A tu per tu con Lappartient: il ciclismo globalizzato e i costi

25.11.2024
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RIVA DEL GARDA – Al margine della presentazione del Tour of the Alps c’è stata la conferenza dell’AIOCC (Association Internationale des Organisateur de Courses Cyclistes). La corsa a tappe dell’Euregio punta in alto e vuole entrare nel ciclismo dei grandi, ne ha il diritto e la forza di farlo. A questo incontro ha partecipato anche David Lappartient, presidente dell’UCI. Il momento è delicato, il ciclismo vive un periodo di forte globalizzazione, con tante gare fuori dal Vecchio Continente. Da un lato è giusto, la crescita porta ad un’espansione del movimento e della disciplina. Dall’altra parte bisogna fare in modo che gli attori possano seguire il calendario proposto. Nel 2026 si parla di ben 14 gare WorldTour in più, un numero non da poco che obbliga le squadre a pensare al futuro, programmando già gli investimenti. 

A destra David Lappartient, mentre a sinistra Christian Prudhomme, entrambi intervenuti alla presentazione del TOTA
A destra David Lappartient, mentre a sinistra Christian Prudhomme, entrambi intervenuti alla presentazione del TOTA

Il passo giusto?

Uno degli argomenti che ha fatto discutere ultimamente è la questione campionati del mondo. L’appuntamento di Zurigo ha sicuramente regalato un grande spettacolo per il pubblico. Tuttavia è innegabile che i costi del mondiale svizzero abbiano avuto un grande impatto sui bilanci delle varie federazioni. La via però sembra ormai tracciata, e il prossimo appuntamento iridato in Ruanda non sarà di certo meno costoso

«Per noi – ci dice Lappartient in disparte – che siamo l’Unione Ciclistica Internazionale, l’obiettivo è andare ovunque. Nel 2024 siamo stati a Zurigo, ed è stato uno dei mondiali più costosi in una delle città più costose al mondo. Tuttavia l’organizzazione è stata davvero perfetta (forse Lappartient si è dimenticato della scomparsa di Muriel Furrer, la junior svizzera deceduta nella prova in linea iridata, ndr). L’anno prossimo saremo in Rwanda, non siamo mai stati in Africa e quindi è un sogno per tutti. Quando sono diventato presidente dell’UCI ho dichiarato che entro la fine del mandato saremmo andati in questo Continente. Dovevamo andare e così sarà, dopo più di cento anni il campionato del mondo arriva in Africa

Il campionato del mondo di Zurigo è stato uno dei più costosi degli ultimi anni per le federazioni
Il campionato del mondo di Zurigo è stato uno dei più costosi degli ultimi anni per le federazioni
Le federazioni nazionali, con grande probabilità, saranno costrette a sostenere un costo elevato

Sappiamo che per le nostre federazioni nazionali ha un costo. Tuttavia non siamo al pari di altre federazioni internazionali, come la FIFA nel calcio. Quindi non siamo in grado di sostenere direttamente tutte le federazioni nazionali dal punto di vista finanziario. Quello che possiamo fare è dare un sostegno a tutte le Nazioni che partecipano alla prova del mixed team relay. È una cosa che ho proposto due anni fa e che ora non è più così grande, ma almeno aiuta un po’.

Le varie Nazioni dove possono trovare il sostegno?

E’ difficile, sappiamo che è un tasto dolente per le federazioni nazionali, ma hanno le risorse per farlo o il sostegno anche da parte dei vari governi. Il ciclismo è obbligato ad andare nel mondo, nel 2026 i mondiali saranno a Montreal, per poi tornare in Europa nel 2027. 

Girmay Alcudia 2022
Per Lappartient l’arrivo del ciclismo in Africa è un passo doveroso vista la crescita di questo Continente
Girmay Alcudia 2022
Per Lappartient l’arrivo del ciclismo in Africa è un passo doveroso vista la crescita di questo Continente
Il ciclismo è davvero uno sport così internazionale?

La maggior parte delle Nazioni che prendono parte agli eventi UCI sono localizzate in Europa, così come la maggior parte dei corridori in gruppo. Tuttavia ci sono circa cento Nazioni che partecipano attivamente ai campionati del mondo. Ecco perché dobbiamo essere ovunque. 

Non è però un periodo facile, economicamente. 

Vero, lo si vede anche dai governi che tagliano le spese, è il caso dell’Italia ma anche del mio Paese (la Francia, ndr). Naturalmente di questo risentono anche i budget dello sport. A volte sono fermi, il che è vero. E’ chiaro che questa difficoltà si ripercuote anche sulle sponsorizzazioni private, le quali non stanno crescendo a causa dell’inflazione. 

La richiesta di un salary cup non fa piacere ai team che guidano la classifica UCI e che possono accaparrarsi i corridori più forti
La richiesta di un salary cup non fa piacere ai team che guidano la classifica UCI e che possono accaparrarsi i corridori più forti
Le soluzioni quali possono essere?

Cerchiamo di modellare anche altre organizzazioni. Ad esempio, abbiamo ridotto da sei a tre le tappe di Coppa del mondo su pista, passando a tappe di Coppa delle Nazioni. Questo per ridurre anche i costi per la federazione nazionale. Abbiamo anche lavorato sulla Coppa delle Nazioni juniores e under 23, per avere una maggiore collocazione a livello continentale. Non è facile, come UCI cerchiamo sempre di non aumentare gli obblighi per le nostre federazioni nazionali.

Il salary cup tanto richiesto dalle squadre è attuabile?

Crediamo che questo sia un modo per assicurarsi che non ci siano due o tre squadre in grado di dominare. Per l’interesse del gruppo e dello sport stesso è meglio avere più squadre in grado di vincere come avviene in NBA o nel campionato di rugby. Stiamo quindi lavorando a stretto contatto con l’AIGCP.

Guercilena è stato uno degli ultimi team manager ad affrontare il tema dei costi nel ciclismo
Guercilena è stato uno degli ultimi team manager ad affrontare il tema dei costi nel ciclismo
Si riuscirà a raggiungere un accordo?

Naturalmente ci sono alcune discussioni, ma il direttivo è fortemente sostenuto, non da tutti, perché ovviamente i team di punta non sono sempre completamente d’accordo. Direi che la grande maggioranza delle squadre sostiene l’argomento. Ma è vero che il diavolo si nasconde nei dettagli, quindi stiamo lavorando molto anche su quelli. La prossima settimana faremo una presentazione del progetto al seminario dei team WorldTour.

Ci sono degli obiettivi?

Vorremmo iniziare con il prossimo ciclo triennale, nel 2026. Ma inizieremo lentamente e ci vorranno tre anni per avere l’implementazione completa, visto che ci sono già dei contratti firmati che bisogna rispettare. L’obiettivo non è ridurre il budget, è solo fare in modo che il divario tra i top team e gli altri possa essere più contenuto. 

Hagos Berhe, dalla guerra al WorldTour. Una storia tosta

25.10.2022
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In sella per fuggire dai problemi che affliggono il suo Paese, l’Etiopia. Welay Hagos Berhe indossa la nuova divisa della BikeExchange-Jayco, con cui ha firmato un triennale, ed è pronto a tuffarsi in una nuova avventura: l’esordio nel WorldTour è ormai dietro l’angolo.

Ventun anni compiuti sabato scorso e un finale di stagione in crescendo per il corridore africano: l’ultimo graffio con il team development della Education First-Nippo è stato il quarto posto ottenuto a inizio di questo mese al Piccolo Lombardia, la corsa under 23 che ricalca la classica monumento delle foglie morte, un’altra dimostrazione del suo talento.

Welay Hagos Berhe ha compiuto 21 anni pochi giorni fa. Ha un contratto con la BikeExchange fino a tutto il 2025
Welay Hagos Berhe ha compiuto 21 anni pochi giorni fa. Ha un contratto con la BikeExchange fino a tutto il 2025

Ecco il WT

L’emozione traspare negli occhi di Welay che, con qualche frase in inglese, prova a trasmettercela. «Sono davvero eccitato. Il Piccolo Lombardia è stata davvero una bella corsa, il clima era fantastico e sono felicissimo di essere riuscito a chiudere tra i primi con il mio quarto posto».

Negli ultimi anni, il movimento africano sta vivendo una vera e propria esplosione, offrendo stelle del calibro di Biniam Girmay, che nel corso del 2022 ha tagliato due traguardi storici. E’ diventato il primo corridore africano a imporsi in una classica del World Tour, ovvero la Gand-Wevelgem, e ha conquistato un successo di tappa al Giro d’Italia, con i tifosi che ricordano ancora il suo spunto vincente nella decima frazione da Pescara a Jesi per piegare la resistenza di un colosso quale Mathieu Van der Poel.

«Spero di riuscire a ottenere almeno i suoi risultati. Come minimo», ribatte con un sorriso ambizioso Hagos Berhe.

Hagos Berhe ha corse le ultime due stagioni alla EF Education-NIPPO Development Team
Hagos Berhe ha corse le ultime due stagioni alla EF Education-NIPPO Development Team

Fuga… dalla guerra

Oltre a rappresentare un modello per tanti ragazzini che sognano di arrivare in Europa e muovere le prime pedalate nel gotha del ciclismo, per tante persone lo sport rappresenta anche un’occasione di rivalsa sulla vita.

E questo è il caso di Welay che per qualche secondo nasconde il suo sorriso, torna serio e spiega: «Il ciclismo mi ha permesso di scappare nel vero senso della parola. Purtroppo, a casa mia c’è la guerra da novembre 2020 e dopo più di due anni non accenna a smettere.

«Non sono mai più tornato in patria da allora e non ho nessun contatto con la mia famiglia che è rimasta lì, in Tigray, la regione afflitta da questa tragedia. Oltre a non aver nessuna connessione con i miei cari, la situazione ha complicato le cose anche con il visto. Questo lo scorso anno mi ha impedito di correre perché non c’era la possibilità di andare lì e aggiornarlo. Finalmente quest’anno abbiamo risolto questa pratica burocratica e per fortuna sono tornato a correre».

Hagos Berhe ha vinto una corsa in Svizzera il Grand Prix Crevoisier. Ha buone doti di passista: è stato campione nazionale a crono
Hagos Berhe ha vinto una corsa in Svizzera il Grand Prix Crevoisier. Ha buone doti di passista: è stato campione nazionale a crono

Idolo Froome

Il suo modello nel ciclismo è un pezzo di storia recente dello sport globale.

«Chris Froome – dice Hagos Berhe – l’ho visto in tv e mi sono detto che avrei voluto essere come lui. Così ho cominciato a pedalare nella mia terra. Il processo va avanti e spero di diventare come lui, me lo auguro. L’ho incontrato una volta in allenamento quest’anno ed è stato qualcosa di unico per me perché Chris rappresenta così tanto».

I sogni a due ruote? «Vincere in un grande Giro e magari un giorno indossare la maglia gialla del Tour de France. Non so ancora che tipo di corridore sono, ma so che adoro le salite.

«Non ho ancora sperimentato la mia resistenza in una corsa di tre settimane, ma spero di riuscirci al più presto possibile. Per il momento non ci sono ancora piani e devo cominciare gradualmente con una corsa di una settimana. Voglio migliorare in fretta e regalare bei risultati alla Bike Exchange per ripagarli della loro fiducia».

Quest’anno Hagos Berhe si è allenato tra la Svizzera e Calpe, in Spagna, ma la sua salita preferita è dalle nostre parti: «Lo Stelvio è fantastico, ci sono andato in raduno prima del Tour de l’Avenir. Ma comunque, a dirla tutta, adoro qualunque salita, non importa la pendenza, ma l’importante che siano lunghe».

La speranza per ora è di abbracciare presto la propria famiglia: «Non so quando accadrà, soltanto Dio lo sa».

L’occhio sta bene e Girmay riparte con un titolo in più in tasca

24.07.2022
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Ci eravamo lasciati con una vittoria, un tappo in un occhio e un ritiro. Biniam Girmay era riuscito in tutto questo nella decima tappa del Giro d’Italia. Successivamente l’eritreo della Intermarché Wanty Gobert ha fatto parzialmente perdere le sue tracce.

In molti, dopo i successi alla Gand e appunto nella corsa rosa lo aspettavano anche al Tour de France. Ma “Bini” non c’era. La preoccupazione per l’incidente all’occhio non era poca. Noi eravamo lì, dietro al palco, e quella che era parsa solo una botta, in breve si era trasformata in una perdita momentanea della vista. La corsa in ospedale e il danno alla retina.

A Jesi, poco dopo l’incidente con il tappo dello spumante, l’occhio sinistro di Girmay ha iniziato a gonfiarsi in modo preoccupante
A Jesi, poco dopo l’incidente con il tappo dello spumante, l’occhio sinistro di Girmay ha iniziato a gonfiarsi in modo preoccupante

Recupero in Africa

A quel punto Girmay si è fermato. Ha riposato qualche giorno e una volta ripresa la vista è tornato a casa. Adesso però è di nuovo in Belgio. E nel mezzo come è andata?

«Nel mezzo – dice il suo direttore sportivo, Valerio Piva – è tornato ad Asmara in Eritrea. Il problema all’occhio sembra averlo recuperato benone e ha ripreso a correre giusto ieri al Tour de Wallonie. E la sua stagione proseguirà con una serie di brevi corse a tappe e corse di un giorno. Quindi niente Vuelta, per arrivare al meglio al mondiale di Wollongong. Ma puntiamo a fare bene nelle corse canadesi e anche in alcune italiane adatte a lui».

«Il Tour non era mai stato nei suoi programmi. Dopo il Giro sarebbe tornato a casa, magari con altri tempi, ma si sarebbe fermato. Ha fatto due settimane di riposo e due di ripresa lenta e graduale. Lui vive ad Asmara a 2.400 metri di quota, ma può andare anche più in alto».

Campione a crono

E in Eritrea l’aria di casa deve aver fatto bene a Girmay. Si è rimesso in sesto, ha ritrovato fiducia ed ha persino corso. Ha fatto qualche gara minore e ha preso parte alle due prove per i titoli nazionali, quello a crono e quello in linea. Magari il livello non è altissimo, ma come si dice la forma che ti dà la gara non te la dà nessun allenamento.

«Il livello non era alto? Non direi proprio così – riprende Piva – visto che nella gara che assegnava il titolo su strada ha perso. Ai primi posti c’erano Kudus e Tesfatsion e altri buoni corridori ancora, non solo gli europei. Però ha anche vinto! Un po’ inaspettatamente a dire il vero, ma si è portato a casa il titolo a cronometro».

Piva ci dice che da quelle parti le corse non mancano, anche se alla fine si tengono quasi tutte su uno stesso circuito. Anche per Piva tutto sommato si tratta di un buon allenamento buttarsi in quella mischia. «Si fa sempre un po’ di interval training». 

Per Piva, resta ancora l’incognita delle grande salite per l’eritreo
Per Piva, resta ancora l’incognita delle grande salite per l’eritreo

I suoi margini

Sapere che Girmay ha risolto completamente il problema all’occhio e che l’incidente sul podio di Jesi non abbia inciso troppo sui suoi programmi (in pratica non fare il Tour), è una buona notizia. Sarebbe stato un vero peccato che un tappo potesse compromettere la stagione di questo atleta.

Rimane il punto di domanda su cosa avrebbe potuto dargli in più concludere il Giro. Ammesso che arrivare a Verona fosse l’obiettivo.

«Beh – dice Piva – finire il Giro sarebbe stato importante soprattutto in ottica futura, una bella esperienza per valutare la sua forza. Un grande Giro ti porta ad un livello più alto, anche in vista di altre gare come il Tour. Con questo non voglio dire che il prossimo anno non potrà fare il Tour perché non ha finito il Giro.

«Per me Biniam lo avrebbe finito senza problemi. Non ha fatto le grandi montagne, ed è lì che lo avrei voluto vedere. Resta quell’incognita».

Team Qhubeka, l’ultimo articolo è un grido d’aiuto

05.11.2021
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Se non fosse che ad andarci di mezzo sono un’idea e un bel gruppo di brave persone, fra corridori e personale, si potrebbe dire che la storia del Team Qhubeka sia ai titoli di coda e passare oltre. In realtà è triste ammettere che i tempi per presentare la richiesta di affiliazione come team WorldTour siano scaduti dal 19 ottobre e che andare oltre significherebbe pagare anche le sanzioni giornaliere imposte dal severo schema dell’Uci.

La squadra è megafono di Qhubeka Charity, che raccoglie fondi e acquista bici per l’Africa
La squadra è megafono di Qhubeka Charity, che raccoglie fondi e acquista bici per l’Africa

E’ la squadra che lo scorso anno ha accolto Fabio Aru e che ha dato una seconda carriera a Domenico Pozzovivo. Che ha vinto tre tappe al Giro con Nizzolo, Schmid e Campenaerts, chiudendo il ranking in 21ª posizione. Non il massimo, ma non troppo lontano da Lotto Soudal e Team Dsm.

Un grido d’aiuto

L’ultimo grido di allarme di Ryder Douglas è apparso ormai da due settimane sul sito del team, senza che apparentemente ci siano state risposte. La squadra nacque nel 2008 proprio da un’idea di Douglas con il nome di Mtn. Prima continental, poi professional infine dal 2016 nel WorldTour. Ricordate la maglia bianconera con cui Kristian Sbaragli vinse una tappa alla Vuelta del 2015 o ancor prima quella gialla e nera con cui Ciolek vinse la Sanremo 2013 davanti a Sagan e Cancellara?

Con la maglia MTN-Qhubeka, Ciolek vinse la Sanremo del 2013 su Sagan e Cancellara
Con la maglia MTN-Qhubeka, Ciolek vinse la Sanremo del 2013 su Sagan e Cancellara

Il salto di qualità lo fecero nel 2016 con l’arrivo di Dimension Data e al suo ritiro con il breve avvento di Ntt e la presenza di Bjarne Riis. Già alla fine del 2020, quando l’avventura del manager danese si concluse, la squadra parve sul punto di fermarsi. La salvarono Assos e la scelta di alcuni corridori, fra cui Nizzolo, di restare con la sua maglia di campione europeo. Ma ora sembra tutto sul punto di sbriciolarsi.

L’Africa che cresce

L’Africa cresce e proprio sul più bello il solo team africano deve chiudere i battenti? Scrive così Douglas Ryder sul sito della squadra: «Sin dall’inizio, il nostro team ha fornito speranza e opportunità a oltre 50 corridori africani che hanno corso per noi a livello Continental, Pro Continental o World Team e, di conseguenza, hanno avuto l’opportunità di mostrare il loro talento e realizzare i loro sogni.

Kristian Sbaragli, Castellon, Vuelta Espana 2015
Kristian Sbaragli, al terzo anno da professionista, vince così la tappa di Castellon alla Vuelta 2015
Kristian Sbaragli, Castellon, Vuelta Espana 2015
Kristian Sbaragli, al terzo anno da professionista, vince così la tappa di Castellon alla Vuelta 2015

«La recente notizia che il Rwanda ospiterà i Campionati del mondo 2025 è un momento enorme per il nostro sport e uno di cui siamo molto orgogliosi per il ruolo che abbiamo svolto a sostegno dell’Africa, del suo potenziale ciclistico e come destinazione in cui correre. Vedere Biniam Ghirmay dall’Eritrea arrivare secondo ai campionati del mondo U23 quest’anno è stato incredibile. Aveva solo 14 anni quando Daniel Teklehaimanot ha indossato la maglia di re della montagna nel Tour de France 2015 con la nostra squadra. Le loro storie, così come il viaggio di Nicholas Dlamini dalle township di Città del Capo al Tour de France, sono fonte di ispirazione».

Due progetti

Perché dietro c’è un progetto, anzi ce ne sono due. Il primo è quello connesso a Qhubeka Charity, l’associazione che raccoglie e dona biciclette a ragazzi africani, vedendo in quelle due ruote la possibilità di ridurre i tempi di percorrenza verso le scuole e dare così accesso all’istruzione. Il secondo è quello di portare al professionismo corridori africani che negli anni sono effettivamente transitati attraverso la loro continental, guidata prima da Francesco Chicchi e ora da Daniele Nieri, e di lì al professionismo. 

Lo staff della Qhubeka-NextHash fa festa per Aru, che alla Vuelta ha lasciato il ciclismo
Lo staff della Qhubeka-NextHash fa festa per Aru, che alla Vuelta ha lasciato il ciclismo

«Nelle nostre divise Continental e World Team – scrive ancora Douglas – abbiamo personale e ciclisti che sostengono il nostro messaggio, cioè che le biciclette cambiano la vita, e ci consentono di essere una piattaforma per aumentare la consapevolezza e raccogliere fondi per la Qhubeka Charity.

«Siamo completamente unici nel panorama sportivo come organizzazione, guidata da uno scopo che nel corso della nostra partnership decennale con Qhubeka ha visto il team raccogliere oltre 6 milioni di dollari per l’organizzazione di beneficenza e nel processo ha cambiato migliaia di vite».

Ryder Douglas sta ancora lottando, ma il tempo stringe
Ryder Douglas sta ancora lottando, ma il tempo stringe

Un sogno tutto giallo

A Douglas Ryder va dato atto che non si è mai arreso. Altri manager in passato hanno preso atto della situazione e alzato bandiera bianca, lui no. Ma questa volta la sfida è impari.

«Rimaniamo fiduciosi che la nostra storia non sia completa – scrive ancora – il nostro viaggio continuerà, per continuare a cambiare la vita attraverso le biciclette. Ho sempre detto che il nostro sogno per questa squadra sarebbe vedere un giovane africano, che ha iniziato il suo percorso su una bici Qhubeka, correre un giorno sulla strada più famosa del ciclismo: gli Champs Elysée. Solo così il sogno sarà completamente realizzato».

Al via da Torino per l’ultimo Giro, in cui il team vincerà tre tappe
Al via da Torino per l’ultimo Giro, in cui il team vincerà tre tappe

Infine il grido d’aiuto

«Se voi, o qualsiasi membro della vostra rete aziendale – si conclude il toccante testo – desiderate collaborare con il nostro team e continuare a cambiare la vita, contattateci qui. Grazie per il vostro sostegno».

Il messaggio si chiude con un’invocazione di aiuto, quasi la resa di un uomo che le ha provate tutte e sta per mollare. I corridori hanno ricevuto il via libera e hanno trovato altre sistemazioni. Altri sono ancora in cerca. E così il messaggio di Douglas, come la bottiglia di un naufrago, è lì che galleggia da due settimane. Eppure, con un pizzico di ottimismo che non guasta, la sensazione che possa farcela anche questa volta resta ancora a farci compagnia…

Bisolti “inviato speciale” al Tour du Rwanda racconta…

13.05.2021
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C’era un solo italiano al via del Tour du Rwanda, Alessandro Bisolti. Una dozzina di giorni, viaggio di andata e ritorno incluso, nel piccolo Paese nell’Africa centrale. Una corsa diversa, in una Nazione “ciclisticamente nuova”. Una trasferta esotica e ricca di significati.

Il ciclismo si apre a nuove realtà e va in uno Stato e da un popolo che escono da una delle più atroci guerre civili degli ultimi anni. Un genocidio tremendo, quello del 1994, del quale è impossibile definire il numero dei morti (forse un milione). Dovette intervenire l’Onu per ristabilire la situazione. Certe cicatrici restano e quando si riparte, anche con lo sport è sempre un momento importante. E per questo Bisolti era il nostro “inviato”.

All’avventura

«Prima di partire mi sono anche documentato – racconta il corridore dell’Androni Giocattoli Sidermec – Ammetto di essere stato un po’ titubante. Correre in Africa può sembrare un’avventura, soprattutto durante una pandemia. Invece già dall’atterraggio all’hotel si è rivelato tutto subito al top. Ci hanno fornito il numero del governo ruandese, ci hanno fatto il tampone…».

Bisolti è da poco rientrato a casa sua, tra le Valli Giudicarie, sulle sponde del Lago d’Idro e il tono del racconto è squillante e vivo. Sono stati giorni importanti, costruttivi e anche ricchi di sorprese.

«Se riesco a mantenere la sveglia del Rwanda uscirò sempre presto! Alle 5,30 si era già tutti svegli perché le tappe partivano alle 9 e in un paio di occasioni ci sono stati da fare dei trasferimenti visto che siamo rimasti sempre nello stesso hotel».

Tornanti questi sconosciuti

Ma non va dimenticato anche l’aspetto agonistico del viaggio. Bisolti parla di tappe non lunghe ma molto dure e praticamente in altura, visto che la capitale, Kigali, sorge a circa 1.500 metri di quota ed era uno dei punti più bassi.

«Una cosa che mi ha colpito dei percorsi – dice Bisolti – è che non hanno “inventato” i tornanti. Mamma mia che muri. Si andava su dritti con strappi anche al 20%. Salivi di 200-300 metri in un chilometro e mezzo. 

«E poi la gente a bordo strada: che bello! Impazziva letteralmente per la corsa. Purtroppo a causa del Covid non siamo riusciti a godercela in pieno perché le restrizioni erano severe. Avevamo sempre la polizia vicino con i manganelli alla cintura. Però il calore si avvertiva lo stesso. Pensate che una volta dovevo fare pipì e in 140 chilometri ho fatto fatica a trovare un punto dove non ci fosse nessuno per fermarmi. Certe scene di pubblico a bordo strada le ho viste solo quando il Giro partì dall’Olanda. Un entusiasmo che da noi si fa fatica trovare. I bambini ti rincorrevano in salita. E anche in allenamento ogni volta ci salutavano.

«Un giorno, dopo l’arrivo ho regalato un paio di borracce e sembrava chissà cosa gli avessi dato. Mi è dispiaciuto non avergliele potute lanciare con la nuova regola Uci. Un peccato per quei bambini e per me».

Alessandro Bisolti tra i bambini: è “la sua foto” di questa trasferta
Alessandro Bisolti tra i bambini: è “la sua foto” di questa trasferta

La “foto” del Rwanda 

«La mia foto di questa trasferta? I bambini. Un giorno volevo farmi un selfie con loro. Per fare un bello scatto li ho chiamati, sotto l’occhio di una poliziotta. Ne sono arrivati, due, quattro, cinque… in un attimo saranno stati 30. A quel punto mi sono sbrigato perché altrimenti davano la colpa a me di eventuali contagi. E’ la scena che più mi è rimasta in mente».

Bisolti avrebbe voluto avere un po’ più di tempo per godersi il Rwanda, conoscere la gente e i luoghi. Ma le norme sulla pandemia erano severe anche per i corridori e quel poco che ha visto lo ha fatto dalla sella.

Bici tuttofare

«Ho imparato – continua il corridore di Savio – che puoi trasportare ogni cosa con la testa. Vedevi queste donne che mettevano sul capo, banane, ceste, fusti di latte e camminavano con un equilibrio pazzesco. Entravi nei paesi ed era pieno di gente. Tutti che si muovevano a piedi o in bici, sulle quali caricavano di tutto. Nei trasferimenti alle 6 del mattino, vedevamo che erano già tutti super attivi.

«Le strade erano pulite. Davvero un popolo ordinato, dignitoso. Poi sì, c’erano anche delle baracche come succede in queste Nazioni. Il ricco è ricco per davvero e il povero è super povero. E così si passava dai grattacieli moderni, dai quartieri più lussuosi appunto, alle baraccopoli. Mi auguro che tra qualche anno tutti possano stare meglio. 

«Io avevo già corso in Gabon qualche anno fa e la situazione era diversa. Sporcizia per strada, alloggi meno confortevoli, problemi per mangiare, in Rwanda niente di tutto ciò. E poi foreste, cascate… Se dovessi tornare vorrei portare anche la mia compagna, Sara, per farle vedere tutto ciò. Il clima? Sara mi ha detto: non ti sei abbronzato molto! E ci credo, era abbastanza fresco. Un po’ perché si era in alto e un po’ perché uno scroscione lo abbiamo preso o schivato tutti i giorni. Tante volte ci è capitato di passare sulla strada fumante con il sole che faceva evaporare l’acqua appena caduta».

Avamposto francese

Il Rwanda era territorio belga ai tempi del colonialismo, adesso invece c’è una forte influenza francese. Fu proprio la Francia a farsi promotrice dell’intervento Onu del 1994 ed è stata Aso che ha organizzato il Tour du Rwanda. Anche il presidente Uci, David Lappartient si è fatto vedere.

«E’ venuto anche lui. Vogliono organizzare un mondiale in Africa, in Marocco (si parla del 2025 e in ballo c’è il Rwanda stesso, ndr). Di giovani che vanno in bici attrezzati ne avrò visti giusto un paio, però magari anche grazie a queste corse può nascere un movimento che fra qualche decennio può decollare».

Il livello della corsa era buono e infatti in gara c’erano una WorldTour, la Israel Start-Up Nation, e diverse professional, tra cui le francesi Total Direct Energie e la B&B, oltre all’Androni chiaramente.

«Si andava forte – commenta Bisolti – c’erano dei corridori buoni. Noi siamo arrivati al ridosso del via. Alcune squadre invece erano lì già da un po’ e ne hanno approfittato per fare altura. Si erano adattati meglio. Altura più gara: un Rolland della situazione si prepara per il Tour de France.

«Tappe brevi magari ma con 2.500 metri di dislivello. Nella sesta tappa sono andato in fuga ma nel finale sono andato in crisi di fame. Ero un po’ vuoto per qualche problemino intestinale, altrimenti sarei arrivato con Rolland e Vuillermoz, non male!».

Tattiche naif

Bisolti racconta con lo stesso entusiasmo con cui è stato accolto dalla gente ruandese. E tra i suoi ricordi si parla anche della tattica.

«C’erano i giovani di alcune nazionali come Algeria, Eritrea, Kenya… e il modo di correre era un po’ diverso, più confusionario. Per dire: li ho visti scattare mentre si andava a 60 all’ora in un falsopiano in discesa. O partire da soli quando la fuga aveva ormai 10′.

«Ma il meglio è stato all’ultima tappa. Rompo la bici praticamente al chilometro zero. Me ne danno una che non era la mia e sulla quale proprio non riuscivo a pedalare. Così mi dico: vabbè faccio gruppetto. Mi metto dietro tranquillo, quando vedo alcuni corridori che su uno di quegli strappi dritti prendono e scattano. Ma come – mi dico – partono nel gruppetto? Quindi restavo in fondo da solo. In cima erano stremati e li riprendevo. Si mettevano a ruota. Arrivava un altro strappo e giù che riscattavano. All’inizio mi ero anche innervosito, perché comunque non si fa così, poi l’ho presa a ridere. Alla fine ne avevo 20-30 a ruota».