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A 37 anni Froome è ancora lì. Con il sogno di sempre…

13.11.2022
5 min
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Chris Froome ha valicato la soglia dei 37 anni. Nel 2022 ha corso per 62 giorni e solo in uno di questi è sembrato essere, seppur lontanamente, quel corridore capace di entrare nella ristretta cerchia dei vincitori di tutti i grandi giri, portandone a casa ben 7 (4 Tour, 2 Vuelta, un Giro). Un campione la cui parabola ascendente si è bloccata quel maledetto 12 giugno 2019, con quella caduta al Giro del Delfinato proprio prima della cronometro, quando il suo fisico andò letteralmente in pezzi come un bicchiere di cristallo.

Riprendersi, anche solo per camminare e poi salire su una bici, fu uno sforzo sovrumano, ma ora Froome è lì, che anno dopo anno pedala in mezzo al gruppo, spesso anche in fondo. Tanti nel profondo pensano: «Ma chi glielo fa fare? Tanto ormai…». E’ proprio quell’ormai che dà al britannico la forza di insistere, che gli dice di non arrendersi perché la sua bella storia non può finire così.

Ai suoi interlocutori Froome è apparso più ottimista sul suo futuro, per nulla demoralizzato
Ai suoi interlocutori Froome è apparso più ottimista sul suo futuro, per nulla demoralizzato

Quel giorno all’Alpe d’Huez

Dicevamo di un giorno del 2022, un giorno speciale. Il giorno dell’Alpe d’Huez al Tour de France. Chi c’era dice che vedendolo passare sembrava che le lancette del tempo fossero tornate bruscamente indietro, a quando Froome dava spettacolo davanti a tutti. «Quello è stato il miglior giorno da tre anni a questa parte – afferma il britannico – perché mi sono sentito rinato, ero di nuovo io».

Quel giorno Froome raggiunse la fuga principale sulle rampe del Galibier, prese di petto la Croix de Fer e diede battaglia sull’Alpe d’Huez finendo dietro solo al vincitore Pidcock e a Meintjes. Era tornato il Froome dei bei tempi, per un attimo fuggente.

Ripensandoci, Froome, intervistato da Cyclingnews, tiene i piedi saldi per terra nel giudizio della stagione che non può certo dipendere da una sola giornata: «E’ stato un anno iniziato male e finito peggio. Un altro anno scivolato via, ma che mi ha lasciato un barlume di speranza e a quello mi aggrappo con tutte le forze. Avevo iniziato il Tour come preparazione per la Vuelta, il mio vero obiettivo dopo aver avuto tanti problemi fisici a inizio stagione. Ho iniziato a sentirmi di nuovo io, come non mi accadeva da tantissimo tempo. Poi, improvviso, ecco che arriva il Covid. Io sono asmatico e quella maledetta malattia mi ha lasciato strascichi che mi sono portato dietro per tutto il resto della stagione.

E’ la scalata dell’Alpe d’Huez e Froome sembra tornato a brillare
E’ la scalata dell’Alpe d’Huez e Froome sembra tornato a brillare

Tutto rovinato dal Covid

«L’Alpe d’Huez è stata un momento per me importante. Ho lottato, come non potevo fare da tempo. Le gambe rispondevano. Andavo meglio di quanto pensassi, considerando che per me era una preparazione per un altro grande giro».

Quel ritiro ha interrotto il sogno e Froome ne è cosciente: «Ho ricominciato ad arrivare in fondo al gruppo. La Vuelta stava andando al contrario di come speravo, ma proprio pensando all’Alpe d’Huez dicevo ogni giorno che dovevo arrivare al traguardo, accumulare chilometri e fatica perché mi sarebbero venuti utili in seguito. Guardavo già al 2023 e lo faccio ora consapevole che ci sono dei lati di quest’annata sfortunata che mi fanno ben sperare.

Il britannico ha chiuso la Vuelta al 114° posto, ma ha voluto concluderla pensando al 2023
Il britannico ha chiuso la Vuelta al 114° posto, ma ha voluto concluderla pensando al 2023

Mente già puntata al 2023

«Intanto è stato il primo anno dal 2019 nel quale non ho sentito alcun effetto della caduta di Roanne. Poi il fatto che prima del Covid avevo raggiunto una condizione che non toccavo da tre anni a questa parte. Io vorrei ripartire da lì, ma c’è tanto da fare».

Froome ha già ripreso la preparazione e guarda al 2023 con ottimismo, «a condizione però che tutta la prima parte sia un periodo ininterrotto di allenamenti e gare senza acciacchi, malattie, infortuni. Poi voglio inseguire obiettivi mirati, non grandi, legati a vittorie parziali in corse a tappe, lottare per qualche classifica, ripartire insomma da target che possono essere alla portata».

L’ultimo grande giro vinto da Froome: la corsa rosa del 2018. E’ anche l’ultima grande vittoria
L’ultimo grande giro vinto da Froome: la corsa rosa del 2018. E’ anche l’ultima grande vittoria

Entrare nel “club dei 4”

Considerando il suo passato, perché allora tirare diritto per obiettivi che nulla darebbero di più alla sua fantastica carriera? Intanto perché ogni risultato, ancor più una vittoria avrebbero il dolce sapore del riscatto contro il destino. Poi perché nel suo cuore alberga sempre il sogno di entrare a far parte del “Club dei 4”, coloro che hanno vinto per 5 volte il Tour de France (Anquetil, Merckx, Hinault, Indurain). Lui lo ha fatto quattro volte, l’ultima nel 2017. Ora è un altro ciclismo, quello dei ragazzi terribili, ma Froome è ancora convinto di potercela fare.

«Molti al posto mio avrebbero mollato, ne avrebbero avuto abbastanza, soddisfatti già per il fatto di essere tornati alla normalità. Ma io no, sono convinto di poterlo fare. Amo troppo questo mestiere, amo il viaggio che porta a una vittoria, fatto di allenamenti, l’attesa, la corsa, la sua evoluzione, quella gioia di un istante quando sai di aver vinto. Il cercare di ottenere sempre il meglio da me stesso. Mi sento come un neoprofessionista, ma con l’esperienza di 13 anni di carriera. Riparto da qui…».

Pidcock come Harry Potter. Magie in discesa, vittoria sull’Alpe

14.07.2022
5 min
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Questa mattina al via Thomas Pidcock era molto serio. Molto più del solito. Era uno dei pochi che stava facendo i rulli sulla sottile striscia di ombra del suo bus. Torso semi-nudo e pantaloncini, mulinava gambe e pensieri nella testa.

Alla luce di tutto questo, poteva starci che stesse tramando qualcosa. La riunione in casa Ineos-Grenadiers l’avevano già fatta.

E noi? Il tempo di montare in auto per fare il trasferimento da Briançon all’Alpe d’Huez e appena arrivati in sala stampa ce lo siamo ritrovati a fare pieghe da MotoGp con Froome a ruota.

Al via di Briancon, l’inglese era concentrato sui rulli, uno dei pochi a farli
Al via di Briancon, l’inglese era concentrato sui rulli, uno dei pochi a farli

Biker inside

Pidcock ha sempre dichiarato di essere un biker, prima ancora di uno stradista. La scorsa domenica si è disputata una super classica di Coppa del mondo: il cross country di Lenzerheide, tra l’altro vinta dal nostro Luca Braidot. Una bolgia con i suoi 50.000 e passa spettatori. Lenzerheide, in Svizzera, corrisponde ad un Fiandre per il Belgio o a una Roubaix per la Francia.

«Mi sarebbe molto piaciuto esserci», aveva detto il campione olimpico in carica. Chissà se adesso dopo questa vittoria prestigiosa sull’Alpe d’Huez, tappa regina del Tour de France, la pensa ancora così?

«Sono davvero felice – ha raccontato l’inglese – ho vinto su una salita iconica. Tutta quella gente lungo la scalata. E’ stata una delle esperienze più belle e folli della mia vita. E’ incredibile».

Dopo l’arrivo, al termine comunque di una scalata gestita con coraggio, Tom crolla. Non proprio sulla linea, come Vingegaard alla Planche, ma appena lo portano nella zona transennata del podio. Lì, si siede. Abbraccia il massaggiatore che lo ha sostenuto e per qualche istante sembra scoppiare in lacrime. Poi mette la testa tra le mani e respira profondamente.

Una discesa storica

Nella discesa che conduceva dal Galibier alla valle della Maurienne, Pidcock ha regalato emozioni. Si è vista tutta la sua classe nel guidare la bici. Non si è campioni olimpici di mtb per caso! Curve rotonde, fatte ad un velocità di entrata pazzesca e una d’uscita altrettanto elevata. Sfruttava tutta la strada.

«Per me è naturale. Credo di essere sceso sempre in sicurezza – dice Pidcock – ho sempre avuto un buon feeling con la bici, con le gomme. Sì – aggiunge scherzando – ogni tanto mi ritrovavo Froome in frenata!».

Sir Bradley Wiggins che lo seguiva era in estasi. Non credeva ai suoi occhi. Un vero show. Specie dopo che ha toccato e superato i 100 chilometri orari in più di un’occasione. Volava. Ha tirato delle curve che sono state delle vere magie. Magie degne del suo connazionale Harry Potter!

Voglia di vincere

Questa tappa però la voleva. La voleva lui e la voleva la sua squadra. A conti fatti era l’unico che poteva fare qualcosa. Thomas era troppo marcato e gli altri non avevano gamba a sufficienza su un percorso simile.

«In realtà la volevo già da un po’ – dice Pidcock – Avrei voluto fare bene anche nella quinta tappa (quella del pavè, ndr). Ma non era facile azzeccarla e azzeccare la fuga in quelle successive. Anche oggi all’inizio la Jumbo-Visma ha controllato molto, non ha lasciato spazio. E infatti in cima al Galibier il distacco dai fuggitivi non era tanto e così ci ho provato».

Giustamente Pidcock ha pensato che Vingegaard e i suoi non si sarebbero presi troppi rischi per rintuzzarlo. Alla fine lui aveva pur sempre 11’12” di ritardo dalla maglia gialla. E ha pensato bene.

Ma anche la sua scalata è stata ottima al pari (quasi) delle sue discese.

«Una scalata folle. Con tutta quella gente non riuscivo a sentire la radiolina, non capivo nulla. Però è stata un’emozione, una spinta pazzesca».

Non capiva nulla ma l’ha gestita alla grande. Non ha esagerato nelle prime rampe e dopo la sua accelerazione è stato più di 4 chilometri con Meintjes a 5″-10″, il che non è una bella sensazione per chi cerca di scappare. Ti senti sempre il fiato sul collo e non hai la certezza di essere il più forte. Poi pian piano il baratro si è aperto e il campione di Leeds ha potuto spiccare il volo anche in salita.

«Fino ai 2 chilometri dall’arrivo – ha concluso Pidcock – non sapevo cosa stesse succedendo. Se davvero potevo vincere. Non sapevo se andare duro, se andare agile e quanto spingere».

Domani Alpe d’Huez e Festa Nazionale: Guerini, cosa ti ricorda?

13.07.2022
6 min
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Giuseppe Guerini è nato e cresciuto a Vertova, in Val Seriana, ed è legato in maniera indissolubile al suo territorio. Lo è così tanto che i suoi tifosi lo hanno soprannominato “Beppe Turbo” vista la vicinanza alla centrale idroelettrica di Vertova. Professionista dal 1993 al 2007, la bici è sempre stata al centro del suo mondo e lo è ancora. Difficile disamorarsi del mezzo che ti ha conquistato fin dalla più tenera età.

«A parte una piccola parentesi dal 2008 al 2010 – racconta Giuseppe dalla Sicilia, dove si trova in vacanza – dove con degli amici ho aperto un negozio di arredi, sono sempre restato nel mondo del ciclismo. Proprio nel 2010 sono entrato in Bianchi e sono diventato il responsabile marketing della Lombardia, ruolo che ricopro tuttora».

Giuseppe Guerini, qui con Colbrelli, dal 2010 lavora come funzionario di vendita per Bianchi
Giuseppe Guerini, qui con Colbrelli, dal 2010 lavora come funzionario di vendita per Bianchi
Com’è stato questo cambio di ruolo?

Mentre sei corridore non ti accorgi di tutto quel che ti circonda, pensi solamente ad andare forte. Non ti rendi conto dell’importanza del feedback dei professionisti per sviluppare un telaio o una bici, come non realizzi quanto sia profonda l’industria della bicicletta. Non mi accorgevo che dietro di me ci fosse un mondo che si muoveva e che cresceva giorno dopo giorno.

Qual è stata la più grande difficoltà che hai incontrato?

Mi sentivo preparato, o per lo meno, pensavo di esserlo ma non era così. Da corridore conoscevo davvero pochi dettagli tecnici o prodotti, quando mi sono lanciato in questa nuova avventura in Bianchi ho dovuto studiare tutto da zero. I primi mesi sono stati complicati, anche alcuni negozianti mi hanno confessato che inizialmente facevo qualche gaffe, ma me la perdonavano visto il mio passato (dice ridendo, ndr).

Ecco il cartello celebrativo dell’impresa di Giuseppe avvenuta nel Tour de 1999, un ricordo indelebile (foto Facebook)
Ecco il cartello celebrativo dell’impresa di Giuseppe avvenuta nel Tour de 1999, un ricordo indelebile (foto Facebook)

Un uomo da Giri

Giuseppe da corridore si è distinto per aver conquistato due terzi posti nella classifica finale del Giro d’Italia, nel 1997 e nel 1998, il secondo alle spalle di Pantani che in quell’anno conquistò anche il Tour. Dopo la parentesi in Polti, dal ‘96 al ‘98 è passato alla Telekom di Ullrich diventando uno dei suoi uomini di fiducia per il Tour de France. E parlando proprio di Grande Boucle, quest’anno ricorre un anniversario particolare. Sono passati 23 anni dalla sua prima vittoria di tappa in terra francese: il 14 luglio 1999 sull’Alpe D’Huez (foto Cor Vos di apertura). E quest’anno, come allora, l’Alpe d’Huez verrà scalata il giorno della Festa Nazionale francese.

Che emozioni provi se ripensi a quel giorno?

Tante, tantissime. Quel periodo storico per il ciclismo italiano era davvero speciale, eravamo davvero forti. L’Alpe d’Huez è una salita magica, se poi l’affronti il giorno della Festa Nazionale lo diventa ancor di più. I colori, le bandiere, la gente, tutto ti travolge su quei tornanti. “Travolge” è proprio la parola giusta, visto che all’ultimo chilometro un tifoso mi voleva scattare una foto e mi ha fatto cadere, fortunatamente sono ripartito subito e sono riuscito a vincere.

A Selva di Val Gardena, nel Giro del 1998 Guerini vince davanti a Pantani
A Selva di Val Gardena, nel Giro del 1998 Guerini vince davanti a Pantani
Cosa ricordi di quel giorno?

Oltre alla caduta, sono successe tante cose. Sulla macchina del giudice di corsa c’era l’amministratore delegato della Telekom, sponsor della squadra. Lui era un grande appassionato di ciclismo ed amava venire con noi alle corse e la sera prima della gara faceva una specie di riunione tecnica (racconta con una risata, ndr). Quel giorno io non dovevo neanche attaccare, ma la sua presenza mi diede una spinta in più. Della salita ricordo la fatica e l’adrenalina dei primi chilometri, non vedevo nulla di ciò che avevo intorno ma sentivo il frastuono, ad ogni tornante c’era un colore ed una lingua diversa. L’Alpe d’Huez negli ultimi 3-4 chilometri si apre e lì sembrava di essere dentro ad uno stadio, se ci penso ho ancora la pelle d’oca. Quando pedali in mezzo a milioni di persone non senti neanche più la fatica.

Quando hai realizzato ciò che avevi compiuto?

Pochi secondi dopo l’arrivo ero frastornato, la caduta e le emozioni mi hanno travolto, poi pian piano mi sono accorto di aver fatto qualcosa di davvero eccezionale. Quando da bambino sognavo di diventare un corridore immaginavo le salite del Giro, mai avrei immaginato di dominare l’Alpe d’Huez.

Ugualmente al Giro del 1998, Guerini terminò terzo in classifica generale, alle spalle di Pantani e Tonkov
Ugualmente al Giro del 1998, Guerini terminò terzo in classifica generale, alle spalle di Pantani e Tonkov

Fra Ullrich e Pantani

Un corridore come Giuseppe Guerini ha visto da vicino, combattendoci sulle strade di Giro e Tour, due mostri sacri di questo sport: Pantani e Ullrich. Giuseppe è nato un mese dopo Marco ed essere venuti al mondo così vicini ha fatto, per forza di cose, incrociare i due più volte nelle varie categorie, ma non così tante di come ci si aspetterebbe. Questo anche a causa delle scelte professionali di Guerini.

Cosa ti ricordi del Pirata?

Io e Pantani abbiamo corso contro molte volte da dilettanti, meno da professionisti. Il primo ricordo che ho di lui è una tappa del Giro d’Italia dilettanti. Vinsi e dietro di me arrivarono Marco e Casagrande. Nel 1998, da professionisti, affrontammo una tappa molto simile, sempre con arrivo a Selva di Val Gardena. Pantani arrivò ancora secondo dietro di me, ma quel giorno conquistò la sua prima maglia rosa.

L’anno dopo sei passato alla Telekom di Ullrich.

Nel 1999 presi la decisione di “sposare” il progetto della Telekom, mi ero reso conto che contro Pantani si correva per arrivare secondi. Quindi andai da Ullrich per aiutarlo a vincere il Tour. Con lui sono stato per 8 anni, l’ho visto da vicino e ho imparato a conoscerlo, il mio arrivo alla Telekom fu particolare.

Nel 1999 Guerini passò alla Telekom di Ullrich, con la quale corse per 9 stagioni, fino al suo ritiro nel 2007
Nel 1999 Guerini passò alla Telekom di Ullrich, con la quale corse per 9 stagioni, fino al suo ritiro nel 2007
Perché?

La Telekom, squadra tedesca, aveva tutti corridori tedeschi, non fu facile entrare in sintonia con la squadra. Io sono stato uno dei primi atleti “oltre confine” ma degli anni con Jan ho un ricordo bellissimo. 

Raccontaci…

Lui era un uomo estremamente gentile, dal punto di vista umano era impeccabile, non si arrabbiava mai con i compagni, era sempre pronto a spendere una buona parola per tutti. Dal punto di vista atletico, invece, un po’ meno. Non aveva molta passione per la bici, si è ritrovato catapultato in questo mondo da giovanissimo grazie al suo immenso talento. A 22 anni ha vinto un Tour de France dal nulla, aveva davvero doti atletiche straordinarie, diciamo che aveva poca voglia di allenarsi ma tanta voglia di fare festa.

Forse questa sua poca passione era quel che gli ha permesso di vivere tutto in maniera più distaccata…

Potrebbe essere, in fondo a lui del ciclismo fregava il giusto. Negli anni in cui ero con lui in squadra avrà fatto 4 o 5 volte secondo al Tour senza mai lottare con Armstrong. Bisogna anche ammettere che Jan arrivava alla Boucle all’80 per cento, se si fosse allenato di più avrebbe potuto vincere qualsiasi gara. Non aveva limiti.