Guarnieri, il ciclismo è come la vita: nessuno si salva da solo

29.11.2021
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C’è un tempo per fuggire e uno per restare, nella vita come nel ciclismo. E’ un istante, che in una tappa dura un millesimo di secondo a consentirti di vincere o perdere una corsa e in una carriera può essere un giorno, un episodio, una scelta sbagliata. Per Jacopo Guarnieri, 34enne della Groupama-Fdj, la scelta di smettere di fuggire e iniziare a restare è sopraggiunta in due momenti. Agli esordi da pro’, quando ha provato ad inserirsi in due fughe ma si è sentito «come Fantozzi alla Coppa Cobram». Poi quando ha provato a vestire i panni di velocista di punta di una squadra, ma ha capito che non avrebbe potuto primeggiare. E così, ha scelto di restare, accanto al proprio capitano, che da quattro anni si chiama Arnaud Demare.

Assieme a Marangoni

La sua trasformazione l’ha raccontata in una serata al Bikefellas di Bergamo dal titolo “L’insostenibile leggerezza della fuga” introdotto dalla redazione di Bidon che ha presentato il suo ultimo libro “Vie di fuga”. In una sorta di cronometro a coppie, con l’imprevedibile ex pro’ Alan Marangoni come spalla, Guarnieri ha raccontato dei suoi tentativi di fuga.

«La prima volta a De Panne. Correvo nella Liquigas – ha detto – e in fuga mi ci ero ritrovato, così dall’ammiraglia mi hanno preso a male parole, ordinandomi di tornare in gruppo per aiutare il nostro velocista, Chicchi. L’ho fatto, ma nel tirargli la volata ho tamponato Cavendish e abbattuto Leif Hoste, idolo di casa.

«Mi ero detto che in fuga non ci sarei più andato e invece l’ho rifatto qualche anno dopo, sempre in Belgio. Fu una fuga composta da corridori “pazzi” e infatti il gruppo ci riprese a 100 chilometri dall’arrivo. Lì, mi sono detto che il mio posto era rimanere in quel ventre materno che è il gruppo».

Fra Demare e Guarnieri c’è ormai un grandissimo rapporto di stima iniziato nel 2017 (foto Instagram)
Fra Demare e Guarnieri c’è ormai un grandissimo rapporto di stima iniziato nel 2017 (foto Instagram)

Aiutare chi è più forte

Giusto qualche volata in proprio per capire poi una cosa: «Il mio posto nel mondo – spiega – era aiutare chi era più forte di me. Arriva un punto nella carriera che devi decidere chi essere e cosa fare, serve grande onestà con se stessi. Ora, io rimpiango di non aver preso prima quella decisione, perché provo una grande emozione nell’aiutare Demare. Sono privilegiato perché sono il suo ultimo uomo, quello che lo vede più da vicino quando alza le braccia al cielo al traguardo e il primo a poterlo abbracciare». 

La tensione del gregario

Lo sguardo e la voce di Guarnieri, a questo punto, si incrinano, quasi commosso abbandona la goliardia che lo contraddistingue e che ha reso la serata frizzante come una volatona di gruppo, e veste i panni del gregario modello, quale è.

Guarnieri e Marangoni sono amici dagli anni assieme alla Liquigas
Guarnieri e Marangoni sono amici dagli anni assieme alla Liquigas

«Il gregario è il simbolo del ciclismo – osserva – al di là di ogni retorica. Gregario lo sei dal primo all’ultimo chilometro, ci sono momenti della corsa che dalla tv sembrano noiosi, ma in gruppo bisogna sempre sgomitare, la tensione è altissima. Penso a quando bisogna portare le borracce. In gruppo c’è una legge non scritta che quando si risale dalle ammiraglie dal rifornimento, si grida “service” e si ottiene una corsia preferenziale ai lati, ma mica sempre ti fanno passare. E se stai prendendo una salita e non riesci a servire il tuo capitano, hai perso».

Nessuno si salva da solo

Ma fare il gregario è molto di più, è anche convivere col proprio capitano fuori dalle corse, conoscersi, capire le difficoltà da uomo e da corridore e fare di tutto per porvi rimedio. Guarnieri è gregario anche sul divanetto del Bikefellas quando preferisce esaltare le doti umane di Demare, evidenziando come sia uno che ringrazia sempre e che si prende tutte le colpe quando le cose non vanno al meglio.

Sono passati 10 anni esatti, dal 31 marzo 2011, dall’ultima vittoria di Guarnieri a La Panne
Sono passati 10 anni esatti, dal 31 marzo 2011, dall’ultima vittoria di Guarnieri a La Panne

Oppure raccontando della sua ultima vittoria, quando fu proprio Marangoni – compagno di squadra alla Liquigas – ad aiutarlo più che nel sostenerlo in gara e raccogliergli «i copriscarpe che avevo deciso di togliermi in una giornata tremenda» standogli vicino in un periodo in cui i rapporti col team erano naufragati.

«Questo è lo spirito del gregario, questo è il ciclismo», che ci piace tanto perché è metafora della vita: nessuno si salva da solo.

De Gendt, la vita è un colossale cubo di Rubik

05.11.2021
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Vincere una tappa con una fuga è un po’ come risolvere il cubo di Rubik: difficile, ogni tassello deve essere al suo posto, servono applicazione, scaltrezza, studio, capacità. Il perché di questo paragone ce lo suggerisce l’estro di Thomas De Gendt, belga (pardon, fiammingo) che domani compirà 34 anni. Corridore amatissimo dal pubblico proprio per la sua filosofia di corsa (attaccare, attaccare sempre, che poi si è scoperto essere una necessità quasi fisiologica), ha parlato della sua carriera al Bikefellas Cafè di Bergamo dove ha presentato la versione italiana del suo libro: “Solo” (AlVento edizioni, originale scritto da Jonas Heyerick).

Un titolo emblematico, scelto da una casa editrice che ha così inaugurato una collana di libri in cui celebrerà gli eroi non sempre vincenti al traguardo, ma primi nel cuore del pubblico, oltre che i campioni (prossima uscita: la bio di Julian Alaphilippe).

Il cubo di Rubik

Dunque, il cubo di Rubik come una fuga per la vittoria, due delle quattro passioni di Thomas che ama anche la birra e la PlayStation. Del suo feeling con le fughe, sapevamo, della sua abilità col cubo, meno, ma proprio al Bikefellas ne ha dato prova risolvendo l’enigma con una progressione delle sue: non si capiva cosa stesse facendo, ma all’improvviso, ecco la vittoria. «Il mio record è di 29 secondi – dice – ma su c’è gente che ce ne mette 3-4».

La presentazione del libro si è svolta ieri al Bikefellas Cafè di Bergamo
La presentazione del libro si è svolta ieri al Bikefellas Cafè di Bergamo

Pro’ a 18 anni

Il cubo però può avere più di quattro facce e diventare quasi irrisolvibile. Quasi irrisolvibile, come la lettura di questa sua annata, dove ha fatto registrare i migliori livelli nonostante l’età, eppure si staccava da 70 corridori.

«Il motivo? Ormai i giovani diventano professionisti a 18 anni – spiega – non più a 22-23. Vengono seguiti con app che controllano come e quando si allenano, i valori che esprimono, che gli dicono quando e cosa mangiare. Sono tenuti sotto pressione e questa richiesta assillante di prestazioni, insieme alla loro esuberanza, rende le corse durissime. Ecco perché ho deciso di evolvermi e dedicarmi a Caleb Ewan per fargli da gregario e non pensare più alle fughe».

Con Froome nelle retrovie all’ultimo Tour, facendo i conti con il nuovo che avanza
Con Froome nelle retrovie all’ultimo Tour, facendo i conti con il nuovo che avanza

Cacciatore di fughe

Il re delle fughe che le fughe dovrà riassorbirle, giunto al crepuscolo della sua carriera si rassegna al fatto che ad un certo punto fermarsi è questione di sopravvivenza. Lui, che uno stop mentale ha già dovuto affrontarlo vivendo un periodo di depressione, che è ripartito e ha vinto ancora: cosa che altri colleghi non sono riusciti a fare. Fanno riflettere le sue parole.

«E’ facile che la carriera dei corridori di oggi e di domani si accorci – ha detto – perché se iniziano con questo spirito, non possono reggere a lungo. Penso ad Aru, a Pinot, a Dumoulin, ognuno per un motivo proprio ha dovuto alzare bandiera bianca, ritirarsi o accettare di non poter più essere protagonista».

Da sinistra, l’interprete, l’editor del libro Filippo Cauz, De Gendt e a seguire l’editore Davide Marta
Da sinistra, l’editor del libro Filippo Cauz, De Gendt e a seguire l’editore Davide Marta

Piede a terra sul Koppenberg

I valori entusiasmanti di Pogacar, Roglic, Van der Poel, Van Aert impressionano tutti e danno vita ad un ciclismo esaltante, spettacolare, dove le fughe sono anche per vincere un Tour, non solo per far vedere lo sponsor in mondovisione. Ma il prezzo da pagare potrebbe essere alto.

Dire che bisognerebbe darsi una calmata rischierebbe di essere il solito discorso nostalgico, ma il messaggio per direttori sportivi, team manager, sponsor, procuratori è forte e chiaro. E poi pensare che un corridore come De Gendt riesca ad ammettere che «la mia salita test è il Koppenberg, ma mi capita di dover mettere il piede a terra» non accende quella scintilla nel cuore degli appassionati di ciclismo, che vivono più di sofferenze e di sconfitte che di trionfi e palmarès?

Il saluto a Bergamo lo fa ricordando un compagno bergamasco alla Vacansoleil, Matteo Carrara, che al Giro del 2012 lo pilotò nell’ultimo tappone fino ai piedi dello Stelvio, sede d’arrivo dopo aver scalato l’inedito Mortirolo da Tovo di Sant’Agata. L’impresa riuscì a metà: De Gendt vinse la tappa, ma dovette accontentarsi del terzo posto finale, dietro a Hesjedal e Rodriguez.