmente, mi hanno puntato il dito contro e hanno detto: «Tu fai pagare i ragazzi per correre». Io sto dietro i ragazzi da febbraio a ottobre, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Alle corse, quando cadono, quando piangono. Quando un corridore cade in allenamento, va al pronto soccorso e trova mamma e papà al suo fianco. Qui ci sono io e questo non ha prezzo. Oltre a quello c’è tutta la crescita formativa. I ragazzi devono crescere imparando tutti gli step di questo sport. Si fanno briefing, si parla. Un diesse li porta alle corse e li vede in allenamento, oppure direttamente alla corsa dopo. E’ un approccio olistico, dall’alimentazione, alla posizione in bici, alla tattica. Secondo me non ha prezzo. Se dovessi veramente farlo per soldi, dovrei fare pagare quello che chiedono in altri sport e cioè cinque volte di più. Io non nascondo che faccio pagare circa 14/15 mila euro all’anno. Altri sport come tennis, sci e altri hanno accademie dove si parla di 50 mila euro in tre mesi. 

Come rispondi a queste critiche?

Io lo faccio così e questo è il mio pensiero. Corridori come James Knox, oggi alla Soudal-Quick-Step, Mark Donovan, alla Q36.5 Pro Cycling Team, e Charlie Quarterman, al Team Corratec, sono delle realtà che sono partite da zero. Posso fare una dozzina di nomi di ragazzi che in questi 10 anni hanno trovato la loro strada. E’ facile prendere un talento e vincere. I ragazzi che ho avuto io hanno tutte storie uniche.

Zappi con le maglie disegnate da Maria Arroyo, qui quella con la bandiera caraibica
Le maglie disegnate da Maria Arroyo, qui quella con la bandiera caraibica
Com’è partito tutto?

La mia idea iniziale era quella di fare il Tour de France a 50 anni. La mattina mi svegliavo, mi guardavo allo specchio e dicevo: «Sono tornato». Mi sentivo forte e lo ero. Facevo ricerche su chi fosse il più vecchio a fare un grande Giro, ero impazzito. Finché uno dei miei amici con cui mi allenavo a Oxford, un professore che tra l’altro mi ha fatto capire tante cose sui test del lattato già 15 anni fa, mi fece cambiare idea. In uno dei momenti dove mi sentivo più orgoglioso e motivato, mi disse: «Flavio smettila, i ragazzini in fondo hanno bisogno di te». Così iniziai a pensare a loro e a portarli a correre, mettendomi al loro servizio. 

Oggi la tua squadra conta 17 atleti da 6 diversi Paesi…

Sì e la mia idea è di rendere tutto ancora più cosmopolita. L’anno del Covid sono scappato e mi sono rifugiato ai Caraibi con un mio caro amico e la moglie. Inevitabilmente abbiamo iniziato a cercare il ciclismo anche lì. Così abbiamo sponsorizzato due ragazzi a fare la stagione in Italia. Chiaramente la cosa ha creato interesse, fino a che due di loro hanno chiesto di fare una stagione qua, non hanno i soldi per farlo, così le federazioni pagano per loro. Abbiamo quindi creato un ponte che arriva fino a Cuba. Quest’anno abbiamo anche più italiani, siamo arrivati a quattro. Tra questi c’è una mia sfida, Andrea Cantoni, un ragazzo con molta potenzialità e forza, credo molto in lui. Abbiamo anche fatto una collaborazione con una squadra colombiana. L’unica squadra colombiana gestita da una donna. Facciamo uno scambio, due ragazzi vanno là per tre mesi e due vengono qua.

Saranno quattro gli italiani al via in questa stagione nella squadra di Zappi
Saranno quattro gli italiani al via in questa stagione nella squadra di Zappi
Non credi che l’Italia sia il posto più difficile per questo tipo di fare ciclismo?

Quando abbiamo deciso di correre in Italia, ho cominciato a bussare a qualche porta: in Inghilterra mi dicevano che correvo lontano da casa, in Italia mi dicevano che i corridori erano stranieri. Così ho comunicato ai ragazzi che se avessero voluto li avrei guidati io, ma che si sarebbe dovuto fare alla romana. Oggi invece che stiamo diventando una realtà cosmopolita, l’interesse cresce e la nostra squadra vanta corridori da tutto il mondo. Ci guardano in molti e chissà cosa ci riserva il futuro

In base a cosa Flavio Zappi definisce una stagione positiva?

Dal punto di vista dei risultati, si misura in termini di vittorie. Si pesa anche in base a quanti ragazzi sono passati al professionismo. Per me tuttavia il risultato è vedere che i ragazzi anche se non sono andati bene, hanno capito se questa era la loro vita o no. Vederli iniziare una vita serena per me è un risultato altrettanto gratificante. Ho l’esempio di un ragazzo che ha fatto un’esperienza con noi e ora lavora in un’ambasciata. Altri che mi ringraziano tuttora per la possibilità che gli ho dato e che gli è servita per quello che sono diventati ora. Diventare professionisti non vuole dire realizzarsi per forza. I ragazzi qui capiscono anche che strada può prendere la vita senza che sia tutto o niente. Ma questo dovrebbe essere così anche altrove e purtroppo non lo è. Mi piacerebbe lo fosse…